Da giorni osserviamo i frammenti della vita irripetibile di un uomo solo all’apparenza qualunque. In tutto ciò che riusciamo a rintracciare, che siano foto, video, frammenti sgranati, c’è un elemento ricorrente. Sono occhi sottili, potenti, implacabili, occhi che non ti danno respiro. Nella gioia manifesta e nei momenti di serietà, di riflessione, persino in quelli di cupezza, lo sguardo di Gigi Riva sembra sempre lo stesso, capace di arrivare in fondo a un pozzo e guardarci dentro come se fosse acqua di sorgente lì dove gli altri non vedono che un nero indistinguibile. Era il resto del volto, semmai, a dare indicazioni sul reale stato d’animo: felice, triste, pensieroso, furioso. Anche negli scatti del 12 aprile del 1970, il giorno più bello della vita di tanti cagliaritani, quegli occhi paiono guardare verso un orizzonte sconosciuto e irraggiungibile ai più.
Prima e dopo quell’impresa, due gambe sacrificate per l’altro amore della sua vita, la Nazionale. Il perone andato in frantumi nel 1967 non era stato così forte da togliergli il primo titolo di capocannoniere, con 18 gol messi insieme in 23 giornate. Gli aveva tolto, quella sì, la voglia di mettersi sulle spalle la maglia numero 9, ritenuta da quel momento maledetta. Si era fatto male nel giorno di Pasquetta, in una dannata amichevole contro il Portogallo di Eusebio: un’uscita sbagliata del portiere portoghese Americo e tanti saluti alla stagione. Si era fatto male, soprattutto, più o meno a metà di un arco temporale che andava dal 27 gennaio al 10 maggio di quell’anno, due date non casuali: la prima è quella della morte di Luigi Tenco, un colpo di pistola nella tempia destra in una stanza dell’hotel Savoy di Sanremo nel bel mezzo del Festival, il suicidio visto come ipotesi più accreditata eppure per lungo tempo discussa da amici e colleghi («La notte che presero le sue mani e le usarono per un applauso più forte / chi ha ucciso il piccolo principe che non credeva nella morte?» si chiedeva Francesco De Gregori in Festival).
La seconda, invece, è quella della tragica scomparsa di Lorenzo Bandini, prima guida della Ferrari, avvenuta nel bel mezzo del GP monegasco: fiaccato della stanchezza, all’ottantaduesimo giro aveva imboccato la chicane del porto in quinta marcia invece che in terza, schiantandosi contro una bitta di ormeggio delle navi, rimanendo intrappolato nella vettura in fiamme mentre i soccorritori lo credevano finito in acqua. Due morti che lo avevano ossessionato al punto di fargli raccogliere in maniera maniacale i ritagli di giornale su queste due storie drammatiche, distanti eppure così vicine. Aveva un feeling innaturale con la tragedia: l’insopportabile morte sul lavoro del papà Ugo, l’agonia di mamma Edis, una vita reinventata attorno alla figura della sorella maggiore Fausta. «E anche per questo sono felice di brindare ai 60 anni di Riva, perché allora, prima del Messico, pensavo che non sarebbe arrivato a 40, che fosse come segnato dalla tragedia», avrebbe scritto di lui, più avanti, Gianni Mura.
Con il secondo perone distrutto, invece, era andato in mille pezzi anche il sogno di grandezza del Cagliari, che dopo la sbornia del 1970 già pregustava il clamoroso bis. Reduce da una doppietta a San Siro in casa dell’Inter che gli era valsa il soprannome di una vita ("Il Cagliari ha infilato e umiliato l’Inter a San Siro, davanti a oltre 70.000 spettatori. Se li è meritati Riva, che qui soprannomino Rombo di Tuono", scrisse Gianni Brera sulle pagine del Guerin Sportivo), era andato in azzurro per la sfida al Prater di Vienna contro l’Austria, segnata da un intervento assassino di Norbert Hof, in una partita che non avrebbe nemmeno dovuto giocare: la tonsillite l’aveva colpito subito dopo l’exploit di San Siro ma Riva, uomo dalla parola granitica e dalle fedi incrollabili, aveva fatto di tutto per esserci, imbottito di antibiotici. Rottura del perone destro con distacco dei legamenti della caviglia. Destino aveva voluto che tra i primi ad accorrere in soccorso di Riva ci fosse Angelo Domenghini, meravigliosa ala di quel Cagliari. E poi subito dopo, le lacrime di Pierluigi Cera, altra colonna sarda, a sigillare la fine di un’utopia. Prima, però, il Cagliari aveva vissuto la sua stagione perfetta. Rimane lì, incastonata negli annali di un calcio ormai sempre più lontano da quell’anima barricadera. Di quella squadra, Riva era totem e leader tecnico, monumento e santo protettore di un popolo che si era fatto famiglia per lui. Sardo di spirito senza che ci fosse una rispondenza all’anagrafe, isolano nelle vene pur non essendolo di sangue.
