Guardare il passato è un po’ come pensare al futuro: esaminare le partite degli anni ’60 e ’70 rappresenta un’esperienza non troppo diversa da immaginare il calcio del 2070, con i palloni portati a centrocampo dai droni, i calciatori grossi quanto i cestisti NBA e i portieri che arrivano sulla trequarti avversaria a impostare.
Significa entrare in un’epoca a noi ormai estranea, che ci sembra non avere quasi nessun collegamento con il calcio di oggi. Guardare partite intere di George Best nel 2020, in particolare, significa imbattersi in momenti difficili da decifrare, per noi inimmaginabili, come l’invasione di campo dei fotografi ogni volta che un giocatore rimaneva a terra per un infortunio, cosa che, peraltro, avveniva molto più raramente di oggi.
O ancora: le strane frecce luminose in sovraimpressione per indicare i replay, simili alle insegne dei night club nei film ambientati a Las Vegas; e soprattutto l’incredibile quantità di persone sugli spalti. Non so se è un effetto dettato dalla risoluzione delle immagini di un tempo, o dal fatto che allora molti stadi non avessero la copertura, fatto sta che, soprattutto nel campionato inglese, spesso c’erano talmente tanti spettatori da coprire letteralmente lo stadio che li conteneva. A volte sembrava che lo stadio non ci fosse, che le persone si fossero ammassate a bordo campo, ammonticchiate una sull’altra come cumuli di farina. In molti stadi inglesi la distanza tra giocatori e tifosi era ridotta a pochissimi metri, a volte sembra meno di un metro, e gli spalti, se così si possono chiamare, erano divisi dal campo da una semplice staccionata bianca di legno, che sembrava potesse andare in frantumi in qualsiasi momento per la pressione esercitata da quell’esagerata quantità di persone.
Tratta dal celebre Northampton – Manchester United 2-8 del 1970 in cui Best segnò sei gol.
Poi ci sono i dettagli che hanno a che fare con cosa significava essere un calciatore allora. Per esempio la stupefacente permissività degli arbitri nei confronti dei difensori, che spesso intervenivano sugli avversari in un modo che adesso sarebbe sanzionato con diverse giornate di squalifica. A volte è anche difficile chiamarli interventi perché sono proprio calci sugli stinchi o scivolate direttamente all’altezza del ginocchio. Eppure i cartellini gialli mi sembra che fossero piuttosto rari e anche i giocatori erano meno propensi ad andare a terra, non so se per ostentazione della virilità o perché la televisione non aveva ancora l’influenza enorme che ha oggi nell’indirizzare il dibattito intorno allo sport. E quindi forse i giocatori erano meno attenti alle telecamere.
L'equilibrio
In ogni caso, nel dibattito calcistico si dava grande importanza a un elemento che oggi mi sembra del tutto scomparso, e cioè l’equilibrio. È una cosa di cui parlava anche Cruyff quando sottolineava l’importanza di crescere giocando per strada, ma lo stesso Best diceva spesso che la qualità principale dei grandi atleti fosse l’equilibrio. E penso intendesse proprio la capacità di mantenersi in piedi, di continuare a correre palla al piede, di non perdere in velocità e controllo del pallone nonostante i falli e i campi disastrati.
La maggior parte dei campi erano composti il più delle volte da fango più che da prato e questo portava il pallone ad avere un rimbalzo quasi del tutto imprevedibile. Per quanto i palloni fossero più pesanti allora, non era raro vedere i giocatori essere ingannati in primo luogo dal rimbalzo mentre andavano in conduzione o provavano a stoppare un semplice passaggio – fondamentali per i quali c’era bisogno di uno sforzo di concentrazione enormemente più grande rispetto ad oggi. Forse se negli ’60 avessero avuto i palloni leggeri che abbiamo oggi il calcio sarebbe stato ancora più simile al beach soccer, con giocatori costretti ad alzarsi il pallone con la punta per evitare le piccole dune della sabbia o a provare acrobazie dal limite dell’area. Il che spiega molto del gioco di allora – la generale diffidenza verso il gioco palla a terra, i lanci lunghi, l’attaccare con pochi uomini scelti in conduzione. L’affidarsi più all’entropia dei rimbalzi, delle spizzate, delle seconde palle che all’ordine dei passaggi corti, delle spaziature, dei triangoli.
