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Come cambia l’NBA dopo la deadline del mercato 2019
08 feb 2019
Il non-scambio di Anthony Davis, la corsa agli armamenti a Est e tutto quello che è successo nell’ultimo giorno del mercato NBA.
(articolo)
21 min
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Anthony Davis, in un modo o nell’altro

Di Dario Vismara

E quindi alla fine Anthony Davis è rimasto ai New Orleans Pelicans. Anzi, molto probabilmente lo vedremo in campo anche da qui a fine stagione, in una situazione surreale in cui il miglior giocatore della squadra non solo scende in campo senza un reale obiettivo (i Pelicans hanno 5.5 partite di distacco dall’ottavo posto che vale i playoff), ma rischia anche di complicare la situazione per il futuro della sua attuale/prossima ex squadra, che con lui in campo rischia di vincere più partite di quante sarebbe auspicabile in ottica Lottery per il Draft.

Quella della sua permanenza, per quanto ci siano queste controindicazioni, era la scelta più ovvia e prevedibile. Se i Pelicans lo avessero ceduto subito senza attendere le offerte più competitive possibili (quelle dei Boston Celtics e dei New York Knicks in caso di prima scelta assoluta), il General Manager Dell Demps avrebbe firmato la sua condanna a morte - non solo per il suo attuale posto di lavoro, ma anche per i prossimi. Anche se il lavoro fatto fino ad adesso con i Pelicans comunque rende improbabile un suo nuovo impiego come capo di una dirigenza (otto anni di Anthony Davis, solo una serie di playoff vinta), non si può sottovalutare l’aspetto personale di tutta la vicenda.

Ora i Pelicans si danno circa cinque mesi di tempo per capire bene il da farsi. Innanzitutto per decidere se sarà Demps a scegliere quale pacchetto accettare per Davis (e la situazione della proprietà è molto complicata). E poi per attendere le migliori offerte possibili a seguito della Lottery (prevista per il 14 maggio, quando si saprà l’ordine di scelta al Draft) e dei playoff (che promettono di avere enormi implicazioni sulla free agency, specialmente a Est dove uno tra Kyrie Irving, Kawhi Leonard e Jimmy Butler/Tobias Harris andrà fuori al secondo turno). È quindi probabile che fino alla notte del Draft non sapremo nulla della prossima destinazione di Davis, ma sappiamo già chi è uscito perdente dalla deadline del mercato, e sono i Los Angeles Lakers.

I gialloviola avevano più pressione di tutti per chiudere l’accordo subito, dando a LeBron James la possibilità di farsi un viaggio ai playoff con AD invece che con i giovani che nelle ultime settimane non hanno dimostrato di essere pronti a fare il salto di qualità. Inoltre, i Lakers avranno molta più concorrenza in estate non solo per Davis, ma anche per gli altri free agent sul mercato, visto che sia i Knicks che i cugini dei Clippers potranno offrire due slot per contratti al massimo salariale, permettendo ai super-big di scegliersi il proprio partner per gli anni a venire. Magic Johnson e Rob Pelinka, invece, possono offrire solo un LeBron James (alla soglia dei 35 anni) e l’allure della franchigia più famosa della NBA, ma non un progetto tecnico convincente (la panchina di Luke Walton continua ad essere traballante) o una prospettiva di vittoria immediata e certa. Insomma: non essere riusciti ad accontentare le richieste dei Pelicans (che volevano quattro prime scelte e quattro seconde oltre a tutti i giovani anche solo per cominciare a parlare) ha fatto perdere un bel po’ di inerzia al progetto di rinascita gialloviola.

Quando si dice che una foto vale più di mille parole.

