“La democrazia non è uno stato, la democrazia è un atto”. Sono le prime parole che pronuncia Kamala Harris da vice presidente eletta degli Stati Uniti d’America, in completo bianco, sotto un carosello di clacson festanti. Quelle parole sono tratte dal saggio pubblicato postumo sul New York Times dal Senatore John Lewis, scomparso a causa di un cancro al pancreas lo scorso 17 luglio. Lewis è stato il simbolo della lotta per i diritti civili, l’ultimo testimone vivente ad aver marciato insieme a Martin Luther King a Selma, nonché il rappresentante dello Stato della Georgia presso il Congresso dal 1987.
È davvero difficile immaginare la storia delle conquiste degli afroamericani e delle minoranze senza John Lewis, che fino a pochi giorni dalla sua scomparsa si è speso affinché l’America diventasse un paese un po’ più giusto. Le ultime immagini ufficiali che abbiamo di lui lo ritraggono passeggiare sulla 16th Street di Washington DC, la strada che attraversa dritta la Capitale fino ad arrivare alla Casa Bianca, coperta da una scritta Black Lives Matter a caratteri cubitali. È stato l’eroe personale di Barack Obama, tanto che quest’ultimo al pranzo ufficiale dopo aver giurato per la prima volta da Presidente nel gennaio 2009, quando Lewis gli si avvicinò con una foto da farsi autografare, firmò scrivendo “Because of you, John”.
Obama però in entrambe le sue corse presidenziali non riuscì mai a vincere in Georgia, sconfitto prima da John McCain e successivamente da Mitt Romney. D’altronde per un democratico vincere nello stato della pesca è sempre stato molto difficile: l’ultimo a riuscirci fu Bill Clinton nel 1992 che, grazie soprattutto all’aiuto di Ross Perot - un candidato indipendente che tolse più di 300.000 voti a George Bush Sr. - riuscì a spuntarla di 13mila preferenze. Prima di lui soltanto Jimmy Carter, che giocava in casa in quanto prima di diventare Presidente era stato Governatore delle Georgia, e John Kennedy nel 1960.
Se Biden riuscisse a mantenere il sottile vantaggio accumulato fino a questo momento su Donald Trump, al netto di possibili riconteggi, diventerebbe il quarto candidato democratico a vincere negli ultimi sessant’anni. E la sua mappa elettorale è molto diversa rispetto a quella grazie alla quale vinse Clinton. L’ex Governatore dell’Arkansas riuscì a convincere soprattutto i residenti nelle aree rurale e nelle piccole città nel sud dello stato; 28 anni dopo, invece, Biden potrebbe aver trovato i voti decisivi nella gigantesca area metropolitana di Atlanta, la nona più popolosa degli Stati Uniti con i suoi 6 milioni di abitanti.
Una elaborazione che mostra bene come sia cambiato il voto in Georgia negli ultimi trent'anni. Potete trovare maggiori informazioni a questo pezzo del Washington Post dal quale è tratta la tabella.
La Georgia è forse lo stato americano che negli ultimi anni ha subito i maggiori cambiamenti sociali e demografici, grazie a una crescita impetuosa trascinata dalle tante realtà locali che si sono man mano sempre più ingrandite fino a ottenere una dimensione nazionale. Ora Atlanta è un gigantesco studio di registrazione dal quale escono le canzoni più ascoltate in America, il set cinematografico per i prodotti d’intrattenimento più celebrati e l'aeroporto più trafficato al mondo, più di Pechino e Los Angeles. Ma non è stato sempre così.
Nonostante abbia ospitato una delle comunità afroamericane più fiorenti del Sud sin dall’inizio del secolo scorso, è dalla metà degli anni ‘90, con le Olimpiadi estive e gli OutKast, che Atlanta si è imposta come un polo culturale ed economico in grado di rivaleggiare con le due coste. E in una schizofrenia che tiene insieme la Coca Cola e Martin Luther King, il Ku Klux Klan e i Migos, ha espresso il voto che ha fondamentalmente indirizzato le ultime elezioni per la Casa Bianca.
True to Atlanta
Il rapporto tra le franchigie sportive e il territorio sul quale sorgono è sempre controverso, visto che queste possono decidere di levar le tende da una città di fronte a un’offerta più profittevole. Lo sport professionistico è in questo totalmente diverso da quello collegiale, ancorato alle centenarie università che rappresenta. Crea entusiasmo e passione, certo, ma conserva sempre quel senso di caducità, come se possa scomparire da un momento all’altro.