In questo senso, George Best era perfettamente un giocatore del suo tempo. Anzi, di più: è il giocatore che più si è avvicinato all’ideale del calcio di quel tempo. Qualcuno che da solo riuscisse a planare su questa entropia come se nulla fosse, a trasformare un qualsiasi rimbalzo impazzito, una spizzata casuale, una palla vagante, in una corsa dritta per dritta di decine di metri e poi, alla fine, in un gol.
Se pensate che sia un’idea di calcio semplicistica, e forse effettivamente lo è, provate per un attimo a ripensare al contesto che ho provato ad abbozzare all’inizio di questo pezzo – ai campi disastrati, al rimbalzo del pallone imprevedibile, alla libertà lasciata ai difensori di fare interventi che puntavano quasi esclusivamente a fermare fisicamente l’avversario, alla quasi totale assenza di movimenti pensati per liberare spazio intorno a un giocatore. Pensate alla raffinatezza tecnica nel controllo del pallone, al livello di concentrazione richiesto, alla spensieratezza che ci vuole per andare in conduzione per decine di metri in queste condizioni. Alla fantasia e all’intuito che ci vogliono per tentare una finta, per pensare a un tunnel quando tutto sembra pensato per farti perdere il controllo del pallone.
Ecco, nei suoi momenti migliori, che nelle sue tre-quattro stagioni di "picco" apparivano nei momenti decisivi della partita, George Best dava esattamente l’impressione di avere quel tipo di sensibilità tecnica, di concentrazione, di spensieratezza, di fantasia e di intuito.
Best, insomma, non era un giocatore che veniva dal futuro, come si dice spesso dei giocatori fuori scala rispetto al loro tempo, piuttosto era l’idea platonica di quello che tutti si aspettavano da un fuoriclasse in quel momento, dimostrando che tutti i sogni più selvaggi su ciò che ci si poteva aspettare da un giocatore su un campo da calcio in quel momento potevano essere reali, anche se solo per un istante. E facendo sembrare, così, tutti gli altri qualcosa di superato.
L'eleganza
Questo effetto era ulteriormente amplificato dal contrasto estetico tra Best e il resto del mondo del calcio, o per lo meno il resto del mondo del calcio inglese. Negli anni migliori della sua carriera, con le immagini ancora in bianco e nero, Best era magrissimo, con le gambe finissime quasi infantile, e il viso da bambino solcato da un sorriso a metà tra il timido e il malizioso. Vederlo andare in picchiata verso la porta avversaria volando sul fango, aggirando gli avversari, facendo apparire difensori più grossi e più minacciosi di lui per quello che erano davvero, e cioè legnosi e impacciati, ridicolizzandoli nel modo in cui cercavano disperatamente di abbatterlo mentre lui continuava a correre, deve aver avuto un effetto liberatorio in tutti quelli che lo guardavano da fuori. Liberatorio rispetto al calcio grigio e privo di qualsiasi eleganza in cui era apparso.
Questo, ad esempio, è uno dei primi gol che ha reso Best il giocatore che tutti conosciamo, contro il Chelsea all’Old Trafford, nel marzo del 1965. È uno dei suoi tanti gol che nasce da una situazione quasi del tutto casuale – in questo caso il difensore del Chelsea, Eddie McCreadie, che gli tira addosso nel tentativo di rilanciare. In questo senso, la differenza tra Best e il resto dei suoi giocatori del suo tempo non sta tanto nel geniale pallonetto che chiude l’azione, realizzato quasi dalla linea di fondo, con il portiere che si mette le mani sui fianchi come un anziano di fronte a un ragazzino impertinente.
