Parlare dell’avvincente cavalcata europea del Vicenza 1997/98 potrebbe stridere con le tribolate vicende dell’ultimo anno, che hanno visto la società veneta dichiarata fallita dal tribunale di Vicenza lo scorso 18 gennaio, per poi salvarsi sul campo in seguito ai play-out di Lega Pro vinti contro il Santarcangelo e in estate grazie alla fusione con il Bassano Virtus 55 della famiglia Rosso sotto la denominazione di Lanerossi Vicenza Virtus.
Eppure riavvolgere il nastro di 20 anni per rispolverare i fasti del glorioso passato rappresenta forse uno dei modi più degni per rendere omaggio a un punto di riferimento della provincia italiana, che in oltre un secolo di storia ha messo assieme 30 campionati di serie A, e che con Francesco Guidolin in panchina ha toccato l’apice della propria storia, a due decadi di distanza dal secondo posto in serie A ottenuto dal Lanerossi del tecnico Giovan Battista Fabbri e del goleador Paolo Rossi. «Perché io faccio raccolta di ricordi, che è uno dei perché vale la pena vivere. E io qui a Vicenza ne ho costruiti tantissimi e meravigliosi” racconterà l’allenatore veneto il 16 maggio del 1998, il suo ultimo giorno sulla panchina biancorossa.
La sua esperienza dalle parti del Menti si era aperta nel 1994, a 39 anni, con la promozione in serie A, seguita da un eccellente nono posto nel 1995/96 e soprattutto dalla vittoria della Coppa Italia la stagione successiva. È il primo trofeo di una certa rilevanza alzato dal club veneto, che in precedenza aveva conquistato una Coppa Italia di serie C, due campionati di B e, stando a quanto riporta Wikipedia, una Benelux Cup nel 1959/61 e un’Uhrencup nel ’65.
Le incertezze determinate da una situazione societaria ambigua costringono però il direttore sportivo Sergio Gasparin a vendere i pezzi pregiati di quella squadra: capitan Lopez passa alla Lazio, Sartor all’Inter per 6,4 miliardi e Maini al Milan per 6 miliardi. Contestualmente dai nerazzurri compie il percorso inverso Di Napoli (prestito biennale), oltre agli Under 21 Ambrosini e Coco, ceduti a titolo temporaneo dai rossoneri. Altra uscita di rilievo è quella del centravanti Murgita, 35 gol nel triennio 1994-’97, ceduto al Piacenza in cambio di Luiso più un conguaglio di 3 miliardi in favore degli emiliani.
Abbozzo di modernità
Al di là del rientro alla base di Schenardi dopo sei mesi al Bologna e all’ingaggio di Dicara dal Perugia, dal Ravenna arriva per 1,5 miliardi uno dei futuri miti dei nostalgici dei 90’s, il 26enne Lamberto Zauli, strappato alla concorrenza di Lazio e Inter.
Il 4-4-2 che sfiorerà la finale di Coppa delle Coppe.
Emanuele Atturo, in un’intervista realizzata allo stesso Zauli, lo descriveva come «un animale strano, in un calcio abituato a dividere il fenotipo del fantasista tra veloci e brevilinei e alti ed eleganti». La particolarità di un elemento in grado di abbinare la fisicità più grezza alla qualità più pura si rifletteva oltretutto nella difficoltà a configurargli un ruolo negli ultimi 30-40 metri, come del resto la maggior parte dei creativi sbocciati negli anni ’90, ingabbiati nella rigidità del 4-4-2 di matrice sacchiana. A Ravenna viene utilizzato come quarto di sinistra nel 4-4-2 (forse per questo al tempo si parlava di lui come di un possibile sostituto di Jimmy Maini, malgrado quest’ultimo partisse da una posizione più centrale e arretrata).