Per rimediare a tale retrogusto le franchigie NBA da anni si prodigano in iniziative per creare un rapporto sempre più saldo con i tifosi e la città che gli ospita. Gli Hawks sono una di quelle squadre che ne ha fatto una priorità e da qualche anno usano un motto che si è trasformato presto in un mantra, ovvero True to Atlanta. Una devozione verso una città molto complessa ma con un fortissimo senso di appartenenza e uno spirito battagliero, che è emerso ancor di più negli ultimi tempi. Specialmente da quando nell’estate di due anni fa Lloyd Pierce è diventato il capo allenatore degli Hawks, uno dei cinque afroamericani attualmente in NBA.
Appena arrivato in città, Pierce ha sentito immediatamente la responsabilità di diventare un leader, non solamente della propria squadra, ma dell’intera comunità di Atlanta. Nella sua testimonianza pubblicata su The Player’s Tribune ricorda il momento esatto nel quale ha percepito questo suo ruolo: è stato il 10 settembre 2018, quando ha incontrato John Lewis. “È attraverso i giganti delle lotte per i diritti civili” scrive Pierce, “che ho capito che essere un leader fuori dal campo richiede un impegno verso gli altri e un impegno nell’affrontare le imprevedibili problematiche che affliggono la nostra comunità oltre al basket”. E per questo ha voluto che i suoi giocatori - molti dei quali giovanissimi - toccassero con mano la realtà della città della quale indossano la maglia.
Un dialogo tra Lloyd Pierce e Killer Mike, la nuova generazione di leader di Atlanta.
Quindi il 19 gennaio, il giorno successivo a quello nel quale in America si festeggia il Martin Luther Jr. Day, Lloyd Pierce ha costretto tutti i suoi giovani ragazzi a imbarcarsi in un tour guidato che aveva inizio davanti al murales degli OutKast a Little Five Points e termine al Martin Luther King Jr. National Historical Park, lo stesso davanti al quale si sarebbe trovato Jaylen Brown dopo aver guidato per 15 ore consecutive.
Lui e Malcom Brogdon hanno guidato una manifestazione pacifica per le strade della loro città natale in una delle tantissime iniziative spontanee nate sotto l’egida del Black Lives Matter. I due, megafoni alla mano, hanno scandito le rivendicazioni che echeggiavano da un angolo all’altro d’America. Entrambi vicepresidenti dell’Associazione Giocatori - il primo un brillante studente prestato al basket, il secondo il nipote di uno dei coraggiosi che marciarono tra Selma e Montgomery nel 1965 - rappresentano bene lo standard al quale la NBA vuole aspirare dopo l’assassinio di George Floyd: leader dentro e fuori dal campo.
Così quando il 23 agosto la polizia locale di Kenosha, Wisconsin, ha sparato sette volte alle spalle ferendo quasi fatalmente Jacob Blake, un uomo afroamericano di 29 anni, davanti ai suoi tre figli, i Milwaukee Bucks, che avrebbero dovuto giocare la decisiva gara-5 contro Orlando, si sono rifiutati di scendere in campo forzando l’intera lega a uno sciopero di riflessione.
Non bastavano più le scritte sul parquet o quelle dietro le magliette, bisognava fare di più affinché il pubblico fosse sensibilizzato non soltanto verso le istanze portate avanti dai singoli giocatori, ma partecipasse attivamente alla vita politica del paese. Per questo una delle richieste che l’associazione giocatori NBA pose come condizione non demandabile per ricominciare a giocare fu un intervento congiunto di atleti, allenatori, proprietari e governatori atto a incentivare l’impegno civico e l’accesso al voto. In particolare, in ogni città con un’arena NBA i proprietari avrebbero dovuto mettere la struttura a disposizione durante le elezioni per permettere delle votazioni in sicurezza durante la pandemia. Le franchigie hanno risposto affermativamente alle richieste dei giocatori e 23 arene su 29 sono state effettivamente riconvertite a gigantesche cabine elettorali. La prima a entrare in funzione è stata la State Farm Arena di Atlanta grazie all’iniziativa del CEO Steve Koonin, il proprietario di maggioranza Tony Ressler e Lloyd Pierce.
Prendendo spunto dalle parole del commissioner Adam Silver, che ha descritto più volte le arene NBA come Town Halls e luoghi di confronto, gli Hawks hanno aperto le porte della propria casa per 19 giorni, offrendo la possibilità dell’early voting sia per le elezioni generali sia per il ballottaggio al Congresso in quello che è presto diventato il sito elettorale più grande della Georgia. 800.000 metri quadrati per la prima volta destinati non all’intrattenimento ma a una funzione civile, con le relative spese di gestione che sono state interamente pagate dalla proprietà degli Hawks, compreso il compenso per gli oltre 300 lavoratori dipendenti e i volontari. E Pierce ha richiesto ai propri giocatori un impegno in prima persona, di andare a sporcarsi le mani.
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Trae Young ha portato il pranzo per i lavoratori alle urne in uno dei giorni di lavoro più pesanti.