È opinione diffusa che il Cagliari abbia, se non buttato via, quantomeno non sfruttato al meglio l’occasione per cucirsi lo scudetto sul petto già nel 1969. A pesare drammaticamente sul bilancio di fine stagione sono due partite strettamente legate a Riva: quella del 9 marzo 1969, l’unica saltata dal fuoriclasse di Leggiuno, vinta all’Amsicora dalla Juventus con gol di un altro degli eroi, insieme a "Rombo di tuono", degli Europei del 1968, cioè "Petruzzu" Anastasi, e lo 0-0 di Pisa a fine aprile, con un errore di Riva dal dischetto che incide sui 4 punti di distanza con cui il Cagliari chiuderà la stagione alle spalle della Fiorentina campione d’Italia. L’altro dato cerchiato in rosso è quello relativo al numero 9 di quel Cagliari, Roberto Boninsegna, otto gol nel girone d’andata e uno solo in quello di ritorno. Eppure, nonostante queste cifre, la cessione estiva di "Bonimba" – anche lui, come Riva, chiamato a convivere con un soprannome coniato da Gianni Brera e tutt’altro che gradito al futuro centravanti dell’Inter – inizialmente appare come una diminutio, perché al suo posto arriva un profilo particolare come quello di Sergio Gori, detto "Bobo", l’uomo che ritroviamo, in questi giorni, in tante foto da ultimi sopravvissuti, abbracci a facce tirate, stanche ma felici.
Né centravanti né seconda punta, né fantasista né ala, Gori è quello che all’epoca viene definito un attaccante di manovra: non se ne intuiscono ancora fino in fondo i vantaggi, ma è la spalla perfetta per un essere umano naturalmente proteso verso la porta avversaria come Riva. Boninsegna viene dunque sacrificato sull’altare di un bene superiore: l’artefice dello scambio con l’Inter si chiama Andrea Arrica, l’uomo che aveva portato Riva a Cagliari dal Legnano per 37 milioni di lire, cifra che all’epoca era parsa uno sproposito per un club di Serie B. Tecnicamente, è il Cagliari ad aggiungere al cartellino di Boninsegna una contropartita economica: 220 milioni di lire, perché da Milano non arriva soltanto Gori, ma anche Cesare Poli e, soprattutto, Angelo Domenghini, la migliore ala italiana di quegli anni, in Nazionale in pianta stabile, già elemento cardine della grande Inter di Helenio Herrera, in cui si era destreggiato all’occorrenza anche da punta. Nasce così un tridente formidabile: Domenghini numero 7, Gori numero 9, Riva numero 11.
Il filo diretto con l’Inter, in quegli anni, è strettissimo, e non per semplici giochi di mercato: Angelo Moratti, presidente dei nerazzurri fino al 1968, aveva già da tempo portato i propri interessi in Sardegna, dando vita a Sarroch alla raffineria Saras. Arrica, uomo dall’ingegno affinatissimo, capisce che deve trovare un modo per convogliare i fondi di Moratti anche verso il Cagliari. Ci aggrappiamo dunque alle frasi dell’altro Moratti, Massimo, per far capire la situazione. Così ha detto nel 2022 in un’intervista al Corriere della Sera: «Mio padre comprò il Cagliari quando seppe che stava per cedere Riva alla Juventus. Il mattino dopo i dirigenti sardi informarono Agnelli che l’affare non si poteva più fare, il club aveva un nuovo proprietario. "L’Avvocato" non chiese neppure chi fosse. Aveva capito». Un acquisto non manifesto, mascherato. «Ogni anno, sapendomi interista, Moratti mi mandava una sterlina d’oro per Natale. Una volta chiaro che non mi avrebbero preso, credo abbia dato dei soldi al Cagliari per garantirsi che non andassi altrove», era stata la versione di Riva, leggermente più sfumata.
