
Al Masters 1000 di Miami in corso queste due settimane forse ha fatto più notizia l’assenza che la presenza. Si è parlato delle partite ma anche di una corsa un po’ particolare, quella al numero uno del mondo lasciato in ballo dalla squalifica di Jannik Sinner. E la notizia è stata proprio questa, che Sinner ha chiuso il Sunshine Double da numero uno al mondo, con un solo torneo giocato. Una questione che oltre a gettare dubbi sul rendimento dei top player in questo momento non fa che tenere alta l’attenzione sulla vicenda del tennista altoatesino, citato di continuo dalla stampa in relazione alla sua assenza dalle competizioni, che com'è noto si concluderà a Roma.
Non è solo questo però. La discussione è stata riaccesa anche dall’intervista di Matteo Berrettini al podcast Tintoria, in cui il tennista ha parlato molto di anti-doping e di come si viene toccati nella propria vita privata da una vicenda come questa. L’intervista era stata registrata molto prima della squalifica, o meglio dell’accordo, tra Sinner e la WADA, ma ha contribuito a portare al grande pubblico le piccole e grandi stranezze di un sistema che sembra monolitico. Ci ha pensato poi la PTPA di Djokovic a rimettere ancora nel dibattito pubblico la questione doping, dedicando un paragrafo del suo libello anti ATP/WTA/ITIA alla gestione del caso Sinner.
Insomma, era dai tempi di Lance Armstrong e della sua rivelazione storica che non si parlava così tanto (almeno in Italia) di doping, anti-doping, WADA ed ITIA. Oggi il sistema dei controlli anti-doping ci sembra qualcosa a metà tra un regime orwelliano e un oracolo della Pizia di Delfi ma c'è stato un tempo in cui, almeno nel tennis, tutto questo essenzialmente non esisteva.
LA STORIA DEI CONTROLLI ANTI-DOPING NEL TENNIS
Di controlli anti-doping nel tennis, infatti, si comincia a parlare nei primi anni ‘80, regolati dal Men’s International Professional Players Council, un nome che d’ora in poi verrà abbreviato in MIPTC. L’associazione mischiava un po’ di tutto nei suoi ranghi, da tennisti appartenenti all’ATP, l’ITF e i direttori dei tornei, a testimonianza di come la governance nel tennis fosse parecchio confusa già tanto tempo fa.
L’MIPTC cominciò a gestire i suoi membri con multe e squalifiche, e a fare i primi controlli anti-doping, che però erano molto diversi da quelli che conosciamo oggi. I controlli della MIPTC, infatti, erano principalmente mirati allo scoprire i tennisti che facevano uso di sostanze ricreative come cocaina, marijuana e metanfetamine, più che a cercare nello specifico sostanze in grado di migliorare le prestazioni. Non erano pochi i tennisti a farne uso, tra Noah che poi avrebbe ammesso di fare uso di hashish e la documentata attrazione di Bjorn Borg verso la cocaina.
Con la fine del MIPTC finisce anche questa tipologia di controlli antidoping (e anche un'epoca in cui tennisti preferivano divertirsi almeno tanto quanto lavorare, se non di più). Dalle ceneri del MIPTC nasce l’ATP Tour e dal 1990 in poi l’antidoping come lo conosciamo oggi, con un focus verso la ricerca di sostanze in grado di migliorare le prestazioni dentro ai corpi dei tennisti. Nel 1995 arriva comunque la squalifica di tre mesi per uso di cocaina all’ex campione Slam Mats Wilander, ma per trovare la prima vera e propria squalifica per doping bisogna arrivare fino al 1997, con lo spagnolo e numero 104 del mondo Ignacio Truyol che viene trovato positivo al nandrolone e la pemolina. La vicenda dello spagnolo, raccontata bene su Tennis Magazine, è emblematica delle numerose ombre con cui veniva gestito il sistema antidoping all’epoca.
Come già detto, dal 1990 la gestione dell’antidoping passa al neonato ATP Tour (e WTA). Questo significa che ogni associazione di tennisti prende su di sé l’onere di controllare e giudicare i giocatori, con un chiaro problema di conflitto d'interessi su cui ritorneremo.