Al contrario, nella corsa ad Anthony Davis i grandi vincitori sono i Celtics, che ora tornano prepotentemente alla ribalta forti della promessa del miglior pacchetto possibile per i Pelicans. Nonostante l’agente Rich Paul abbia schierato tutte le forze possibili e immaginabili per sconsigliare il loro inserimento (tanto da spingere il papà di AD a parlare male di Danny Ainge per la mancanza di lealtà nei confronti di Isaiah Thomas, come se avesse un qualche peso nella situazione di suoi figlio), sono loro da considerare in pole position in vista di luglio, visto che sono gli unici ad avere la combinazione di contratti, scelte e giovani per accogliere le richieste di New Orleans. Bisognerà però capire se verrà inserito Jayson Tatum, ma su questo punto cruciale peseranno tantissimo i playoff, quando i Celtics capiranno quanto sono vicini o lontani dal contendere davvero per il titolo.

In seconda fila si presentano Knicks e Clippers, che hanno dalla loro le scelte al Draft per poter invogliare i Pelicans a far ripartire il loro progetto di ricostruzione attraverso i giovani. Nessuna delle due ha i “blue chipper” del calibro di Tatum o Jaylen Brown, ma entrambe sono sulla short list di Anthony Davis per un rinnovo di contratto insieme a Milwaukee (che però non ha chance di mettere assieme un pacchetto competitivo) e quindi hanno speranze di poter contare sulla volontà del giocatore. Insomma, dovremo convivere ancora per diverso tempo con la situazione di Anthony Davis, ma buona parte degli equilibri dei prossimi cinque anni di NBA passano da qui - e quindi val bene l’attesa.

Tobias Harris e l’all-in di Philadelphia

Di Lorenzo Bottini

Nel poker, andare “all-in” è un modo per costringere i propri avversari a una scelta binaria: o accettano il rischio, o passano la mano. È esattamente quello che ha fatto il General Manager dei Philadelphia 76ers Elton Brand per ben due volte in questa stagione: prima prendendo Jimmy Butler da Minnesota, poi spedendo Landry Shamet, Mike Muscala, Wilson Chandler e due prime scelte (la propria del 2020 protetta per tre anni e la 2021 di Miami) per Tobias Harris, Mike Scott e Boban Marjanovic dai Clippers. Una mossa molto aggressiva, che garantisce immediatamente a Phila un quintetto base per giocarsi le finali di Conference.

Andare “all-in” è però anche chiudere gli occhi e spingere tutte le fiches in mezzo al tavolo sperando che accada qualcosa di buono, anche perché quando le fiches sono lì in mezzo al tavolo non si possono più recuperare senza vincere, e i Sixers ora si sono condannati al boom or bust. I contratti di Butler e Harris, entrambi in scadenza a fine stagione e da rinnovare a cifre vicine al massimo salariale, porterebbero la squadra ad ingolfare il cap nel caso volessero mantenere questo core dei nuovi Big 4, lasciando pochissimo margine di manovra.

Con solo Embiid, Simmons, Butler e Harris a libro contabile, i Sixers potrebbero avere bloccati 118 milioni, e i costi sarebbero destinati a salire di anno in anno. Una scelta radicale per una franchigia che ha negli ultimi anni predicato una religiosa applicazione di un progetto di crescita regolare, senza strappi. Ora invece è arrivata l’accelerazione finale, quella che secondo il front office dei Sixers dovrebbe portare la squadra della Pennsylvania almeno in finale di Conference. Lo scorso 8 febbraio 2017, nella sconfitta contro i San Antonio Spurs, i Sixers scesero in campo con il seguente quintetto (reggetevi forte): T.J. McConnell, Gerald Henderson, Robert Covington, Ersan Ilyasova e Jahlil Okafor. Stasera, esattamente due anni dopo, contro i Nuggets il quintetto titolare sarà formato da Ben Simmons, J.J. Redick, Jimmy Butler, Tobias Harris e Joel Embiid. Da una formazione di G-League ad una rispettabile contender in un Est che si sta trasformando in una giungla tropicale nel giro di due anni.

