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Come si disegna il percorso di un grande giro
18 ago 2022
Lo abbiamo chiesto a Fernando Escartin, direttore tecnico della Vuelta.
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10 min
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Javier Martínez de la Puente/NurPhoto via Getty Images
(copertina) Javier Martínez de la Puente/NurPhoto via Getty Images
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Uno degli argomenti più dibattuti e divisivi nel mondo del ciclismo sono i percorsi. E i percorsi dei grandi giri non possono di certo sottrarsi, anzi la notorietà delle grandi corse a tappe amplifica, e di molto, la discussione. Il 18 agosto partirà La Vuelta a España, il terzo grand tour in ordine temporale della stagione, e siamo sicuri che in Spagna il dibattito sul suo percorso sia già molto acceso. Le nostre discussioni, però, si rivolgono al prodotto finito, se così si può dire, e non possono per forza di cosa penetrare i ragionamenti fatti a monte dagli organizzatori. Perché un giro passa per una città invece che un'altra? Perché viene scelta proprio quella salita? Per entrare meglio nei meccanismi che portano al disegno finale di un grande giro ho deciso di parlare con chi fa proprio questo per lavoro, nel caso della Vuelta Fernando Escartin.

Escartin è un ex ciclista spagnolo degli anni ‘90 - primi anni 2000. Scalatore, ha partecipato in carriera a 20 grandi giri tra Giro d’Italia, Tour de France e Vuelta a España, nel palmares ha ben tre podi e tredici top 10. Oggi lavora per Unipublic, l’azienda del gruppo A.S.O. che organizza la Vuelta, nel ruolo di direttore tecnico. Oltre a lui, nel team di direzione sportiva, ci sono Kiko Garcia e Gonzalo Alonso. «Congiuntamente con la direzione generale nella figura di Javier Guillen, siamo responsabili, tra le altre cose, di disegnare il percorso di gara», mi dice.

Le variabili da tenere in considerazione per disegnare un grande giro, mi dice Escartin, sono sostanzialmente cinque: logistica, politica, geografia, esperienza ciclistica, turismo. Per quanto riguarda le prime due, la figura di Javier Guillen è fondamentale. «Javi [come lo chiama affettuosamente durante l’intervista, nda] mantiene tutti quelli che sono i contatti con le istituzioni spagnole che si dividono le responsabilità: las diputaciones (i nostri comuni) e los gobiernos autonómicos (le nostre regioni). Una volta capito quali sono le istituzioni che vogliono ospitare le partenze, gli arrivi, ma anche il solo passaggio della corsa, iniziamo congiuntamente a pensare a come fare La Vuelta: se la vogliamo più o meno dura, dove inserire le montagne, se vogliamo raggruppare le tappe più dure nel fine settimana e se abbiamo la necessità di fare tappe più o meno corte».

Tenendo in considerazione tutti i fattori, è un lavoro molto lungo che richiede almeno un anno di lavoro: «Stiamo già ovviamente lavorando a La Vuelta 2023. Anche per un motivo che consideriamo molto importante: la nostra filosofia è quella di portare La Vuelta alla gente e per avvicinarla il più possibile abbiamo bisogno di arrivare al centro delle città. Oggi come oggi, le barriere architettoniche e l’arredo urbano delle città ci mette di fronte alla necessità di dover fare numerosi sopralluoghi per tempo in modo che la sicurezza dei corridori sia garantita. La grande partenza [le tre tappe iniziali, nda] invece solitamente si decidono ancora prima. Perché la macchina promozionale va avviata per tempo».

Quest’anno, tutti e tre i grandi giri hanno scelto una partenza estera (il Giro in Ungheria, il Tour in Danimarca, La Vuelta in Olanda). Questa scelta ha sollevato spesso numerose critiche per ragioni etiche, nel caso in cui la partenza avvenga in un Paese con una brutta reputazione per quanto riguarda la democrazia e il rispetto dei diritti umani. Escartin è molto chiaro a riguardo: «Non so come gli altri organizzatori gestiscano questa scelta ma per noi il motivo è semplice: internazionalizzare La Vuelta. Se vogliamo arrivare ad un pubblico sempre maggiore è uno dei modi migliori e rispecchia in pieno la nostra filosofia di portare la corsa alla gente. Non c’è niente di meglio che farli entrare nel vivo della gara». Questa scelta deve anche essere supportata da altri elementi: «Quest’anno ci siamo stati avvicinati dalla municipalità di Utrecht perché volevano essere la prima città al mondo ad ospitare la partenza di tutti e tre i grandi giri [nel 2010 il Giro d’Italia, nel 2015 il Tour de France, nel 2022 La Vuelta, nda]. Inoltre i Paesi Bassi sono una nazione in cui il ciclismo è molto seguito e il Paese offre alcune difficoltà tecniche come il vento che abbiamo reputato interessanti per le prime tre tappe».