Alla guida del Cagliari, dal 1966, c’è Manlio Scopigno, che tutti chiamano "il Filosofo". In realtà in mezzo c’è stato un episodio turbolento: nel 1967, la squadra è impegnata in una bizzarra tournée negli Stati Uniti. Al club viene però richiesto, come a tutte le dodici squadre coinvolte, prese da Sudamerica ed Europa, di adottare il nome di una squadra statunitense esistente. Il Cagliari, per tutto il corso della tournée, veste i panni dei Chicago Mustangs. Boninsegna chiude da capocannoniere, in mezzo anche una colossale rissa contro i New York Skyliners (l’alias del Cerro Porteno) e un epilogo delirante, sui cui contorni si è ricamato al punto da farlo diventare una sorta di leggenda metropolitana. Quel che è certo è che Scopigno è colto in flagrante mentre urinava in un vaso di fiori nel giardino dell’ambasciata italiana a Washington: scandalo, vergogna, esonero, anche se in quegli anni la verità non emerge. L’ultimo licenziamento l’aveva preso di sorpresa ai tempi del Bologna, stagione 1965/66. Al presidente che gli chiese se avesse letto la lettera di licenziamento, rispose gelido: «Sì, purtroppo: ci sono due errori di sintassi e un congiuntivo sbagliato». Ma Cagliari era nel destino e Scopigno era tornato in sella nel 1968.
Nell’estate del 1969 ha il compito di trovare la quadratura del cerchio con i nuovi arrivati e le prime uscite in Coppa Italia danno fiato ai detrattori, che vedono un Riva insofferente verso i compagni per ogni errore in rifinitura. Alle critiche sul posizionamento in campo della sua stella, leggermente più accentrato rispetto al solito, Scopigno risponde in maniera secca: «Riva mi deve fare i gol». Comincia il campionato e Riva, i gol, li fa. Li fa anche Domenghini: vanno entrambi a segno contro Lanerossi Vicenza e Brescia, dopo lo 0-0 al debutto in casa della Sampdoria. A risolvere la pratica Lazio c’è la firma di Brugnera, al quinto turno c’è già lo scontro con i campioni d’Italia. Prima, suo malgrado, il Cagliari vive una notte complessa in Europa, perché i greci dell’Aris Salonicco, sotto di tre gol (Domenghini-Riva-Gori, ovviamente), cercano di trasformare la partita di Coppa delle Fiere in una gazzarra, aggredendo l’arbitro Despland e costringendo le forze dell’ordine a intervenire con gli agenti in campo. La Fiorentina arriva da capolista solitaria, con la prospettiva di piazzare il primo allungo. Ne esce una partita elettrica, il cui clima non è certamente aiutato dalla direzione di gara di Concetto Lo Bello, arbitro fumantino se ne è mai esistito uno: il breve riassunto del Corriere della Sera è sufficiente per farsi un’idea.
La Fiorentina perde per la prima volta in campionato dalla quinta giornata della stagione precedente: decide il rigore trasformato da Riva. Il post partita è burrascoso, i giornali riportano di pugni e schiaffi volati al rientro negli spogliatoi. E Riva, uomo che mai ha nascosto il suo carattere spigoloso, non si sottrae, cercando di rispondere con le mani alle offese di un dirigente viola: a differenza del rigore, però, stavolta sbaglia mira e finisce per colpire, secondo i testimoni oculari, il figlio del presidente Baglini. È il preludio a un mese di consolidamento, in cui il Cagliari esce imbattuto dai due scontri diretti casalinghi con Inter e Juventus (un doppio 1-1 con Nené e Domenghini protagonisti) e piega Napoli e Roma. Per conoscere la prima sconfitta in campionato, i ragazzi di Scopigno devono attendere la dodicesima giornata, 1-0 a Palermo. Una sconfitta che porta con sé anche un fardello ben più gravoso.