Harris si incastra perfettamente come ultimo pezzo per chiudere il puzzle in mano a coach Brett Brown. Sta giocando la sua miglior pallacanestro di sempre a 20.7 punti, 7.9 rimbalzi e 2.7 assists di media a partita, il tutto con un efficientissimo 49.3% dal campo e 42.2% da tre (60.2% di percentuale reale). È uno dei cinque giocatori in NBA quest’anno a segnare più di venti punti a partita con oltre il 40% da tre, il che lo rende un fit perfetto in una squadra che ha un disperato bisogno di tiratori affidabili capaci anche di costruirsi il proprio tiro. Inoltre Harris è il giocatore con l’usage più basso tra i migliori 25 realizzatori in NBA ed è uno di quelli che si muove di più senza palla. In un attacco come quello dei Sixers che insiste molto sul movimento continuo di palla e uomini, Harris troverà molti spazi nei quali incidere senza togliere troppi tocchi a Butler ed Embiid.

Il game winner contro Charlotte con il quale Tobias Harris si è accomiatato dai Clippers

Molto probabilmente i Sixers hanno pagato un prezzo troppo alto per tre mesi di un giocatore in scadenza di contratto, ma così facendo Phila si è garantita il diritto di esercitare i Bird Rights su Tobias Harris e quindi essere in pole position per rifirmarlo a luglio. Harris si integra perfettamente con la timeline del duo Simmons - Embiid e rappresenta un’assicurazione nel caso in cui se ne vada l’altro free agent in casa Sixers, Jimmy Butler. Elton Brand poi è andato a fare shopping durante i saldi dei 3&D, uscendo con in busta Mike Scott, James Ennis e Jonathon Simmons. Tre corpi ancora spendibili in una rotazione NBA che danno finalmente profondità alla panchina di Brett Brown e qualche possibile flessibilità tattica.

A pochi minuti dal gong però è arrivata la notizia che ormai tutti si aspettavano, ma che nessuno aveva il coraggio di auspicare: Markelle Fultz è stato spedito ad Orlando per Simmons, una prima scelta protetta-20 di OKC e una seconda da Cleveland. Il tempo di Fultz a Philadelphia era scaduto da tempo, più o meno da quando ha tirato un libero con l’hesitation in mezzo, e il suo contatto era diventato troppo pesante in un cap ormai ingolfato dai nuovi arrivati. Nessuna prima scelta assoluta ha giocato così poche partite per la squadra che l’ha scelto al Draft (appena 33 in due anni) e nessuna ha ricevuto la morbosa attenzione da cronaca nera di Fultz. Forse l’aria di mare di Orlando curerà la sindrome dello stretto toracico che gli impedisce di tirare normalmente un pallone da basket, e forse il cambio di scenario lo libererà dalla pressione di una squadra che voleva vincere senza aspettarlo. Ormai Markelle non è più una prima scelta in cerca d’autore, non è neanche più una fregatura di Danny Ainge che invece voleva Jayson Tatum. È solo un ragazzo alla disperata ricerca di se stesso e del suo tiro.

Il grande piano di Jerry West per i Clippers

Di Dario Costa

Il Big One, l’apocalittico terremoto destinato ad abbattersi sulla città stravolgendone per sempre il paesaggio, rappresenta l’incubo recondito che tormenta le notti di Los Angeles. Per quella frangia, parecchio minoritaria, di pubblico cittadino che ama i Clippers le prove generali dello sconvolgimento, fortunatamente solo a livello cestistico, sono cominciate nel giugno del 2017. Dall’ingresso di Jerry West nel front office, ufficialmente con un ruolo consulenziale tradottosi poi in mandato a decostruire l’identità dell’intera franchigia, niente è stato più come prima.

In questo senso, lo scambio che ha portato Tobias Harris a Philadelphia appare come il logico approdo di un’opera di trasformazione portata avanti senza guardare in faccia a nessuno, giocatori franchigia (o presunti tali) compresi. In meno di venti mesi l’unico giocatore rimasto a vestire la maglia è Luc Richard Mbah A Moute, peraltro cavallo di ritorno reduce da un’annata in Texas a Houston. E se la rinuncia a Harris indebolisce la squadra nel breve e potrebbe costare l’accesso ai playoff, in ottica futura il lavoro svolto da West mette i Clippers nelle condizioni ideali per provare a scalare la vetta della Western Conference. A fronte di un tetto salariale che supererà sensibilmente i 100 milioni di dollari, infatti, il monte stipendi garantito con cui Steve Ballmer e soci si presenteranno a inizio luglio dice 49 milioni, mentre quello dell’estate 2020 è di soli 8 milioni (19 se verranno confermati i rookie Shai Gilgeous-Alexander, Robinson e Shamet).