La necessità di coniugare le esigenze turistiche delle località ospitanti, la logistica degli spostamenti e le esigenze sportive della corsa è uno dei temi che reputo più affascinanti del lavoro di Escartin, e credo anche uno degli elementi di valutazione più spesso sottovalutati dal pubblico. Sorridendo mi fa notare che: «Noi siamo molto fortunati perché tutti ci chiedono di avere tappe di montagna e non dobbiamo quasi mai scendere a compromessi. Anzi spesso siamo costretti a rinunciare ad alcune tappe per non rendere la corsa troppo dura. La montagna è indubbiamente il maggiore spettacolo del ciclismo e alle istituzioni interessa perché genera più ripercussione mediatica. La Vuelta è in diretta televisiva in oltre 190 Paesi nel mondo e ovviamente la ripercussione turistica può essere importante».

Il meglio della Vuelta dello scorso anno.

Parlando di montagna, non posso non fargli una domanda sulle salite che in Spagna vengono definite “Cuestas de Cabras”, in italiano letteralmente “pendii da capra”, veri e propri muri con pendenze talvolta superiori al 20% che hanno contraddistinto La Vuelta in questi anni e che hanno attirato numerose critiche degli appassionati più puristi. «Li leggo i commenti negativi e li comprendo. Poi però se guardiamo i dati che ci arrivano dalla TV vediamo l’esatto contrario. I picchi si hanno in quei momenti di estrema sofferenza dei corridori. Penso che sia lo stesso fenomeno che gli antichi vivevano nelle Arene, alla gente piace vedere il sangue, la sofferenza, ovviamente oggi solo da un punto di vista sportivo».

«Questo tipo di salite inoltre ci permette di avere uno sviluppo della corsa che rispecchia le nostre idee: vogliamo tappe intense, corte, in cui gli attacchi siano favoriti ma senza generare troppi distacchi. Noi crediamo che al giorno d’oggi non servano sei ore di tappa, certo in alcuni casi ci può stare, ma non sempre. Pensiamo che raggruppare l’azione in tre - quattro ore massimo sia perfetto sia per gli atleti che per il pubblico. Vedere che negli anni anche il Giro e il Tour ci hanno copiato in questa direzione ci fa molto piacere e ci dice che forse stiamo andando in una direzione corretta. In generale penso che se arrivati al finale ci siano 2-3 corridori a giocarsi la vittoria, ma perché no anche 5-6 sia molto positivo perché aumenterebbe la suspence e la suspence attira grande pubblico».

L’idea che arrivare alla fine di un grande Giro con distacchi ridotti sia sinonimo di spettacolo è stata però completamente ribaltata dal Giro e dal Tour quest’anno. La corsa Rosa ha avuto distacchi minimi e noia massima, mentre il Tour l’esatto opposto. «Certamente questo è vero. Però qui entra in gioco un altro fattore che non abbiamo ancora preso in considerazione. I corridori. Decidono sempre loro. Tu puoi pensare di avere disegnato la più bella corsa di sempre ma lo spettacolo dipende da loro. È difficile da sapere prima perché alle volte metti due tappe di montagna di seguito e la prima che magari è migliore te la gettano nel cestino perché hanno paura della tappa il giorno dopo».

«Quest’anno penso che vari fattori abbiano influito: al Tour per esempio il Covid-19 ha tolto dalla competizione numerosi atleti e molte grandi squadre hanno perso corridori strada facendo, questo ha influito perché ha ridotto il controllo delle tappe. E poi dobbiamo considerare la generazione di ciclisti fenomenali che stiamo vedendo. Gente come Wout van Aert o Pogačar sono corridori che ti avvicinano al ciclismo. Sono corridori super coraggiosi che stanno cambiando e cambieranno il concetto di grande corsa a tappe. In generale i ciclisti oggi sono cambiati, sono molto più atleti a tutto tondo rispetto al passato e anche le corse devono cambiare con loro».