Guidolin, di formazione anch’egli sacchiana ma meno dogmatico nell’interpretazione dei princìpi di gioco (tra l’altro in quella stagione virerà in maniera estemporanea sul 4-3-3 e sul 5-4-1), inizialmente cerca di sfruttarne l’eleganza sgraziata del giocatore che aveva già avuto a Ravenna sempre da esterno sinistro. Il suo compito non era tanto quello di convergere e prendere palla tra le linee, ma piuttosto ricevere largo per far collassare la squadra avversaria su di lui. Era questa la situazione tipo in cui doveva (più per necessità che per vezzo) dar sfogo alla sua inventiva e al suo uso controintuitivo del corpo, che si convertiva in giocate individuali utili a creare superiorità numerica. Un contesto limitante, che non gli conferisce centralità nello sviluppo della fase offensiva, ma che anzi lo isola e lo costringe a forzare le scelte. Dopo qualche mese viene spostato alle spalle di Luiso e preferito a due punte più tradizionali come Otero, che pagava gli screzi con l’allenatore, e Di Napoli, autore nelle prime 5 giornate di campionato di 5 reti degne del trofeo Puskas.
Una mossa che viene interpreta come difensiva, perché al posto di un attaccante d’area viene schierato un giocatore che parte qualche metro più indietro (tra l’altro è lo stesso Zauli a definirsi «un centrocampista con qualche dote offensiva») e che in fase di non possesso si abbassa sulla linea dei centrocampisti, formando così un 4-5-1.
In quella partita è Viviani a giocare da mezzapunta, ma il concetto è invariato: in fase difensiva si posiziona a fianco di Ambrosini e Di Carlo.
In realtà l’intento del tecnico nativo di Castelfranco Veneto è quello di migliorare la qualità di una fase offensiva altrimenti frenetica, grazie all’inserimento di un fantasista capace di raccordare l’azione creando superiorità numerica alle spalle del centrocampo e lavorando in funzione della rifinitura per Luiso, giocando anche a 1-2 tocchi.
Qui Luiso arretra la sua posizione, riceve il passaggio di Di Carlo e verticalizza per Ambrosetti, che si butta nello spazio alle spalle della difesa del Chelsea.
In linea con il calcio di quel periodo, quel Vicenza non ha però una fase offensiva particolarmente codificata: l’accentramento di Zauli è un accorgimento mirato per favorire la risalita della palla in una squadra che altrimenti non presenta particolari giochi offensivi a livello macroscopico. Una formazione che bypassa il centrocampo (a meno che non sia Di Carlo ad arretrare e giocare lungo), preferendo i lanci dalla difesa e appoggiarsi sulla fisicità di Luiso e lo stesso Zauli, o un cambio di lato per le ali, rigorosamente aperte al momento dell’uscita del pallone, che eventualmente chiamano la sovrapposizione dei terzini. I biancorossi, almeno in fase di possesso, non riescono ad imprimere il proprio controllo alla gara, ne assecondano semmai l’inerzia, alternando folate impetuose a frazioni sotto ritmo, quasi in balia dell’avversario. «Purtroppo è una costante», si lamenterà Guidolin dopo l’eliminazione in Coppa delle Coppe «non riusciamo a tenere il risultato. Partiamo bene e poi ci disuniamo. Non gestiamo il vantaggio e non sono ancora riuscito a capire il perché».
Le pedine in grado di alzare il volume dell’intensità sono le ali, a cui viene chiesto sostanzialmente di dare ampiezza e giocarsi l’uno contro uno. Se Schenardi rappresenta il prototipo del numero 7 vecchio stile, con i piedi costantemente sulla linea laterale, in Ambrosetti, uno dei talenti più puri di quel gruppo, si possono scorgere le prime tracce dell’evoluzione del ruolo. L’esterno mancino predilige sì le tracce esterne, ma il suo bagaglio di soluzioni, oltre al cross, prevede pure il taglio sul secondo palo senza palla e l’accentramento negli ultimi 25 metri per scoccare il tiro dalla medio lunga distanza. Il gioco di Ambrosetti, che in quell’anno arriverà a 7 gol, non contempla tuttavia una dimensione collettiva, al contrario, fidandosi molto dei suoi mezzi, tende a privilegiare il dribbling al dialogo, almeno finché non arriva sul fondo.
Nella semifinale di andata col Chelsea, Ambrosetti, dopo aver superato Petrescu, ignora il movimento di Zauli a causa di un’attrazione magnetica nei confronti del fondo del campo.