Insomma, lo spazio per firmare i migliori free agent disponibili nelle prossime due estati, dal sogno nemmeno tanto segreto Leonard in giù, non manca. Inoltre, gli scambi con cui si è dato l’addio a Paul, Griffin e Harris hanno portato in dote cinque scelte da spendere in aggiunta alle proprie nei Draft tra il 2020 e il 2023. Si tratta in questo caso di asset da utilizzare in ulteriori trade oppure, a seconda delle convenienze del momento, di occasioni per rimpolpare il roster con prospetti di talento dai contratti economicamente poco impegnativi. Non solo: l’impressione comune è che grazie a questa coraggiosa opera di trasformazione la franchigia si sia guadagnata una rispettabilità fin qui chimerica, diventando meta appetibile per le stelle di prima grandezza.

Con un proprietario appassionato e che, al netto di qualche goffaggine a livello di pubbliche relazioni, è disposto a spendere, un allenatore che, pur considerando qualche passaggio a vuoto di troppo, rimane valido prototipo di player’s coach e una città che, nonostante gli ingombranti vicini di pianerottolo, rappresenta un mercato mediatico insuperabile, quello che offrono i Clippers oggi è competitivo sul mercato dei free agent. E poi ci sarebbe anche quel signore ritratto nel logo della lega, che a ottant’anni suonati sembra ancora avere un coraggio e una lucidità con pochi eguali.

Harrison Barnes spedito a Sacramento a metà partita

Di Fabrizio Gilardi

Paul Pierce ha detto che Harrison Barnes sapeva che c’erano alte probabilità che potesse concretizzarsi uno scambio che lo avrebbe coinvolto, ma che ha deciso liberamente di giocare nonostante tutto. Chi siamo noi per contraddire PP o anche solo per dubitare delle sue parole? Sarebbe bene farlo, secondo diverse testimonianze, ma non è questo il punto.

Resta il fatto che l’intera dinamica è stata totalmente surreale, con lotta serrata per il titolo di Campione dell’Assurdo tra il regista (che si è occupato delle trasmissione di Mavericks-Hornets, il quale ha mandato in sovraimpressione i dettagli dello scambio e invitato i telecronisti a parlarne) e i tifosi seduti nelle prime file dell’American Airlines Center (che leggevano sui propri smartphone le notizie in tempo reale e le comunicavano a Barnes, in bilico tra pietà, diritto di cronaca e sbeffeggio).

https://twitter.com/therushyahoo/status/1093362100246798342

Tutto ciò però riguarda soprattutto l’altra franchigia coinvolta nello scambio, perché i Sacramento Kings per la prima volta in una dozzina di stagioni sembrano una squadra normale, con un allenatore normale (e pure molto bravo), un contesto tecnico normale e dirigenti che prendono decisioni normali. Le squadre normali che non hanno chance di attrarre i free agent di grido utilizzano le proprie risorse per approfittare degli affari del momento, come fatto in estate con Nemanja Bjelica (nella top 10 del ruolo secondo il Real Plus-Minus di ESPN) e ora con Barnes, di cui i Mavericks si sono sostanzialmente liberati e che invece Sacramento accoglie a braccia aperte, perché con gran parte dei giocatori ancora nei contratti da rookie non deve preoccuparsi dell’ammontare del suo stipendio.

Per inseguire i playoff i Kings avevano bisogno di un difensore sugli esterni alto e con braccia lunghe, un giocatore versatile, adatto a giocare a ritmi alti, che non avesse bisogno di troppi possessi con il pallone in mano, ma in grado di creare un tiro per sé in situazioni di emergenza. E non esiste sul mercato un giocatore più fedele a questo identikit dell’ex Warrior tra quelli che Vlade Divac poteva pensare di ingaggiare, figurarsi a queste condizioni. Forse non saranno un “Super Team, ma giovane”, ma continuando di questo passo a Sacramento potranno togliersi diverse soddisfazioni ed avere qualcosa da dire anche da aprile in poi.