Negli anni '90, però, i controlli erano ancora tutto meno che capillari. Non venivano fatti a campione e in maniera costante come oggi, e in alcuni Paesi venivano proprio ignorati. Lo stesso Truyol ha detto in un’intervista a Relevo che il Belgio, dove fu trovato positivo al torneo di Oostende, era l’unico Paese in cui venivano fatti i controlli. I test fatti a Truyol prima della partita (impensabile, oggi) danno la sua positività a quelle due sostanze, che lo spagnolo spiegherà essere il risultato da una parte di medicazioni prescritte dal medico per la cura di un problema cronico alla schiena e dall'altra tramite contaminazione in un supplemento vitaminico. All’epoca il CAS di Losanna esisteva già ma aveva un ruolo marginale, e per scagionarsi serviva passare per la giustizia ordinaria e mandare una lettera all’ATP in cui si giustificava la positività.
La squalifica di Truyol, un tennista marginale, serviva all'ATP anche a mandare un messaggio agli altri tennisti senza però compromettere i suoi guadagni. L'applicazione delle norme, però, era ancora molto lontana da quella terzietà che teoricamente sarebbe necessaria alla lotta antidoping. Lo dimostra per esempio il caso di Andre Agassi nel 1997. Il tennista americano, come ha raccontato lui stesso, viene trovato positivo alla metanfetamina, ma se la cava con una lettera all’ATP in cui spiega di aver assunto involontariamente un cocktail con dentro la sostanza. L’ATP fa spallucce e non può fare altrimenti, Agassi anche in un periodo di difficoltà è uno dei due volti del tennis e una sua squalifica avrebbe macchiato la credibilità dello sport nella sua totalità.
I PRIMI CAMBIAMENTI
Il mondo dell’antidoping cambia nel 1999 con la nascita della WADA (World Anti-Doping Agency) per iniziativa del CIO. È un'iniziativa che riguarda tutto il mondo dello sport ma il tennis ci mette un po' adeguarsi: precisamente il 2006 per quanto riguarda l’ATP e il 2007 per la WTA. È in questo contesto che l’ITF si prende carico della lotta al doping, in una prima manifestazione di terzietà. Nel 2021 l’antidoping tennistico passa ulteriormente di mano, con la Tennis Integrity Unit, principalmente dedicata alla corruzione nel tennis, che espande le sue competenze e si prende carico anche dei casi di doping, creando l’International Tennis Integrity Agency (ITIA) che abbiamo conosciuto proprio per il caso Sinner.
Ma di cosa parliamo esattamente? L'ITIA è un organismo terzo rispetto all’ITF ma diverso nella sostanza rispetto alla WADA, che si occupa di definire le linee guida per la lotta al doping in generale e di controllare le agenzie antidoping nazionali, rendendo l’ITIA di fatto un organo subalterno al codice emesso dalla WADA e dalla lista delle sostanze proibite da essa decise.
È proprio la WADA ad aver definito tra le linee guida dei "whereabouts" di cui ha parlato a lungo Matteo Berrettini a Tintoria. Ogni atleta deve rendere noti i propri spostamenti alla WADA e comunicare un’ora del giorno, per tutta la settimana, in cui è disponibile per un eventuale controllo antidoping a sorpresa. Il tennista italiano ha parlato a lungo a Tintoria di come una regola del genere ponga non poco stress sugli atleti, specialmente dal punto di vista della privacy. Anche un minimo cambio di programma, non così improbabile per i tennisti, è infatti difficilmente notificabile alla WADA, che richiede la compilazione di un form con tutti gli spostamenti previsti ad ogni quarto di anno. Se salti un test ricevi un avviso che dura un anno, un peso non da poco sulla paranoia generata da possibili altri test mancati. A tre test mancati, infatti, scatta la squalifica di un anno e mezzo.
I CASI CONTROVERSI
Lo sa molto bene Mikael Ymer, costretto ad un anno e mezzo di stop per aver saltato tre test anti-doping in un periodo di dodici mesi. Nel 2021 il tennista svedese salta due test, ammettendo la negligenza di non essere stato presente al momento comunicato e nel luogo comunicato. Contesta però il terzo test saltato, dove emerge il grosso problema di un sistema costruito in questo modo. Ymer si trova in Francia per un torneo e viene sistemato in un hotel diverso da quello comunicato, e accordato, in precedenza. Il suo agente, che si occupa di aggiornare i whereabouts del tennista, non riceve notizie del cambio di prenotazione e quindi non comunica il cambiamento alla WADA. Ymer salta così il suo terzo test e riceve una squalifica di diciotto mesi.