La differenza è nel panico generato dalla reattività mentale e muscolare di Best nel cervello di McCreadie, che prima si fa anticipare sul rimpallo e poi, pressato alle spalle, non riesce nemmeno a proteggere il pallone con il corpo, scivola a terra e prova a spazzare via il pallone in scivolata, ciccandolo in maniera ridicola. Sembra che McCreadie, nel confronto con Best, sia semplicemente inadatto al gioco del calcio. Ed è utile ricordare che inizialmente Best per quanto era mingherlino fu preso in giro dai suoi stessi compagni, che inizialmente lo consideravano poco più di un bambino: Denis Law, la priva volta che lo vide, lo paragonò a un coniglio senza pelle; Bobby Charlton, il giocatore fisicamente e tecnicamente più agli antipodi di Best in quello United, disse che doveva crescere “in ogni senso”. Bastarono pochi allenamenti con la prima squadra a costringerlo a rimangiarsi le sue parole.
L’evidenza che il talento potesse sopraffare in maniera così sfacciata l’atletismo ebbe da sola un effetto controculturale non solo in Inghilterra, dove ancora più di oggi l’intensità era praticamente l’unico parametro attraverso cui valutare il talento, ma anche nel resto d’Europa, soprattutto attraverso il doppio confronto con il Benfica in Coppa dei Campioni tra il 1966 (ai quarti di finale) e il 1968 (in finale).
Questo non solo perché la squadra portoghese era simbolicamente rappresentata da un giocatore dal fisico statuario che, come ha scritto Matteo Gatto, sembrava «più voluminoso degli altri», e cioè Eusebio, ma soprattutto per quello che Best aveva fatto passare ai suoi ruvidissimi difensori in quelle tre partite. Come quello che viene superato come un palo della luce in occasione del gol dello 0-2 nella partita di ritorno dei quarti di finale del 1966 – quella in cui nacque il celebre soprannome “El Beatle”.
O quello che, durante la finale del 1968, ai supplementari, sulla spizzata di Brian Kidd, va per calciare il pallone per spazzarlo e invece finisce per calciare l’aria, subendo un tunnel da Best, che era arrivato una frazione di secondo di anticipo con la punta.
Non a caso Best era molto infastidito dal fatto che le televisioni, per ricordare quello storico gol (che portò il Manchester United sul 2-1 a Wembley), rimandassero solo il replay della parte finale, con la finta di interno sul portiere e il tiro a porta vuota. Diceva che non era quella la parte più difficile dell’azione, e forse sentiva che quell’immagine non rappresentasse l’essenza del suo gioco.
L'imprevedibilità
Nonostante amasse irridere gli avversari, Best non era un mago dell’elusione, un giocatore da numeri barocchi, e aveva un’indole estremamente verticale che ne limitava anche la visione di gioco. Quando si accentrava per cambiare gioco o associarsi spesso provava soluzioni forzate o sbagliava direttamente con passaggi pigri, e il suo talento si esprimeva principalmente quando poteva attaccare palla al piede in spazi aperti, squarciando il campo con le sue conduzioni – cioè esattamente quello che richiedeva il calcio inglese del tempo. In questo senso, è interessante che il suo gioco si fosse evoluto anche grazie ai limiti del calcio del tempo – agli interventi assassini dei difensori e all’irregolarità dei campi. Best, che era terrorizzato dall’idea di potersi fare male seriamente, diceva spesso che il suo gioco si era raffinato per astuzia – cioè per salvaguardare le gambe da quegli interventi.
