Cara redazione,
Domanda doppia semplice e diretta, come giocava il Napoli di Mazzarri nella stagione 2011/’12?
e come hanno fatto ad arrivare fino agli ottavi di CL?
Ringrazio anticipatamente
Simone
Risponde Francesco Lisanti
Caro Simone,
ti ringrazio per la domanda interessante, che in qualche modo mi tocca nel personale. Al Napoli di Mazzarri della stagione 2011/'12 mi capita spesso di applicare il postulato Torri Gemelle: potrei dirti esattamente in quale trattoria di quale località di montagna mi trovavo la sera del 3-1 al Chelsea poi campione d’Europa, e con uno sforzo di memoria supplementare anche i piatti ordinati. Quel Napoli è stato capace di centrare imprese eroiche, di regalarci emozioni ancora vive a sette anni di distanza, che in fondo rappresentano un buon lasso di tempo per rinfrescare la memoria, e cercare di cogliere aspetti che allora ci erano sfuggiti.
Il boato del San Paolo accompagna la lettura delle formazioni in campo. Cooon il numero sei: Salvatore A-RO-NI-CA.
È in qualche modo doveroso cominciare il nostro viaggio nel tempo proprio con quella partita, che è stata la massima espressione delle idee di Mazzarri e del talento di quel Napoli in campo internazionale. Dopo trenta secondi, il Napoli aveva già portato nove uomini nella metà campo del Chelsea, lasciando il solo Aronica a protezione della porta di De Sanctis, con un piano d’attacco che rifletteva i principali pregi di quella formazione: la chiarezza di idee e la grande applicazione tattica. Lancio lungo verso la fascia sul calcio di inizio, sul quale tutta la squadra si muove in verticale per contendere la seconda palla, e per trasmettere un messaggio preciso agli avversari: quando i ritmi si alzano, la partita è del Napoli.
Per il resto della partita, superate le fiammate iniziali, difficilmente il pressing iniziava fin dalla prima costruzione avversaria, che piuttosto veniva schermata all’altezza del centrocampo e accompagnata verso le fasce. Sempre con l’obiettivo di comprimere gli spazi d’azione degli avversari, l’attaccante schierato sul lato opposto rispetto alla posizione del pallone aveva il compito di coprire la linea di passaggio verso il playmaker avversario, ed era quindi chiamato a lasciare scoperta la sua fascia di competenza per aumentare la densità difensiva. Questo faceva sì che nel momento in cui la gabbia funzionava e il possesso tornava a essere del Napoli, i “tre tenori” si trovassero già molto vicini, liberi di scambiarsi la palla e la posizione.
Questo è di sicuro l’aspetto più moderno del Napoli di Mazzarri, sviluppato negli stessi anni in cui Klopp iniziava il suo ciclo vincente a Dortmund e Guardiola innovava dalle fondamenta la filosofia del Barcellona: ricercare costantemente la superiorità numerica nella zona del pallone, soprattutto senza palla, ma sempre a scopo offensivo, per arrivare ad attaccare in transizione e in velocità le difese avversarie. Allo stesso tempo, la notevole disposizione al sacrificio difensivo di Lavezzi, Cavani e Hamsik permetteva di compensare l’inferiorità numerica generata da una linea mediana composta da due soli uomini.
Movimenti diagonali, passaggi veloci, capovolgimento da un’area di rigore all’altra nel giro di pochi tocchi: un gol simbolo del Napoli di Mazzarri, quello che ha deciso la finale di Coppa Italia di quella stagione.
Con la palla tra i piedi, il Napoli aveva idee altrettanto chiare ma meno ambiziose: al primo accenno di pressing, lancio lungo verso i tre attaccanti. Era una squadra che nei momenti di scarso controllo si esaltava, che sapeva muovere il pallone con una rapidità e una lucidità impressionanti, sorrette dall’ambizione di inerpicarsi in combinazioni volanti di difficile riuscita. Cavani, in particolare, giocava con il pulsante dell’invisibilità ben saldo tra le mani. Gli bastava attivarlo per scappare via dal nulla a difese che non riuscivano a spiegarsi da dove fosse saltato fuori. E così venivano costrette a prendere sempre una decisione netta sul baricentro da adottare: non appena finivano in un limbo senza protezione, venivano punite.