Scopigno, nel mirino del giudice sportivo dopo il KO della Favorita per insulti a un guardalinee, viene prima sospeso in via cautelare e poi colpito da una squalifica gigante. La questione diventa presto un caso: Scopigno viene fermato fino al 18 maggio 1970, ossia oltre la fine del campionato. Mai un provvedimento disciplinare così violento aveva colpito un allenatore. Dal comunicato dell’avvocato Barbé: "Scopigno ha rivolto a un guardalinee una frase gravemente irriguardosa - immediatamente seguita da una frase di triviale ingiuria, poi ripetuta, nei confronti del medesimo guardalinee – in prossimità dell’ingresso del sottopassaggio al termine della gara. Poco dopo ha nuovamente ripetuto allo stesso guardalinee la frase di triviale ingiuria, accompagnandola con altra frase ingiuriosa nei pressi dello spogliatoio. Infine ha tenuto atteggiamento ancora irriguardoso nei confronti del guardalinee rivolgendosi all’arbitro nello spogliatoio degli ufficiali di gara". Negli atti, che saranno poi resi pubblici, saranno riportati gli esatti virgolettati di Scopigno, inclusa la "triviale ingiuria" che però i giornali scelgono di non pubblicare, mentre viene snocciolata la frase gravemente irriguardosa: «Perché non va anche lei a metà campo a farsi applaudire assieme ai giocatori del Palermo dopo tutto quello che ha sbandierato a loro favore?». Qualche settimana più tardi, durante Palermo-Bologna, lo stesso spettatore che aveva ricoperto di insulti e sputi Scopigno verrà allontanato dagli spalti per aver fatto lo stesso con Edmondo Fabbri. Il Cagliari ha la forza di non sbandare e di rimediare un altro 1-1 pesante all’Amsicora contro il Milan, gol di Riva e Prati, rivali nei racconti della stampa in ottica nazionale ma buoni amici nella vita, vincendo poi largamente con Torino e Sampdoria.
La punizione strabiliante di Riva nasce da un suo slalom terminato con l’abbattimento in area da parte di Schnellinger: il calcio prima dei tempi del VAR non prevedeva ripensamenti.
Il 9 gennaio arriva anche lo sconticino del 20% sulla squalifica di Scopigno, che potrà tornare all’attività con la squadra il 18 aprile. Motivazione duplice per lo sconto: il fatto che fosse in panchina sotto antibiotici a causa di una brutta influenza e che l’episodio non dovesse essere valutato come somma di infrazioni ma come un’unica infrazione continuata. Scopigno vive in gabbia questi mesi, assistendo alle partite da dietro le reti e le sbarre degli stadi. Il potenziale momento chiave arriva tra l’8 e il 15 febbraio, con il Cagliari di scena contro la Fiorentina (0-0) e l’Inter (1-0 a San Siro, marchiato a 6’ dalla fine dall’ex Boninsegna) senza il suo libero, Tomasini, vittima di un infortunio al menisco che pone fine alla sua stagione e costringe Scopigno a passare dalla filosofia alla tattica, portando Cera a giocare da libero. Il clima non è dei migliori, contro i nerazzurri Albertosi deve intervenire per sedare una forte discussione tra Martiradonna e Nené. Sono tutti convinti che il Cagliari stia per implodere, per crollare sotto i colpi di una lotta al vertice che vede i sardi ancora in testa ma tallonati dalle inseguitrici: la Juve è risalita a -1 e sa di poter contare sullo scontro diretto in casa, la Fiorentina è a -3, più indietro Milan e Inter a -4.
La carezza arriva dal calendario, perché l’Inter ferma anche la Juve (0-0) e il Cagliari riallunga battendo il Napoli con i gol di Gori e Riva. E i bianconeri pareggiano ancora, proprio contro il Napoli, così ai giocatori di Scopigno va bene anche il pareggio in casa della Roma. E durante la partita dell’Olimpico sugli spalti appare Concetto Lo Bello, che aveva addirittura preso in considerazione l’ipotesi di interrompere anzitempo la sua carriera a causa dell’esclusione dall’elenco degli arbitri per i Mondiali del 1970 in Messico, ritenuto sì bravissimo, ma allo stesso tempo troppo ingombrante in termini di personalità. Guillermo Canedo, organizzatore del torneo, lo aveva dunque bocciato, preferendogli Antonio Sbardella: «La sua personalità annienta i giocatori e il gioco. Diventa il protagonista del match ed è quello che noi non vogliamo».