Per la sopravvivenza delle proprie gambe e del proprio gioco, Best sembrava aver sviluppato un’incredibile capacità di colpire il pallone a una frequenza altissima e con una grande varietà di colpi, in modo da una parte di anticipare gli avversari o mandarli fuori tempo e dall’altra di controllare il rimbalzo imprevedibile del pallone. Se è vero che utilizzava prevalentemente il destro è anche vero che non si faceva problemi ad alternare interno ed esterno in conduzione, con cui si divertiva a variare continuamente il ritmo della sua corsa, con finte e pause - cosa che faceva letteralmente impazzire i difensori avversari.
La sua frequenza di tocchi, infatti, non aveva la regolarità ritmica delle conduzioni d’esterno di Messi, tanto per fare un esempio che oggi ci è naturale a tutti - ma era del tutto imprevedibile, come quella di un batterista di un complesso free jazz. Best sembrava improvvisare ogni singola conduzione e pareva che potesse accelerare a ogni singolo tocco di palla, come se giocasse sempre in discesa.
In questo senso, il suo talento si materializzava non tanto in un rapporto privilegiato con il pallone, quanto in una differente coordinazione cervello-piede nel controllo del rimbalzo del pallone e di quello che facevano gli avversari intorno a lui. Un tipo di talento che forse va oltre quello che normalmente intendiamo con tecnica e che gli permetteva di controllare una seconda palla in palleggio aggirando un avversario che era intervenuto quasi in contemporanea con lui.
Questo ovviamente non vuol dire che Best non avesse un rapporto speciale con il pallone, che si vedeva ad esempio nell’utilizzo raffinatissimo dell’esterno, con cui spesso cambiava gioco per puro sfoggio della sua tecnica o metteva giù palloni alti per mettersi immediatamente nelle condizioni di correre verso la porta avversaria. Ma ciò che lo rendeva diverso era la capacità di coordinazione in spazi strettissimi, di controllare il pallone in corsa, di alternare il ritmo delle giocate in continuazione. Tutte qualità che gli permettevano di controllare il tempo dell’azione, a cui tutti gli altri, volenti o nolenti, finivano per adeguarsi.
Non è un caso che il suo stile sia diventato via via meno attraente per chi lo guardava, e poi addirittura irritante, mano a mano che la sua reattività mentale si arrugginiva per via dell’alcol e del graduale disinteresse nei confronti del calcio. Non era tanto una questione fisica, perché Best non aveva comunque qualità atletiche che gli avrebbero permesso di eccellere nel calcio del tempo, quanto proprio la capacità di far combaciare l’ambizione del suo pensiero con la coordinazione del resto del corpo.
È paradossale che Best sia finito per assomigliare sempre più a un calciatore del suo tempo, anche esteticamente, mano a mano che le immagini televisive si coloravano, e la maggiore definizione del video ne metteva in risalto la pancia sotto la maglietta, la barba sul viso, le occhiaie a definire lo sguardo. Quando la brillantezza mentale non lo ha più sorretto, lo spettacolo offerto da Best è iniziato a diventare desolante con continui tentativi di dribbling che si scontravano sugli avversari e il pallone che continuava a sfuggirgli dai piedi.
Irripetibile
Oltre al declino fisico e psicologico, a far tornare Best nella cornice del suo tempo è stato soprattutto l’avvento del calcio di posizione olandese e la concezione collettiva e associativa che si portava dietro. Idee che erano del tutto incompatibili con la sua indole, refrattaria a qualsiasi movimento studiato sulla lavagnetta tattica. Per Best il calcio era in primo luogo spettacolo – ovvero spettacolo che i giocatori migliori dovevano offrire al pubblico. E in questo modo concepì anche la lunga fase declinante della sua carriera – come una specie di circo itinerante tra Stati Uniti e Gran Bretagna.