In cabina di regia, sedevano due giocatori che abbracciavano fedelmente questa visione verticale del calcio. Inler con i lanci morbidi alle spalle della difesa, Gargano con i duelli corpo a corpo e la conduzione palla al piede, come nell’azione del secondo gol di Cavani al Milan fresco campione di Italia: una corsa senza senso di settanta metri che si conclude con un elegante assist no-look per l’implacabile numero sette. In ogni zona del campo il Napoli era una squadra versatile, con i difensori (Campagnaro, Cannavaro e Aronica) bravi sia ad accorciare in avanti che a coprire la profondità, e gli esterni (Maggio e Zuniga) in grado di sorprendere le difese avversarie tanto con i dribbling sulla fascia quanto con i tagli in diagonale senza palla
Il preciso inquadramento tattico riusciva a esaltare le caratteristiche dei giocatori in campo, ma non a mascherarne le carenze. Lo si capisce chiaramente seguendo l’azione del gol del temporaneo vantaggio del Chelsea al San Paolo. Prima Gargano sbaglia un controllo a ridosso della propria trequarti, perdendo il possesso della palla, poi Cannavaro svirgola il rinvio sul cross del Chelsea, consegnando il pallone a Mata a quel punto solo davanti al portiere. Nel doppio vantaggio sprecato contro la prima Juventus di Conte, Mazzarri non fu in grado di trovare una risposta a Mirko Vucinic, l’antidoto perfetto ai suoi schemi difensivi: un attaccante sempre pronto a ricevere nello spazio tra difesa e centrocampo, e sempre in grado di vincere i duelli individuali, ago della bilancia contro le difese votate alla marcature a uomo.
L’efficienza difensiva di quel Napoli poggiava su equilibri delicati, che saltavano in aria di fronte a giocate del livello di questo controllo orientato di Del Piero.
«Quando tutti stanno bene e la squadra spinge sull'acceleratore, il Napoli può essere irresistibile. Ma votarsi costantemente all'offensiva, richiedendo prestazioni-super e un grande dispendio di energie, non può essere tutto. Ci sono pur gli avversari che non te lo permettono. (...) Il Napoli va in difficoltà a governare le gare, a districarsi, a tenere palla, a farla girare, a "raffreddare" il match e gli avversari, in una parola ad essere padrone del gioco quando i tenori steccano o la squadra non può esprimersi come sa», scriveva Carratelli a pochi mesi dall’inizio della stagione, una descrizione nel frattempo diventata una pietra commemorativa di quel Napoli, precisissima nel raccoglierne in poche righe le luci e le ombre.
La squadra sapeva volare sulle ali dell’entusiasmo, e nell’ambiente ce n’era molto. Mazzarri ricevette carta bianca nella costruzione della rosa e dello staff, composto interamente da suoi amici e compagni di avventura, con cui collaborava da almeno dieci anni. In campo poteva contare su giocatori esaltanti, Cavani probabilmente al suo picco di forma (detto di uno degli attaccanti più longevi della sua generazione), Hamsik disposto a sacrifici che non sarebbe più stato in grado di replicare, Lavezzi convinto di poter superare qualunque avversario in qualsiasi punto del campo. Ma anche sull’intelligenza di Maggio, sulla visione di Inler, sul furore agonistico di Campagnaro. Giocatori che non ricordiamo così forti ma che per diversi motivi, per lunghi tratti di quella stagione, lo sono stati.
Anche nella notte più triste della gestione Mazzarri, il Napoli non perse la battaglia sul piano strategico, non consegnò la fascia centrale del campo, anzi rispose colpo su colpo agli attacchi del Chelsea (22 tiri a 23, recita il tabellino ancora fumante). Semplicemente, non riuscì a vincere in alcun modo i duelli aerei in area di rigore, contro una vecchia guardia determinata a vendicare le decisioni impopolari di Villas-Boas. Non riuscì a trovare la chiave di un universo in cui il corpo di Aronica lanciato contro quello di Drogba arriva per primo sul pallone (era già successo nella gara di andata, che ci crediate o meno). Fu così che Drogba, Terry, Lampard e Ivanovic segnarono l’eliminazione di quel Napoli e la fine di una bella storia.