Le acrobazie di Houston per evitare la luxury tax

Di Fabrizio Gilardi

Otto Porter sarebbe stato un giocatore incredibilmente utile per gli Houston Rockets, sia in attacco che in difesa, ed è finito a Chicago al prezzo dei diritti da restricted free agent di Bobby Portis e di contratti in scadenza, quasi nulla. E lo stesso discorso vale per Nikola Mirotic, che è costato poco di più ai Bucks. Non che Iman Shumpert non possa dare una mano ai Rockets, anzi, è il perfetto giocatore di complemento e specialista difensivo per una squadra costruita intorno allo strapotere del Mostro con la barba. Però si inserisce in una rotazione già profondissima per quanto riguarda i giocatori sotto i 2 metri, ma che aveva tremendamente bisogno di trovare un partner in ala per P.J. Tucker o almeno un suo cambio.

Le mosse di Daryl Morey degli ultimi giorni però non possono essere lette secondo i canoni del campo. Anzi, è quasi un miracolo che sia arrivato un ingranaggio funzionale come Shumpert. La volontà del proprietario Tilman Fertitta, infatti, era quella di abbassare i costi e scendere appena sotto la soglia della Luxury Tax, in questa stagione fissata a quota 123,7 milioni di dollari. Una soglia evitata grazie alla squalifica di Paul (in caso di squalifica i giocatori non vengono pagati e l’impatto del contratto sul cap viene quindi ridotto) e, paradossalmente, all’infortunio di Capela (che impedirà al centro svizzero di raggiungere i requisiti per far scattare alcuni bonus previsti dal suo contratto). Circostanze certo non fortunate, ma con una faccia della medaglia comunque sorridente per i Rockets.

In pratica tramutando James Ennis (finito a Philadelphia) in Shumpert, Morey ha permesso di risparmiare oltre 15 milioni tra tassa e salari, cui aggiungere gli oltre 3 che verranno versati dalle squadre che pagano la tassa (in questa stagione Celtics, Warriors, Heat, Thunder, Blazers e Raptors) a quelle che non la pagano, ed in più si è liberato del contratto di Brandon Knight, quasi 16 milioni nel 2019/20. E, soprattutto, ha rinviato almeno fino al 2022/23, ovverosia quando il contratto di Chris Paul sarà scaduto, il rischio di pagare la Repeater Tax, la penalità aggiuntiva per chi paga la tassa in 3 delle precedenti 4 stagioni e in cui Fertitta non ha alcuna intenzione di incorrere.

L’idea è chiara: questa potrebbe essere l’ultima stagione degli Warriors per come li conosciamo e quindi è meglio giocare questa mano in modo conservativo, nonostante l’incredibile rendimento di Harden, e provare a puntare qualche fiche in più sulle prossime due stagioni, nella speranza che l’MVP uscente (e non solo?) continui su questo livello e che Chris Paul invecchi molto, molto lentamente. Se sia giusta o meno è al momento impossibile da sapere, ma nelle valutazioni di una proprietà e una dirigenza subentrano anche e soprattutto questi aspetti - e non si può certo far finta che non esistano.

Marc Gasol e la rinnovata flessibilità di Toronto

Di Dario Vismara

Nella grande corsa alle armi della Eastern Conference, Masai Ujiri non poteva lasciare che la deadline passasse senza provarci ancora un po’ di più. C’è pur sempre un Kawhi Leonard da convincere a rifirmare e un viaggio alle Finals da conquistare per la prima volta nella storia della franchigia. E per quanto le probabilità sembrino piuttosto risicate al momento (più per la prima circostanza che per la seconda), l’arrivo di Marc Gasol permette di dare un segnale chiaro all’ambiente: questo è l’anno in cui provarci fino in fondo, poi domani si vedrà che strada intraprendere.

