Il Napoli stavolta è davvero a un passo dal farcela, al termine di un campionato che forse non è mai stato realmente in discussione. La squadra di Spalletti ha riportato lo Scudetto in città dopo ben 33 anni dall’ultima volta, interrompendo una serie di 29 tornei consecutivi vinti solo da Juventus, Milan, Inter, con l’intermezzo di Lazio e Roma a cavallo del millennio. Il terzo scudetto del Napoli, il primo senza Diego Armando Maradona, sarà una storia da raccontare a lungo. Anche perché, all’inizio di questa stagione, era sembrato a tutti che la squadra di Spalletti fosse destinata a un ridimensionamento, dopo aver perso in un colpo solo alcune delle colonne portanti come Koulibaly, Insigne, Mertens, oltre a perno della squadra Fabian Ruiz. Il clima, insomma, non era dei migliori, anche perché a rimpiazzarli erano state fatte diverse scommesse, interessanti ma da valutare, giocatori come Kim, Kvaratskhelia, Raspadori e Simeone.
Al Napoli però non è servito tempo per la transizione: al contrario è stato chiaro fin dalle prime giornate che la squadra di Spalletti aveva qualcosa in più, qualcosa di speciale. Per mesi è rimasta imbattuta, una delle pochissime squadre in Europa, vincendo partite in maniera spettacolare, mettendo in mostra una difesa di ferro e un attacco di lusso. La prima sconfitta è arrivata solo a gennaio per mano dell’Inter, al rientro dalla lunghissima sosta per il Mondiale. Spalletti, al suo secondo anno in Campania dopo una lunghissima carriera ad alti livelli, è stato la perfetta guida di questa squadra, un allenatore capace non solo di plasmare un gioco peculiare e spettacolare, ma anche di calarsi perfettamente nell’identità cittadina grazie anche al suo stile comunicativo unico. A Napoli ha dimostrato di aver le capacità per assecondare il talento a disposizione e per formare un ambiente di lavoro positivo e propositivo, aiutando la sua squadra a sviluppare una vera e propria coscienza collettiva condivisa. Il premio è la vittoria di questo Scudetto, solo sfiorato finora. Un titolo che – se ce ne fosse davvero bisogno – conferma il suo valore in panchina.
Inventare la propria fortuna
A rendere il Napoli 22/23 così particolare è stata proprio la sua malleabilità e la ricettività della squadra in campo. Un animale strano, che partiva sì da una struttura definita, ma che era capace di sformarsi a piacimento grazie alla grande intesa tra i giocatori, in base alle necessità delle circostanze. Il Napoli in campo si muove in continuazione, svuotando e riempendo gli spazi concessi dagli avversari come un liquido oleoso che si deforma lungo le pareti del contenitore in cui viene versato fino a occuparne, in modo soffocante, ogni centimetro. Per le squadre avversarie è stato allora particolarmente difficile limitare la produttività offensiva del Napoli, proprio per questa naturale e accerchiante capacità di riempire la metà campo avversaria in diversi modi, e di creare occasioni con altrettanta varietà.
Si potrebbe dire, banalmente, che il Napoli Campione d’Italia è stata una squadra che è voluta essere artefice del proprio destino, che - per dirla come forse farebbe Spalletti - ha voluto “inventare la propria fortuna”. I presupposti necessari per fare ciò, come per buona parte delle grandi squadre degli ultimi anni, sono stati un’attenzione particolare al mantenimento del possesso, al fine di riuscire a organizzare le azioni in modo tale da colpire da zone più pericolose; la cura di una riaggressione immediata a palla persa e, infine, un atteggiamento aggressivo durante i momenti di possesso avversario, caratterizzati da un baricentro alto e dalla capacità di “rompere” le linee immaginarie dei reparti per andare a prendere l’avversario, in determinate circostanze, uomo contro uomo.