(Ab)uso della duttilità
Tra la 9a e la 22a giornata il Vicenza vince una sola volta in 14 partite. Il crollo, arrivato, dopo un avvio positivo può essere imputato solo marginalmente al peso del doppio impegno campionato-coppa, considerato che la moria di risultati si verifica nel periodo invernale, in cui la Coppa delle Coppe era andata in letargo, per non parlare della profondità e dell’omogeneità della rosa, che garantisce rotazioni in tutti i reparti. Oltre all’omogeneità, un’altra caratteristica di quella formazione era la duttilità di diversi elementi, in linea con il trend di quel calcio.
Se oggi si va verso una specializzazione dei ruoli e una trasversalità dei compiti (primo tra tutti, la gestione della palla), l’idea che mi sono fatto guardando alcune gare di quel periodo è che a giocatori con delle caratteristiche molto marcate (e quindi compiti più limitati) venisse richiesto di interpretare più ruoli e posizioni. Coprire quanto più campo possibile diventava una priorità e una necessità, che in un calcio meno scientifico e collettivo di quello attuale non comportava scadimenti di prestazione, al contrario permetteva ad elementi ordinari di essere rivalutati positivamente per la loro adattabilità.
Guidolin, in particolare, utilizzava i giocatori come strumenti. Li spendeva in determinate zone a seconda della partita da interpretare così da trovare l’equilibrio assoluto tra giocatori posizionali e di movimento. Un esempio? L’accoppiamento di un’ala molto offensiva come Ambrosetti con Stovini, un centrale difensivo spostato terzino sinistro che rimane in posizione proprio per coprire il compagno.
Guidolin ha sfruttato al massimo la versatilità di alcuni dei suoi giocatori: spremerà la visione di gioco e la pulizia tecnica di Viviani, in teoria centrale di centrocampo, in quasi tutti i ruoli (disputa la trasferta con lo Shaktar da mezza punta, contro il Roda fa il difensore centrale, per poi giocare la doppia semifinale col Chelsea da terzino sinistro); il fondo e l’ambidestria di Mendez su entrambe le fasce, sia da esterno basso sia da esterno alto; Belotti da difensore centrale viene riciclato terzino destro; Zauli, come detto, dopo le prime uscite da esterno è stato spostato dietro la punta, mentre Beghetto ha agito in più ruoli lungo la fascia sinistra.
Vale la pena sottolineare l’autosufficienza e la cerebralità di Viviani, in grado di offrire performance di buonissimo livello indifferentemente dalla posizione. Contro gli inglesi è stato arretrato sulla linea dei difensori per garantire al Vicenza un’uscita del pallone più sicura, per poter disporre di un giocatore più preparato fisicamente e tatticamente dell’ancora acerbo Coco e per non dover rinunciare a uno tra Viviani e Ambrosini, a quel tempo più sfrontato con la palla.
Intermezzo: l’ultima volta in cui Di Carlo ha esternato la sua gioia è stata quando, travestito da Gatton Gattoni, la mascotte del Vicenza, ha festeggiato la salvezza con i tifosi.
Il dinamismo del futuro centrocampista del Milan, malgrado l’eccesso di foga e la tendenza ad affondare il tackle, si è rivelato un fattore incidente in una fase difensiva che obbliga i due mediani a coprire molto campo. Guidolin nella fase di non possesso seguirà Sacchi nella pressione sull’inizio azione avversario (che alterna comunque a fasi di difesa posizionale), ma non nel ricorso al fuorigioco sistematico, a cui preferisce una linea difensiva più bassa basata sulla zona mista, con i centrali pronti eventualmente ad uscite aggressive in avanti o in fascia.
È l’esterno alto il "trigger" della pressione, il quale si orienta sul terzino di riferimento non appena quest’ultimo riceve palla, chiamando la salita della squadra. Se è Ambrosetti ad aggredire il difensore in possesso, il terzino alle sue spalle accorcia sull’esterno alto, idem l’ala sul lato debole, che non entra dentro il campo, bensì rimane aperta per seguire l’omologo.
In questo sistema il centrale di centrocampo può essere sollecitato in tutte le direzioni: sul lancio in profondità si schiaccia per schermare la difesa (Di Carlo era un maestro degli intercetti), sull’ipotetico appoggio del terzino per il mediano esce sull’uomo, nel caso invece l’esterno venga superato si deve allargare per sopperire all’eventuale 1 vs 2 sulla fascia. Una situazione quest’ultima che si verifica anche quando le ali non riescono a tornare in posizione dopo un’azione offensiva, motivo per cui il Vicenza è costretto quasi fisiologicamente a concedere l’ampiezza. Anche perché sull’inferiorità numerica il terzino non esce, ma preferisce schiacciarsi verso il centro dell’area.