Un caso simile era successo a Viktor Troicki nel 2013, con il tennista serbo che era stato costretto a diciotto mesi di stop, poi ridotti a dodici, per via del rifiuto di sottoporsi ad un prelievo di sangue. Nel caso di Troicki il rifiuto arrivò per via di un malanno del serbo, unito ad una fobia degli aghi, pur fornendo all’ITF il test delle urine richiesto.
La regola dei whereabouts, che rischia appunto di far squalificare tennisti teoricamente puliti come Ymer, è stata molto contestata negli anni da svariati sindacati degli atleti, soprattutto per la violazione della privacy dei tennisti che comporta. Nel 2009, però, un tentativo nei tribunali belgi di provare a cancellare la norma, basato sul rispetto dei diritti della privacy nella UE, non è andato a buon fine.
Il sistema sicuramente ha il vantaggio di mantenere una capillarità nella gestione della lotta al doping (lo stesso Berrettini ha dichiarato che ad inizio 2025 era già passato sotto quattro test antidoping) ma il prezzo da pagare non è certo di poco conto. Casi come quello di Ymer o di Troicki dimostrano l’assurdità di poter ricevere diciotto mesi di squalifica pur non risultando positivi a doping di alcun tipo.
L’altra faccia della medaglia è l’incredibile sensibilità dei nuovi strumenti per la lotta al doping, in grado oggi di rilevare percentuali infinitesimali di qualsiasi sostanza proibita. Lo abbiamo visto proprio nel caso di Jannik Sinner, che per sostanze minuscole ha dovuto scontare una squalifica significativa. «Le quantità riscontrate sono così piccole che è possibile contaminarsi facendo anche cose banali», ha dichiarato il direttore della WADA, Oliver Niggli. «Capisco il pubblico, che pensa che siamo ingenui e che ci beviamo tutto. Ma la realtà è diversa. C'è un problema. Se volessimo semplificarci la vita, potremmo imporre nuove soglie e non riscontrare tutti questi casi. Ma la vera domanda è: siamo pronti ad accettare il microdosaggio? Dove ci fermiamo?».
È un dilemma non facile da sciogliere. Il Trofodermin protagonista della vicenda Sinner, per dire, è un normale farmaco da banco presente nelle vite di tante persone comuni. Da una parte quindi c'è la sfida di mantenere lo sport "pulito", come amano dire le istituzioni anti-doping, dall’altro evitare che squalifiche draconiane scatenino una caccia alle streghe che ricade sulle carriere degli atleti. Per dire: se è scientificamente provato che una sostanza in quelle quantità non dia vantaggi fisici, perché continuare a trattarla in questo modo?
Bisogna parlare anche delle TUE, le esenzioni per uso terapeutico. Nel 2022 un tennista ATP ha dichiarato in maniera anonima che metà della Top 100 fa uso di farmaci relativi alla cura di disturbi dell’attenzione. Per ottenerli serve una TUE, rilasciata dall’ITIA se ritenuta necessaria per una patologia manifestata da un tennista. Chiaramente le TUE non sono un lasciapassare a doparsi, e ci sono tennisti che ne hanno bisogno vitale come Alexander Muller, che soffre del morbo di Crohn, o per chi come Alexander Zverev soffre di diabete.
La zona grigia delle TUE però, come evidenziato da John Millman, è nel suo utilizzo per l’assunzione di farmaci per il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) come l’Adderall, che danno vantaggi non da poco sulla concentrazione e hanno quindi un effetto tutto sommato "dopante" per un tennista. Anche in questo caso non è semplice: vietare direttamente le TUE porrebbe seri problemi per chi, come già citato, ne ha davvero bisogno per scopi medici (anche a chi usa l'Adderall perché soffre veramente di ADHD).
Insomma, trovare un equilibrio tra la lotta al doping e la credibilità delle sue squalifiche non è semplice, e il dibattito non può che fare bene all'opinione pubblica per capire la complessità di un tema che invece viene trattato spesso senza sfumature.