Proprio su quest’ultimo aspetto, però in chiave offensiva, Spalletti aveva esposto il suo punto di vista piuttosto esplicitamente, in una intervista a DAZN della scorsa stagione dopo una vittoria per 2-1 contro l’Udinese: «[nel calcio moderno] si va più addosso all’avversario, ci sono più uno contro uno, si gioca in spazi più ampi […] gli spazi non sono tra le linee ma sono tra i calciatori avversari, perché dove sono i calciatori avversari non sono più linee “corrette” come si diceva prima, per cui gli spazi sono dove li creano gli altri e bisogna saperli interpretare, vedere e usare dove sono questi spazi, non tra le linee. Di spazio poi ce n’è sempre [dopo una linea] sicuramente, dove? Dietro la linea difensiva». Sebbene il Napoli avesse già fatto vedere che il suo stile di possesso offensivo fosse orientato a risolvere questo tipo di problemi – come trovare gli spazi tra i corpi avversari e come arrivare al di là dell’ultima linea avversaria – durante la scorsa stagione, è stato in questa che la sua efficacia ha raggiunto livelli molto alti.
L'importanza del palleggio
Lo ha fatto innanzitutto enfatizzando il palleggio nella propria metà campo, spesso a ridosso dell’area, accettando il rischio per invitare l’avversario a salire per recuperare palla. Già in questa fase è evidente quanto il Napoli sia una squadra fluida, che partendo da una struttura di rifermento – in questo caso il 4-3-3 – rende la vita difficile agli avversari grazie a continui scambi di posizione e movimenti dei giocatori sempre diversi, modificandoli anche in base a chi si trovava davanti. Contro le squadre più attendiste, ad esempio, il Napoli cerca di far salire il proprio palleggio passando da un lato all’altro, utilizzando i centrocampisti come appoggio, evitando così di andare direttamente dalle punte. Questo palleggio costringe il blocco degli avversari a scivolare orizzontalmente, lasciando necessariamente degli spiragli al centro, dove il Napoli, a quel punto sì, cerca di infilarsi con verticalizzazioni improvvise o attraverso conduzioni individuali.
Quando invece l’avversario accettava il suo gioco, venendo a pressare alto e forte, il Napoli può accelerare all’improvviso, cercando in zone centrali il movimento incontro di Osimhen o Zielinski oppure lungolinea, attraverso combinazioni tra terzino, mediano, mezz’ala e ala. Una grande qualità della squadra di Spalletti è che in queste situazioni accetta anche di uscire dal pressing alzando il pallone, ma facendolo sempre in un contesto di gioco associativo, dove tutti sapevano cosa fare in relazione ai compagni.
Prendiamo il gol segnato contro la Sampdoria a Marassi: Zambo-Anguissa, Di Lorenzo e Politano non buttano il pallone nonostante una situazione di parità numerica in una zona di campo pericolosa; così facendo attirando la pressione avversaria, che apre uno spazio per andare di prima in diagonale verso Lobotka. Dal primo passaggio di Di Lorenzo alla successiva giocata di Lobotka verso Osimhen, il Napoli riesce a venire fuori dal traffico sfruttando palloni alzati morbidamente di varie lunghezze, per poi accelerare repentinamente una volta raggiunto un giocatore con spazio per condurre davanti a sé, sul lato scoperto dell’avversario. Il coinvolgimento dei terzini, in tutto ciò è stato spesso decisivo.
Di Lorenzo e Mario Rui non sono mai stati strettamente vincolati a calpestare la riga, a fornire sovrapposizioni sui movimenti a rientrare degli esterni o a rimanere bloccati, anzi. È proprio da come i due hanno interpretato il loro ruolo che possiamo cogliere il grande lavoro di Spalletti nello sviluppare una “consapevolezza funzionale” dei suoi giocatori, che al di là del loro ruolo nominale andavano a svuotare e riempire gli spazi in relazione alla posizione di compagni, avversari e dinamica dell’azione.