L’aggressività del Vicenza in fase difensiva: Ambrosetti viene superato, ma i veneti nel frattempo erano scattati in avanti, operando una densità importante sul lato forte e recuperando palla con Ambrosini, il quale intercetta il lancio sciagurato di Zubov. Da notare la posizione di Schenardi, che rimane largo per tenere il difensore.
Il valore di Guidolin
Fa un certo effetto raccontare a posteriori che quella semifinale contro il Chelsea rappresenterà per la stragrande maggioranza dei protagonisti l’apice della propria carriera. I vari Zauli, Di Carlo, Luiso e Viviani non usciranno mai dal limbo della provincia. Solo Ambrosetti, dopo essere stato accostato a Milan e Barcellona, nell’estate del 1998 avrà l’occasione: si trasferisce proprio al Chelsea per 3,5 milioni di sterline con le stimmate del nuovo Giggs, salvo poi tornarsene in Italia dopo un biennio ai margini della rosa. Troveranno continuità nei club di prima fascia solo Coco e Ambrosini, che al termine di quell’anno torneranno al Milan. Il primo, dopo essersi consacrato nel 2000/01, passerà al Barcellona e successivamente all’Inter, ma la sua carriera è costellata da una serie interminabile di infortuni, che lo porteranno a ritirarsi ad appena 31 anni. Pure Ambrosini dovrà convivere con diversi problemi fisici, ma in rossonero riuscirà comunque a ritagliarsi un ruolo rilevante, risultando decisivo nella conquista della Champions League 2006/07.
Non approderà mai in una big neanche il tecnico di quella squadra, Francesco Guidolin. Ciclicamente, diciamo ogni volta che ha disputato una grande stagione con una medio-piccola (Bologna, Palermo, Parma e Udinese), si è aperto il dibattito su quanto sia stato sottovaluto e su cosa gli sia mancato per allenare una grande. Nel corso del 2009/10, in cui ha condotto il Parma al proprio record di punti nella storia della A a 20 squadre, 52 (record battuto nel 2014 da Donadoni), ha provato lui stesso, dopo che in passato aveva glissato sull’argomento, a dare una risposta. «Mi chiamò la Lazio, prima di Eriksson. Cragnotti venne a cena a casa mia, a Castelfranco. Mi voleva la Juve: due giorni prima che venisse ingaggiato Capello, un dirigente mi disse che la squadra l’avrei allenata io. Sottovalutato no, il mio problema è un altro: non curo i rapporti, le relazioni esterne. Non ho una rete di amici mediatici, dribblo palcoscenici e riflettori. Mi piace il basso profilo. Quando sono disoccupato, non faccio l’opinionista in tv (anche se in questi ultimi 3 anni è diventato opinionista per Fox Sports prima e Dazn poi, ndr) ciclismo a parte. È il mio modo di essere, non lo cambio. Amo il cinema: non è scritto che i migliori registi vincano l'Oscar».
La sua verità, a metà tra il disilluso e l’amareggiato, rappresenta una sfaccettatura di un personaggio profondamente religioso, che quando non porta a casa il risultato riconduce gli errori alle sue scelte o a un fato avverso, inteso come volontà divina sfavorevole. Sulla falsa riga dei dettami calvinisti, le uniche chiavi che conosce per conquistarne la benevolenza sono l’umiltà e il lavoro. Altra componente del suo carattere è una sensazione di perenne insoddisfazione, così marcata da renderlo una caricatura insofferente pure ai successi («a fine partita» ha scritto di lui Luigi Garlando sulla Gazzetta «anche se vince, Guidolin mostra un sorriso tremulo, un leggero malessere, come se avesse sempre 37,5 di febbre e un’eterna spossatezza nelle ossa»). Guidolin ha sempre patito un ambiente fatto di etichette, pressioni e sensazionalismi, che ha sempre patito. «Vorrei vivere nascosto» ha ammesso nel 2011, anno in cui vince la Panchina d’oro. «Mi piacerebbe fare l’allenatore dal martedì al sabato e alla partita, soprattutto dopo la partita, mandare qualcun altro. Anche quando le cose vanno bene».