Gli chiedo, a questo proposito, se hanno mai pensato di disegnare La Vuelta specificatamente per attirare un grande protagonista. La domanda, forse ingenua, mi ronza per la testa dall’ultimo Tour de France del fenomeno belga Wout van Aert. Corridore totale: capace di vincere allo sprint; a cronometro; di fare la differenza in montagna; di andare in fuga in tappe dove in gruppo si sta un gran bene. Penso sarebbe bello se qualche organizzatore disegnasse un grande giro alla sua portata, anche magari riducendo le difficoltà. E visto lo spirito non convenzionale con cui La Vuelta si approccia al disegno dei percorsi ci ho sperato per qualche secondo guardando la bocca di Escartin allargarsi in un sorriso. «Non disegniamo La Vuelta per nessun tipo di corridore». Doccia fredda. «Però è anche vero che La Vuelta si adatta bene a tutti i tipi di corridori. In più come dicevo prima i ciclisti stanno evolvendo».

È una frase che rimane aperta a diverse interpretazioni, ma il significato di fondo credo sia chiaro: la Vuelta è la Vuelta. «Abbiamo una grande fortuna nell'essere l’ultimo grande giro dell’anno. Molti corridori arrivano delusi dalla stagione. Molte squadre hanno vinto poco. In molti arriveranno alla Vuelta con uno spirito di rivincita. Oggi come oggi, i grandi atleti possono correre due grand tour in stagione a buon livello. Se vai al Giro, per la sua durezza, è difficile che tu possa fare bene anche al Tour, però puoi pianificare una buona Vuelta a España. Se vai al Tour come primo grande giro stagionale, con una buona preparazione puoi mantenere la forma fino a La Vuelta».

E La Vuelta di quest'anno come sarà? «Penso che sarà una Vuelta bella e divertente. I primi tre giorni li vivrò con il fiato sospeso perché le strade in Olanda sono ricche di rotonde e spartitraffico e spero che non succeda nulla. Anche perché le abbiamo viste e riviste proprio per questo motivo. Poi andiamo nelle Asturie con due, tre colli importanti e sarà un primo test. La seconda settimana c’è il secondo test con una cronometro lunga e molto ventosa e infine il gran finale vicino a Madrid con delle salite che hanno già deciso La Vuelta in passato, come nel 2015 quando Aru ribaltò la classifica generale. Mi aspetto molto dalla tappa 20 e dalla tappa con l’arrivo sulla Sierra Nevada, penso che saranno decisive».

La quindicesima tappa con l'arrivo sulla Sierra Nevada. 2510m è l’altitudine più elevata mai raggiunta dalla Vuelta.

In una estate così profondamente impattata dalla crisi climatica che stiamo vivendo in tutta Europa, le tappe nelle regioni Extremadura e Andalucía saranno sicuramente molto faticose da affrontare. «Spero vivamente che non vengano ridotte. I corridori sono ben seguiti dai loro staff medici, si allenano duramente, sono monitorati costantemente. Se ci sarà troppo caldo non potremo farne a meno ma penso che nei limiti del possibile non dobbiamo togliere al ciclismo l’epica che l’ha fatto grande. La Vuelta ha il caldo, così come il Giro alcuni anni ha la neve. Spero che sia possibile disputare quelle tappe nella totalità».

La stampa specializzata parla sempre più spesso di un possibile approdo della Vuelta nelle Isole Baleari o Canarie. Molte squadre iniziano la stagione alla Challenge Mallorca che offre percorsi movimentati e un clima favorevole, e per gli stessi motivi molti grandi ciclisti optano per Tenerife durante la stagione per un ritiro in altura. La Vuelta seguirà la tendenza e approderà sulle isole? «Guillen è in contatto costante con le istituzioni delle isole e sicuramente è un progetto che abbiamo per il futuro. Oggi però è ancora prematuro».

Se Fernando Escartin potesse scegliere un luogo in cui far passare La Vuelta, senza tenere in considerazione tutto quello che abbiamo detto fino ad ora, dove andrebbe? «C’è un posto in mezzo ai Pirenei che mi piacerebbe molto. È molto poco conosciuto, anche perché non essendo asfaltato non è battuto dai ciclisti di strada ma solo dagli appassionati di Mountain Bike. Si va sopra i 2000m, il panorama è splendido. Ovviamente oggi come oggi è impossibile, ma se devo dire il mio sogno nel cassetto direi il Puerto de Sahún».

Non so se parlasse del versante di 11.9 km all’8% di pendenza media o del versante da 16km al 6.79%. Quello che mi è chiaro dalle altimetrie è che questo gigante aragonese sarebbe effettivamente molto divertente da guardare. È con questo viaggio di immaginazione che riesco a penetrare nel fascino che circonda il lavoro di Fernando Escartin. Disegnare un grande giro non deve essere facile, ma forse nulla come questo lavoro ti fa arrivare fino alle radici del ciclismo.

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