Un modo di pensare al gioco che ne aveva fatto la fortuna nei primi anni della sua carriera, in cui sembrava davvero che il campo fosse il suo palcoscenico e i restanti 21 in campo nient’altro che comparse, ma che divenne poi anche la sua maledizione mano a mano che diventava sempre più comune pensare al calcio davvero come uno sport di squadra, in cui si attaccava e ci si difendeva tutti insieme. Best, invece, ha litigato con quasi tutti gli allenatori che hanno provato a inserirlo in un gioco organizzato e l’unico con cui sia mai andato d’accordo rimane il primo, Matt Busby, che concepiva il suo ruolo quasi esclusivamente come gestore di atleti, delegando il lavoro tattico ai suoi collaboratori ed evitando di dare praticamente qualsiasi indicazione complessa ai suoi giocatori in campo.
Non è un caso, in questo senso, che Best considerasse come suo grande rivale Johann Cruyff, non solo perché gli aveva immediatamente rubato lo scettro di miglior giocatore in Europa ma anche perché impersonava più di chiunque altro quel calcio olandese che stava contribuendo in maniera decisiva al suo tramonto. Best era talmente ossessionato da Cruyff che per lungo tempo cercò di incontrarlo in una partita ufficiale, come se il calcio si potesse ridurre a un duello western. E non era facile perché il suo declino era combaciato quasi perfettamente con l’ascesa del campione olandese. Ci riuscì infine nel 1976: la sua carriera ad alti livelli era già finita da un pezzo (quell’anno si divise tra i Los Angeles Aztecs, nella vecchia NASL, e il Fulham, in Serie B inglese) ma riuscì comunque a convincere il CT dell’Irlanda del Nord a convocarlo per un match di qualificazione ai Mondiali argentini del 1978 contro l’Olanda, a Rotterdam, nonostante non giocasse per il suo paese da ormai tre anni.
Quel momento è ricordato da un giornalista del Daily Express, Bill Elliott, che fu abbastanza fortunato da sedersi accanto a lui nel pullman della squadra che si dirigeva allo stadio, e sufficientemente malizioso da toccare il tasto dolente. «Cruyff è meglio di te?», gli chiese Elliott, al che Best sbottò: «Stai scherzando, vero? Te lo dico io cosa farò… gli farò un tunnel alla prima occasione». Anche se non ci sono video di quel momento, Elliott dice che lo fece davvero: dopo cinque minuti Best ricevette palla a sinistra, si accentrò per puntare Cruyff, fece due finte e poi gli fece passare il pallone tra le gambe. Dopo averlo aggirato e aver ripreso la palla alzò il pugno destro in aria. La leggenda vuole che Best abbia detto «Tu se il più forte di tutti ma solo perché io non ho tempo», una frase probabilmente mai pronunciata, su cui non abbiamo nessuna conferma affidabile, ma che descrive comunque il contesto emotivo della loro rivalità.
Quella partita finì 2-2, contro ogni pronostico, ma la storia non cambiò più di tanto: l’Irlanda del Nord arrivò penultima nel suo girone e non riuscì a qualificarsi, mentre l’Olanda non solo si qualificò, ma arrivò anche fino alla finale di quel Mondiale, anche senza Cruyff.
Il valore metaforico di questo aneddoto è fin troppo chiaro e mi limiterò, quindi, ad aggiungere un aspetto curioso, e cioè che Cruyff non sentiva affatto la rivalità con Best. Al contrario, sembrava stimarlo profondamente e pensava che si sarebbe potuto inserire nel calcio di posizione olandese. Pensava infatti che per salvarsi dal suo declino se ne sarebbe dovuto andare dallo United e sarebbe dovuto trasferirsi in Olanda: «Per un giocatore come George, lo stile dell’Ajax era una manna dal cielo. Avrebbe dovuto giocare per noi».
Interrogato una volta sul suo talento, Cruyff disse che fosse “unico”: «Qualcosa che non puoi allenare». Forse anche lui era colpito dalla sua irriproducibilità al di fuori dal contesto che l’aveva generato. Dal fatto che il suo gioco fosse inestricabilmente legato a un momento inafferrabile e irripetibile.