Isolamento. Nove metri abbondanti dal canestro. Situazione tipica, per un centro vero di 213 centimetri. Due palleggi per prendere ritmo, poi il passo di arretramento. Arresto, tiro. E la retina si gonfia per l’ennesima volta. Nikola Jokic, due volte MVP, rimane sul posto, i piedi inchiodati al legno. Il resto è storia nota: il Wells Fargo Center esplode; Joel Embiid torna in difesa allargando le braccia. Un gesto di Jordanesca memoria per suggellare una partita incredibile, se non fosse che per lui è tremendamente normale: 47 punti (di cui 28 nel secondo tempo), 18 rimbalzi, un dominio assoluto sull’avversario diretto nelle fasi cruciali. E soprattutto la settima vittoria consecutiva per i Philadelphia 76ers – 20-4 dal 9 dicembre – al termine di una sfida che dopo tre quarti sembrava invece morta e sepolta.
Si conclude così un sabato di assoluta goduria per i tifosi di Philadelphia, che non potevano sperare in un diversivo migliore per ingannare la spasmodica attesa per la sfida tra Eagles e 49ers, con in palio il biglietto per il Super Bowl (nota della domenica sera: è andata bene anche quella). Ma a godere, più in generale, sono stati gli appassionati di pallacanestro. Che hanno ammirato un duello diretto meraviglioso tra i due giocatori che si sono contesi il trofeo di MVP nelle ultime due stagioni, e probabilmente lo faranno anche in questa. L’ha spuntata Embiid, almeno questa volta. Mentre attendiamo con ansia la rivincita prevista per il 27 marzo. E culliamo il sogno di rivedere queste due squadre in finale, unico modo per vivere serate del genere in rapida successione. Un lusso che non meriteremmo, ma che ci renderebbe lo stesso molto felici.
Una prestazione per mandare un messaggio anche a chi lo ha lasciato fuori dai quintetti per l’All-Star Game (vale a dire: i tifosi).
Primo tempo: vantaggio Jokic
Quello di sabato è stato il capitolo più avvincente di una rivalità bizzarra, largamente virtuale. Vissuta e cresciuta in feroci dibattiti a tutto campo — dai confronti numerici ai ragionamenti più convoluti su chi dei due sia migliore — eppure quasi mai ammirata sul parquet. O comunque molto meno di quanto avremmo voluto. Se il testa a testa per il titolo di MVP è stato uno dei temi più appassionanti della scorsa regular season, i due si sono sfidati in partita appena sette volte dall’inizio della loro carriera. Colpa degli infortuni, della pandemia, e soprattutto di un calendario tipicamente avaro di occasioni di scontro tra avversari di conference diverse — a meno appunto di ipotetici approdi in finale. E così, il duello a distanza è cresciuto in una strana aura di riverenza, non solo per i due interessati, ma pure per le tifoserie. Al punto che quando Jokic scende in campo a lanciare l’ultima fase di riscaldamento, ci sono solo dei distratti “boooh” a fare da sfondo sonoro, nonostante il Wells Fargo Center sia in larga parte già gremito. Stesso effetto poco dopo, al momento della presentazione ufficiale. Quanto di più lontano dal rauco berciare che ha recentemente accompagnato il passaggio dei nemici dalle parti di Broad Street, da Ben Simmons agli altri infedeli invisi ai tifosi locali.
Che i due intendano fare sul serio, però, si capisce immediatamente. Il duello si scalda sin dai primi due possessi: ferro per Jokic, cadendo indietro; canestro e fallo per Embiid dall’altra parte, su un movimento aggressivo. È l’inizio di un batti e ribatti incessante che ha scandito tutta la prima parte di gara. Il serbo porta palla e controlla il flusso offensivo come di consueto, imbeccando i compagni sulle pigre rotazioni difensive dei Sixers. Il camerunense si sobbarca il carico di un attacco molto statico. Ne cava fuori 19 punti alla pausa, conditi da due triple consecutive e altre pregevoli giocate, ma ottenuti a caro prezzo: forzando, sbuffando, e spesso infrangendosi contro la difesa avversaria — in marcatura individuale con Jokic, e sistematicamente in raddoppio quando l’MVP è in panchina a rifiatare. Dall’altra parte, “Joker” ci offre la sua versione migliore, ben nota da anni a questa parte: quella in cui dirige l’attacco come se maneggiasse una consolle immaginaria, con tempi e modi più consoni a un’esercitazione 5 contro 0 che a una partita ufficiale. Peccato che gli avversari ci siano, almeno sulla carta. E rimangano costantemente infilzati dai suoi assist e dai suoi canestri. Si arriva alla pausa con i Nuggets avanti 73-58, forti di un 66% dal campo in cui il confine tra meriti offensivi propri e demeriti difensivi altrui è difficile da tracciare. E in cui Jokic è saldamente in controllo del duello.