La capacità di riconoscere quando muoversi verso l’interno da parte dei terzini è stato un elemento importante negli sviluppi offensivi del Napoli, che così poteva contare anche su dei playmaker esterni, due appoggi sicuri da raggiungere e sfruttare soprattutto nelle partite in cui l’intasamento centrale da parte dell’avversario non rendeva facile la vita ai tre centrocampisti.
Organizzare le azioni
Proprio il trio Anguissa-Lobotka-Zielinski, il cuore della squadra, è stato determinante per fare funzionare questo tipo di gioco, quanto esemplificativo dell’identità che Spalletti ha dato al suo Napoli. I tre, infatti, si muovono tantissimo, scambiando tra loro sul corto per legare il gioco da un lato all’altro o per ricercare la verticalizzazione alle spalle della pressione. Per funzionare questo gioco ha bisogno della precisione degli interpreti nelle letture dei movimenti, capire quando proporsi e dove, oppure quando il movimento di un compagno lascia uno spazio da coprire, per assicurare il giusto equilibrio. Certo, era più facile vedere Lobotka come riferimento centrale davanti alla difesa in uscita piuttosto che Zielinski, che invece cercava più frequentemente di occupare lo spazio alle spalle della punta, ma nei lunghi flussi di possesso in cui la palla tornava a viaggiare all’indietro prima di essere nuovamente spostata in avanti, i movimenti alternati dei tre, in simbiosi con quelli dei terzini e dei tre attaccanti davanti, erano decisivi per superare la pressione dell’avversario e portare “a spasso” le marcature più strette, arrivando a risalire il campo nel modo più pulito possibile.
In questo lungo possesso nella partita di andata di Champions League contro il Milan vediamo come, con Lobotka che fa ripartire l’azione da dietro trovandosi sulla sinistra, Anguissa si sposta in posizione centrale e Di Lorenzo va immediatamente a riempire lo spazio al centro, scambiandosi poi ulteriormente con Lozano. Sul ritorno indietro del pallone, Anguissa e Lobotka si abbassano gradualmente arrivando poi a combinare con un uno-due, saltare la pressione e progredire. Le distanze fra i tre centrocampisti di Spalletti si ampliano e si restringono in continuazione, mentre gli stessi ruotano tra di loro. È stato frequente vederli raggruppati in spazi piccoli, magari a consolidare un possesso laterale attirando l’avversario per poi coglierlo alla sprovvista spostandosi immediatamente verso il centro.
Attraverso partecipazione e dinamismo collettivi, il Napoli permette ai suoi attaccanti di dedicarsi prevalentemente all’occupazione della trequarti avversaria; al contempo, però, sono state anche le caratteristiche e le qualità di Osimhen e Kvaratskhelia, la loro influenza sulle difese avversarie, ad aprire spazi e opportunità di progressione per i compagni alle loro spalle. Il centravanti nigeriano per tutta la stagione è stato dominante, soprattutto quando attaccava la profondità, ma il suo contributo non si è limitato a quello. Il Napoli avrebbe potuto facilmente appiattire le proprie soluzioni offensive sullo strapotere verticale di Osimhen, invece Spalletti è stato abile a nutrire l’istinto versatile della sua squadra. All’interno di un contesto offensivo in cui il Napoli poteva progredire sfruttando la mobilità dei suoi terzini, il gioco corto dei suoi centrocampisti e la creatività dirompente di Kvaratskhelia, il lancio lungo su Osimhen non è diventato la normalità, ma anzi una scelta fatta con precisione in alcuni momenti, per aumentare l’imprevedibilità della squadra. Dai principi di gioco che incontrano le qualità individuali, alle qualità individuali che generano i principi di gioco. Una relazione circolare bivalente che Spalletti ha saputo abbracciare, regalandoci una squadra dinamica e varia, ma non per questo meno combattiva.