Il contratto di Gasol, che prevede una player option da 25 milioni per il prossimo anno, permette una flessibilità pressoché unica, affrontando un discorso molto chiaro con lo spagnolo. Nel caso in cui Leonard decidesse di rimanere (visto che le cose sono andate bene), si può pensare a continuare insieme, sia rimanendo nel contratto che firmandone uno più lungo seppur inferiore a quei 25 milioni annui. Nel caso in cui Leonard se ne andasse, invece, i Raptors sono già pronti a premere il tasto “reset” e ricominciare da capo sui giovani attorno a Pascal Siakam, e quindi Gasol non avrebbe alcun incentivo a rimanere nel contratto o a rifirmare, diventando free agent per trovarsi una nuova squadra. E anche nel caso in cui non volesse rinunciare ai 25 milioni esercitando la sua player option, diventerebbe un enorme contratto in scadenza da utilizzare sul mercato insieme a quelli di Kyle Lowry (33.4 milioni) e Serge Ibaka (23.2 milioni). In definitiva, i Raptors sono ancora di più in modalità “o la va o la spacca”.

Il tutto senza considerare l’apporto in campo, dove Gasol si inserisce bene in una squadra che non gioca ad alti ritmi (poco più di 100 possessi con Kawhi in campo) e fornisce una dimensione di tiro e, soprattutto, di passaggio pressoché inedita nella posizione di centro. I Raptors sono una squadra che esplora pochissimo i gomiti in attacco, ufficio privilegiato del centro spagnolo, che comunque con la sua dimensione di tiro perimetrale ha la possibilità di togliere corpi dalla strada di Leonard verso il ferro avversario. Certo, il suo inserimento crea dei problemi di rotazione (chi fa spazio in quintetto, Ibaka o Siakam?), e ci saranno accoppiamenti di playoff in cui sarà difficile tenerlo in campo, oltre alla perdita della pressione al ferro che Valanciunas garantiva con i suoi roll dopo i blocchi.

Ma per un prezzo come quello di Delon Wright (che non aveva del tutto convinto in questa stagione, finendo anche in panchina a lungo) e dei contratti di Valanciunas (a lungo infortunato) e C.J. Miles (caduto in disgrazia al tiro), che oltretutto avevano delle player option piuttosto scomode per la prossima stagione specialmente per due riserve, è un rischio che valeva la pena correre anche nel caso in cui le cose dovessero andare male. Il tasto “reset” è lì da premere.

https://twitter.com/ChrisVernonShow/status/1092957473848213504

Un Gasol deve sempre stare a Memphis. Ed ora, per la prima volta nella storia della franchigia, non ci sarà.

Nikola Mirotic è un fit perfetto per Milwaukee

Di Daniele V. Morrone

L’arrivo di Tobias Harris ai Sixers ha spinto la prima squadra a Est a muoversi per un ultimo ritocco in grado di dare una mano in vista dei playoff più impronosticabili dell’era post-LeBron. Nel giro di 24 ore i Bucks hanno sostanzialmente montato uno scambio a tre con i Pistons e i Pelicans, in cui per Thon Maker, Jason Smith e quattro seconde scelte (una loro, una dei Nuggets e due degli Wizards) sono riusciti ad arrivare a Nikola Mirotic. Lo scambio inoltre porta la squadra di poco sotto la luxury tax (circa 700mila dollari) e con un posto a roster libero per accogliere uno dei giocatori che verranno tagliati in questi giorni. Mirotic ha un contratto in scadenza e questo lo rende prima di tutto uno scambio per il brevissimo periodo, ma il serbo-spagnolo diventa immediatamente un giocatore che può avere ampio minutaggio ai playoff, migliorando quello che già fa Ersan Ilyasova. Poi per il resto si vedrà, anche perché quattro quinti del quintetto che ha messo a ferro e fuoco l’NBA sono in scadenza.