E c’è lui, tornato in forze a livello mentale dopo settimane di scontri con i vertici arbitrali italiani, a dirigere a Torino lo scontro diretto che può indirizzare una stagione, Juventus-Cagliari. Scopigno sa far di conto, ha due risultati su tre a disposizione. La vigilia è insolitamente velenosa, complici i cori dei tifosi del Cagliari in occasione della partita d’andata, quando la Juventus era in zona retrocessione e sugli spalti dell’Amsicora aveva spopolato il coro «Serie B, Serie B». Dalla sponda bianconera, Helmut Haller, regista offensivo che aveva già mostrato meraviglie a Bologna, pizzica Riva: «Un bel giocatore, ma si può fermare. Con una marcatura stretta su Riva e Gori, le due punte del Cagliari sono ridotte all’impotenza: Riva fa paura solo quando tira le punizioni. Ci può fermare soltanto la sfortuna». Scopigno sfodera le tabelle: «Andiamo a Torino per vincere. Se li battiamo, il campionato è finito».
La partita è così sentita che la Rai acconsente alla trasmissione integrale della differita dalle 18.30, a differenza del programma abituale che prevede la trasmissione del solo secondo tempo della migliore partita di giornata: non succedeva da sei anni, dallo spareggio scudetto tra Bologna e Inter. A dare il via libera, direttamente la Juventus, una volta registrato il tutto esaurito. Parla anche Riva, che è l’oggetto del desiderio di tutti i giornalisti: «In Sardegna il calcio non è solo un fatto sportivo, ma anche un importante elemento di prestigio regionale. Io mi sento legato al Cagliari e ai suoi tifosi da un reciproco rapporto di soddisfazioni. Hanno avuto fiducia in me, sostenendomi e dandomi le soddisfazioni più grandi della mia carriera. E io desidero dare loro la soddisfazione di uno scudetto». Nel ritiro di Asti arrivano cinquemila curiosi ad assistere all’allenamento, a un certo punto Riva e gli altri devono lasciare il campo, invaso da tifosi e ragazzini alla ricerca di autografi.
La partita comincia e Riva prova subito a scuoterla con un mancino a lato di pochissimo, prima del patatrac compiuto da Niccolai su un cross da destra destinato alle braccia di Albertosi. «Ho chiamato la palla ma nel frastuono non ha sentito ed è intervenuto», dice a fine partita il portiere, sconsolato, mentre il difensore conferma lo spirito goliardico di Scopigno: «Mi ha detto che ho segnato un gol magnifico». Sul finire del primo tempo, Riva tira fuori dal cilindro un gol che la dice lunga sulla sua capacità di usare il proprio corpo come un’arma: su un pallone che si impenna in area, allunga il collo quanto basta per colpirlo in fase ascendente e battere Anzolin. È uno di quei gol che uccidono lo spirito di una squadra, per il modo in cui arriva e per il minuto, ormai a un passo dall’intervallo. Nella ripresa sale in cattedra Lo Bello, che prima assegna un rigore discutibile alla Juve, ordinandone la ripetizione dopo l’errore di Haller e dando il suo ok in seguito al gol di Anastasi alla seconda esecuzione, quindi ristabilisce l’equilibrio, ordinando un altro penalty in mischia, stavolta per il Cagliari, trasformato da Riva.
Una partita di emozioni violente, con Albertosi che scoppia in lacrime a causa della ripetizione del rigore e Scopigno che a fine partita viene salvato da Boniperti: un parapiglia con alcuni tifosi juventini, spintoni, insulti fino all’arrivo salvifico del dirigente bianconero, che carica Scopigno sulla sua automobile e lo conduce in casa per una degustazione di whisky durata almeno una mezz’oretta. Intanto, mentre i giornali si preparano ad analizzare fischio per fischio la giornata di Concetto Lo Bello, durante Ercolanese-Palmese c’è il figlio del fischietto, Rosario, che per poco non viene linciato dai tifosi dell’Ercolanese sul neutro di Scafati in seguito all’assegnazione di un rigore. Diventerà anche lui decisivo per uno scudetto, ma è tutta un’altra storia.