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L'aggressività propositiva del Napoli
La caparbietà del Napoli è rappresentata perfettamente da questa rincorsa forsennata per assorbire un contropiede dopo un calcio d’angolo a favore, con tutti e dieci i giocatori di movimento che scappano famelici a protezione della propria area, lasciata completamente sguarnita. Con il Sassuolo interamente dedito a difendere senza lasciare nessuno in attacco preventivamente, il Napoli aveva 6 giocatori in area e 2 sul punto di battuta; i più arretrati erano, sulla trequarti, Elmas e Lobotka. Dietro di loro, 75 metri abbondanti di campo pronti per essere sfruttati dal Sassuolo. Lo stesso Spalletti si è detto sbalordito da questa azione: «In 25 anni di carriera non ho mai visto una roba del genere». Questo, ovviamente, è un caso limite che serve più come simbolo del modo con cui il Napoli ha costruito la sua corsa verso lo Scudetto, non solo attraverso la tecnica dei suoi giocatori, ma anche grazie a una coriacea aggressività nelle fasi di recupero palla, soprattutto nel contropressing, che gli ha spesso consentito di occupare stabilmente la metà campo avversaria.
Nell’azione qui sopra, per esempio, subito dopo aver perso il pallone Zielinski insegue l’avversario mentre Lobotka scherma la linea di passaggio centrale, Mario Rui stringe verso il centro e Kim esce forte in anticipo su Di Maria. Sulla riconquista, poi, è immediata la ricerca dello spazio libero per poi uscire, in diagonale, dal traffico e accelerare la ripartenza.
L’identità propositiva del Napoli è evidente anche quando dovevano difendersi più bassi e compatti nella propria metà campo. In quei frangenti la squadra si schiera con un 4-1-4-1, ma sempre mantenendo una certa fluidità che permetteva ai giocatori di rompere la linea difensiva per aggredire un avversario o infastidire la costruzione avversaria, pur mantenendo un forte orientamento sul pallone. Ad esempio non è raro vedere vedere Zielinski alzato di fianco a Osimhen, con Lobotka proiettato in avanti alle sue spalle, mentre il centravanti nigeriano cercava di isolare il centrale avversario per costringerlo al passaggio laterale verso il terzino, su cui sarebbe poi uscito l’esterno di parte, o in alternativa a una verticalizzazione centrale che sarebbe stata eventualmente il trigger per il pressing dei giocatori impegnati sulla zona centrale del campo. Il tutto naturalmente accompagnato da un atteggiamento iperaggressivo dei centrali di difesa.
Nelle prime due immagini un esempio dalla partita di andata contro la Roma; nella terza, Kim che segue Milinkovic-Savic fino all’area avversaria.
Il Napoli si sta prendendo il suo terzo scudetto proponendo un calcio armonioso e dinamico, che ha valorizzato i talenti a disposizione permettendo ai più iconici – Kvaratskhelia e Osimhen – di entrare tra le leggende del club, in attesa di capire come si evolverà la loro carriera, se confermeranno quanto di buono fatto vedere in questa stagione e soprattutto se rimarranno in azzurro o meno. Sulle spalle del georgiano, in particolare, pesano già paragoni illustri, e in effetti è davvero difficile ritenere esagerate le suggestioni su di lui per quanto visto finora. Kvaratskhelia ha messo insieme il fascino del giocatore misteriosamente talentuoso, venuto da lontano, e il carisma del trascinatore predestinato, capace di inclinare il campo a suo piacimento anche nelle partite più importanti, anche con due-tre-quattro avversari addosso.
Anche se l’epica di Kvaratskhelia e l’estetica di Osimhen sono già – giustamente – parte del folklore napoletano, sarebbe comunque riduttivo sintetizzare questo Napoli come la mera somma delle loro qualità. Non solo perché bisognerebbe sempre evitare di applicare questo tipo di logica a tutto ciò che riguarda il calcio, ma perché se c’è una squadra che rappresenta al meglio il valore aggiunto dell’intesa, delle relazioni di gioco, dell’adattamento fluido, è proprio questa versione del Napoli di Spalletti.