I Bucks hanno ormai capito come far rendere al massimo la propria stella Antetokounmpo, e Mirotic sulla carta si inserisce senza problema in questo sistema: un giocatore con il 38.1% nelle triple catch and shoot, forse la singola caratteristica più utile accanto a Giannis, ma anche un giocatore abbastanza agile per battere i closeout e buttarsi nel pitturato che i Bucks lasciano perennemente libero. Praticamente Mirotic consente di migliorare ancora la già alta predisposizione dei Bucks verso un gioco fatto di triple e canestri da sotto grazie ad attaccanti efficienti, peraltro senza sacrificare una delle prime scelte dei Draft futuri (dopo averne già lasciate in giro fin troppe).

https://twitter.com/seeratsohi/status/1093571326529351681

Mirotic non è una stella, ma a modo suo è una risposta proprio a Harris, perché è un giocatore dai pregi che possono esaltarsi nel sistema di Budenholzer e che soprattutto in vista dei playoff aumenta ancora di più la versatilità della squadra. Se la paura dei Bucks per i playoff era quella di vedersi costretti a togliere Brook Lopez dal campo contro quintetti troppo veloci, ora con Mirotic vengono sostanzialmente mantenute le caratteristiche di Lopez in attacco: con un quintetto formato da Bledsoe - Brogdon - Middleton - Mirotic - Giannis si apre comunque l’area per le penetrazioni del greco, migliorando però la mobilità in difesa per reggere quintetti veloci, visto che Mirotic è abbastanza versatile e un buon rimbalzista difensivo, pur senza eccellere per qualità difensiva. Contro quintetti alti i Bucks possono direttamente provare Mirotic e Lopez, senza ancora una volta intasare l’area per le incursioni di Giannis. Nella corsa agli armamenti delle pretendenti ad Est, i Bucks possono ritenersi soddisfatti del lavoro fatto alla deadline.

Markelle Fultz è la scommessa (a basso costo) di Orlando

Di Fabrizio Gilardi

Nella sua vita precedente Markelle Fultz deve avere fatto cose molto brutte o probabilmente pagava i suoi collaboratori in visibilità, perché altrimenti non si spiega come sia possibile che sia finito in una franchigia che per le pubbliche relazioni è ancora più disastrosa di quella che lascia.

A Orlando però Fultz troverà una situazione vantaggiosa per ripartire da capo, da almeno tre punti di vista: nella stireria di riferimento dei dirigenti dei Magic si usa meno amido di quanto ne fosse presente su un solo colletto di una camicia a caso di Bryan Colangelo; tutti i parchi e luoghi di divertimenti della zona messi insieme hanno meno profili e account sui vari social network di quanti ne avesse Barbara Bottini, moglie del vecchio GM dei Sixers; media nazionali (unica presenza costante Josh Robbins di The Athletic) e locali fanno a gara a chi ha meno interesse per le sorti della squadra, e quindi si spera che si possano evitare gli isterismi di massa vissuti a Philadelphia per ogni tiro tentato in allenamento.

Nel peggiore dei casi Orlando ha pagato un prezzo misero per vedere se Fultz può essere un giocatore utile; nel migliore dei casi ha raccattato quasi per caso la cosa che più può assomigliare a un giocatore franchigia tra i componenti attuali del roster, a prescindere dalle caratteristiche tecniche e dalla compatibilità con i compagni presenti e futuri.

Nessuno o quasi sa se la sindrome dello stretto toracico superiore che è stata diagnosticata a Markelle sia la causa o la conseguenza delle difficoltà al tiro. Nessuno o quasi sa se ci siano delle componenti psicologiche e se a loro volta siano causa o conseguenza dei problemi fisici. Nessuno o quasi sa se sarà pronto a giocare in questa stagione. E nessuno o quasi sa che intenzioni abbiano i Magic nel medio termine, mentre nel breve è chiaro che non avendo ceduto né Ross né Vucevic cercheranno di qualificarsi per i playoff. Ma il prezzo era talmente basso e la vincita potenziale talmente alta che sarebbe stato un delitto non scommettere su Fultz, specie per una franchigia che resta saldamente incatenata al limbo della NBA.

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