Un punto chiave per lo scudetto, la voce di un giovane Bruno Pizzul al commento
A questo punto, al Cagliari, non resta che gestire. Ma che fatica all’Amsicora, sette giorni dopo, contro il Verona, in una partita giocata sostanzialmente a una porta, con Riva che sbaglia un gol clamoroso in avvio e si riscatta a tre minuti dalla fine, spiazzando il portiere su rigore con una calma che è propria solo agli esseri dotati di un controllo superiore sulla propria mente. Da Firenze, infatti, erano già arrivate le notizie del tracollo juventino: si va a +4, che diventa +3 una settimana dopo (Juventus-Milan 3-0, Bologna-Cagliari 0-0). Ma è normalissima amministrazione. Un altro passetto battendo il Palermo, il primo match point arriva il 12 aprile, contro un Bari che langue in fondo alla classifica, complice la scellerata decisione di esonerare Oronzo Pugliese alla 23esima giornata: i pugliesi, da quel momento, raccoglieranno solo due punti, che diventeranno quattro all’ultimo turno, a buoi ampiamente fuggiti dalla stalla, con la gentile concessione di una Juventus svagata. Il Cagliari non può certo impietosirsi.
Riva fa il Riva, spunta dal nulla su una punizione dalla trequarti destra che non sarebbe nulla di che se non ci fosse lui, in tuffo di testa, ad anticipare un difensore che pensa come una persona normale e proprio per questo viene beffato, perché Riva sapeva immaginare soluzioni dove gli altri non vedevano nemmeno il problema. La Juve sta colando a picco, presa a schiaffi dalla Lazio di Ghio e di un 23enne arrivato quell’anno in Serie A dall’Internapoli, Giorgio Chinaglia. Insieme a Riva, tre anni dopo, sarà in campo a Wembley, artefice della prima vittoria azzurra nel tempio del calcio mondiale, con la firma sul tabellino di Fabio Capello.
La festa dilaga dopo il gol di Gori che fissa il 2-0. Negli spogliatoi, dopo una doccia di champagne, Riva è in preda a un entusiasmo che solo a tratti viene azzerato dalla fatica della grande impresa. Passeggia avanti e indietro con i giornalisti attoniti, che gli fanno domande in attesa di poterlo liberare: troppi i tifosi appostati all’uscita per lasciare che i giocatori possano uscire. Tra abbracci e risposte a mezza bocca, Riva se ne fa sfuggire una che è il manifesto del suo perfezionismo, parlando dell’imminente trasloco nel nuovo stadio con conseguente addio all’Amsicora, teatro di uno scudetto corsaro: «Dopo sei anni, questo campo lo conosco palmo per palmo. Gli stessi cartelloni pubblicitari erano per me preziosi punti di riferimento al momento di calciare in rete». Domenghini dedica lo scudetto all’Inter, senza giri di parole. Gori piange, ride, poi piange e ride di nuovo.
Riva era arrivato col Cagliari in Serie B, in una Sardegna così lontana da quella che abbiamo in mente oggi da fargli ammettere, tempo dopo, di aver pensato di essere finito in Africa. Se lo poteva permettere, perché lì aveva trovato una casa così accogliente da fargli dimenticare, anche se solo per un po’, tutta la sofferenza che c’era stata prima. Quel gruppo aveva stretto un patto con l’isola, tanti sono rimasti lì anche quando tutto è finito.
"Una squadra più Riva" recita uno dei titoli di giornale di quei giorni, un appoggio a una foto centrale. C’è Gori che sorride, abbracciato da Scopigno, quasi preso per il collo. E poi c’è Riva con un tifoso, almeno stando alla didascalia, che gli tocca la faccia, lo accarezza come fanno i fedeli col Papa, se lo avvicina alla guancia. Riva ha il volto stanco, i ricci bagnati che gli si appoggiano sulla fronte. Gli occhi, per una volta, sono chiusi. Non aveva bisogno di vederla, una gioia così. Gli bastava sentirla.