La narrazione sul personaggio ne ha oscurato le qualità, nello specifico quelle idee che l’hanno reso un profilo moderno, in certi casi addirittura un’avanguardia. Osvaldo Bagnoli è stato il suo maestro (“come lui sono riservato, non abuso delle parole. È stato mio allenatore a Verona e ho imparato tanto”), Sacchi la folgorazione e il primo modello da seguire («ero innamorato del suo Milan. Sacchi è stato il primo a dimostrare con i fatti che anche una squadra italiana, se vuole, può giocare nella metà campo avversaria»), che però non emulererà in maniera integrale e acritica, al contrario cercherà di esaltare i contenuti delle sue squadre interpretando le dinamiche e le contingenze del momento.
All’Udinese, che allenerà per la prima volta nel 1998/99, prova ad andare oltre il 4-4-2 che aveva saturato gli anni ’90 per inserire un trequartista che si muove tra la linea di centrocampo e quella d’attacco. «Sono approdato in serie A col Vicenza attuando il 4-4-2. A Udine sono passato al 3-4-1-2», commenterà nel 2000, quando nel frattempo si era trasferito al Bologna. «Perché avevo altre idee e per dare spazio alla genialità di Locatelli. Mi ritengo un precursore: allora poche squadre giocavano con questo modulo. Ora sono in maggioranza: almeno 12 su 18. Ritengo il numero 10 una delle essenze del calcio per il quale vale la pena di pagare il biglietto».
Oltre al valore estetico, l’uomo tra le linee per l’allenatore di Castelfranco rappresenta una pedina capace di legare i reparti e aumentare la pericolosità offensiva, al punto che sia a Bologna sia a Palermo schiera due rifinitori alle spalle della punta centrale. «Mi piace il modulo con un unico terminale: lo praticavo già ai tempi del mio primo Vicenza in serie B, l’ho riproposto anche in A, poi l’ho sviluppato meglio a Udine e a Bologna. È la soluzione del futuro: in questo modo si danno sempre meno punti di riferimento agli avversari e quindi c’è più imprevedibilità. Ormai bisogna fare affidamento su giocatori che sappiano inserirsi. Elementi come Nedved, Fiore, Kakà sono fondamentali e sempre più importanti perché sanno abbinare qualità fisiche e tecniche, senza trascurare il fattore sorpresa. Al calciatore moderno è richiesta maggiore partecipazione nella fase di non possesso palla, in più chi si inserisce da dietro all’improvviso è meno controllabile».
Quest’intervista rilasciata nel 2003 è quasi profetica: Guidolin perpepisce, quasi anticipa il trend di questo sport, sempre più indirizzato verso una dimensione corale, in cui tutti quanti sono chiamati a interpretare entrambe le fasi, con compiti sempre più ampi. La proposizione con una certa continuità nel corso della sua carriera della difesa a 3 (nel biennio 2008-2010 al Parma l’ha riportata in auge in un periodo in cui solo integralisti come Gasperini e Mazzarri la utilizzavano) va proprio in quella direzione, ovvero coinvolgere anche i difensori nella fase offensiva e ricorrere a un uomo in più nel primo terzo di campo per garantirsi una costruzione bassa più sicura.
Concetti che però, come ai tempi del Vicenza, vengono fraintesi e che lo rendono agli occhi degli addetti ai lavori un tecnico difensivista. «Francesco ha tantissime qualità, però attacca con pochi e difende con molti. Il popolo italiano è difensivista» la stoccata di Sacchi nel 2012. Ciò che però gli verrà sempre riconosciuta è la sua forma mentis priva di dogmi. «Non seguo le mode, ma sono aperto alle novità. cerco equilibrio e sostanza». Quando un anno fa, in occasione dell’anniversario della conquista della Coppa Italia 1997 con il Vicenza, gli è stato chiesto se tornerebbe un giorno ad allenare i biancorossi, risponderà in modo perentorio: «Mai e poi mai rischierei di rovinare la cosa straordinaria che siamo stati in grado di fare».