Secondo tempo: l’esplosione di Embiid
Il corpo a corpo prosegue nella ripresa, con però un’importante variazione sul tema: coach Doc Rivers manda PJ Tucker su Jokic, aumentando esponenzialmente la pressione fisica sul faro degli avversari. Ispirato dalla consueta dedizione assoluta alla causa, l’ex Miami interpreta il compito con zelo religioso. Baricentro basso, piedi in movimento, avambraccio saldamente piantato nella schiena avversaria. Un clinic di difesa in post basso. «L’abbiamo preso per questo. Può farci vincere una partita da solo» dirà a fine partita Doc Rivers, raccontando che l’ispirazione per la mossa difensiva gli era venuta da una performance simile del giocatore quando indossava la maglia di Miami.
E così, dopo un primo tempo sul velluto, le cose per il serbo si complicano improvvisamente. E pure una ricezione pulita diventa una faccenda complessa. Vero è che, a prima vista, il cambio di marcatura non sembra cambiare le cose drasticamente nell’economia della partita: la difesa del resto dei Sixers continua a essere tutto tranne che impeccabile, mentre un fischio arbitrale opinabile interrompe momentaneamente l’esperimento difensivo, costringendo Rivers a fare rifiatare il suo stopper. Eppure la mossa riesce a incrinare l’armonia offensiva dei Nuggets, inceppando quello che fino a quel momento era stato un meccanismo perfetto. E apparecchiando la tavola per lo tsunami che sarebbe di lì a poco arrivato.
Sgravato da grattacapi difensivi, Embiid può infatti scaldare i motori. L’antipasto arriva con una prorompente schiacciata a fine terzo quarto, a coronamento di una penetrazione che lascia sul posto Jokic e risveglia un Wells Fargo Center sin lì piuttosto assopito.
È il gesto con cui l’All-Star sfoga la rabbia di una partita che fino a quel momento aveva fatto fatica a controllare, ma che di lì a poco sarebbe cambiata radicalmente. Poi, dopo che due triple ravvicinate di Georges Niang avvicinano ulteriormente i Sixers, ha inizio lo show. Embiid fa piovere di tutto nel canestro dei Nuggets: triple, tiri dalla media, appoggi, tiri liberi. Lo aiutano gli assist puntuali di James Harden, che dopo aver racimolato un tecnico bizzarro nel terzo quarto, decide di interpretare al meglio il suo nuovo ruolo di playmaker vecchio stampo, più propenso a servire che a finalizzare. Le prodezze di Embiid valgono, in rapida successione, rimonta, pareggio e sorpasso, fino all’allungo sublimato dalla giocata finale. È il coronamento di un 42-20 di parziale che rende bene l’idea del dominio dei Sixers negli ultimi 14 minuti di partita. Ma è pure la sentenza di morte per un secondo tempo di Jokic da fantasma dell’opera: arrostito in difesa, evanescente in attacco. Ben fotografo da un ultimo quarto con soli 2 punti, pochi tocchi, e una presenza impalpabile in un attacco che solitamente comanda a piacimento.
E così, per una tifoseria cronicamente a secco di soddisfazioni, un pomeriggio di tensione si trasforma in una serata di festa. Non un esito scontato, viste le scarse fortune del recente passato, e le sofferenza di una partita passata in larga misura a inseguire. Ma proprio per questo, le imprese di Embiid e gli sforzi di Tucker non possono mascherare i problemi di una squadra certamente in crescita, ma pure con ancora troppi passaggi a vuoto per lasciare tranquilli i propri tifosi, soprattutto a livello difensivo.
Dopo aver concesso a Brooklyn il 65% dal campo nella partita precedente, anche sabato sera i Sixers sono rimasti per lunghi tratti in balia dell’avversario, dando l’impressione che le magagne siano nei meccanismi collettivi, ancora prima che nelle marcature individuali. Poca tenuta in uno contro uno, rotazioni lente, aiuti poco efficaci, e vari malintesi che hanno concesso a Denver una caterva di tiri puliti, soprattutto nella prima partita di gara. Sono questioni da risolvere per poter finalmente vestire i panni di pretendente al titolo, e finalmente capitalizzare sul privilegio di poter contare su uno dei giocatori più dominanti mai visti nella storia del gioco. In questo momento, potrebbe anche essere il più forte della lega.