Normalmente in questo periodo dell’anno sul parquet della State Farm Arena si sarebbe tenuta una qualche partita di preseason degli Hawks, e non una votazione all’ultima scheda. In campo ci sarebbero stati i giocatori, non 300 macchine elettroniche. E gli abitanti della Contea di Fulton si sarebbero messi in fila per vedere le triple ad arcobaleno di Trae Young o le potenti schiacciate di John Collins, non per esercitare il proprio diritto al voto.
Il sud ha qualcosa da dire
Un diritto che non è così banale come può inizialmente sembrare agli occhi di noi europei. Se negli ultimi mesi siete stati bombardati su tutti i social da celebrità, influencer o brand che vi invitavano a votare strillando un imperativo categorico al quale ovviamente non potevate ottemperare, e vi siete sempre chiesti perché non venga specificato per chi bisogna votare, c’è una risposta. Il sistema americano è molto diverso dal nostro, o da quello di un altro paese europeo nel quale quando si arriva all’età legale si è automaticamente registrati. Negli USA sono i cittadini che devono andare presso il singolo stato per segnare il proprio nome sulle liste, un meccanismo che ha prestato il fianco a distorsioni asimmetriche, specialmente negli stati del sud, tra gli afroamericani e le altre minoranze.
Infatti, nonostante nel 1965 - dopo il Bloody Sunday di Selma - Lyndon Johnson firmò il Voting Right Acts che di fatto abrogò le leggi Jim Crow, le difficoltà per le persone di colore non erano certo finite. Anzi: nel 2013, in seguito alla sentenza della Corte Suprema Shelby County vs Holder, che consegnava nuovamente al governo federale il potere di regolamentare la registrazione, è tornata quella pericolosa discriminazione tra stato e stato. Così negli ultimi anni abbiamo assistito a una progressiva riduzione dei seggi elettorali, quasi esclusivamente in zone abitate da afroamericani, e a una conseguente diminuzione del numero dei votanti. Si stima che in previsione delle elezioni presidenziali del 2016 soltanto negli stati del sud siano scomparsi quasi 900 seggi elettorali, rendendo impossibile a migliaia di persone di esprimere il proprio voto.
Alla luce di questi numeri si spiega così l’urgenza della NBA e dei propri atleti di contrastare la cosiddetta voters suppressions e come quel “Vote” che tanto avete sentito negli ultimi mesi in realtà sia molto più politicizzato di quanto possa sembrare a un primo ascolto. La stragrande maggioranza di nuove e più stringenti regolamentazioni sul meccanismo di voto dopo il 2013 è di stampo repubblicano. E non è un caso se, come studiato dal “Brennan Center for Justice”, gli stati che si sono dimostrati più disposti a complicare le misure di accesso ai seggi sono gli stessi che hanno avuto la maggior affluenza tra gli afroamericani nelle elezioni del 2008. Quando leggiamo i numeri della diversa affluenza tra questa e la scorsa elezione dobbiamo sottolineare l’incredibile lavoro a livello locale delle associazioni e degli attivisti che hanno contrastato in ogni modo possibile la repressione delle minoranze.
In Georgia questa figura ha il sorriso e la perseveranza di Stacey Abrams. Dopo aver sfiorato la vittoria nella corsa a Governatore contro Brian Kemp nel 2018 - elezioni fortemente condizionate dalla repressione sul voto delle minoranze che lo stesso Kemp aveva impostato quando era Segretario di Stato - con la sua organizzazione, Fair Fight, è riuscita a registrare 800.000 nuovi elettori, il 45% dei quali sotto i 30 anni e il 49% dei quali afroamericani.
Stacey Abrams è stata ospite di Steph Curry sul suo canale Youtube “State of Inspiration” in una serie di longform video che comprendeva anche Bill Gates e Anthony Fauci per parlare di voter suppression e democrazia in America.
Abrams è riuscita in un’impresa titanica che potrebbe aver permesso ai Democratici di colorare di blu la Georgia. Secondo Circle - Center for Information & Reserch on Civic Learning and Engagement - “in Georgia e in Arizona i voti dei giovani afroamericani e latini avrebbero da soli garantito la vittoria di Biden. [...] In Georgia l’elettorato compreso tra i 18 e i 29 anni ha dato a Biden un vantaggio di 187.000 voti”. Ad oggi Biden è in vantaggio di 14.000 voti, con una partecipazione molto alta, che ha rappresentato il 21% dell’intero elettorato e ha superato di quattro punti la media nazionale. In particolare grazie ai 500.000 voti dei giovani afroamericani, che hanno espresso la propria preferenza nei confronti del candidato Democratico nove volte su dieci.
Probabilmente con un'affluenza più bassa sia tra i giovani che tra le minoranze la Georgia non sarebbe stata così competitiva, così come senza i tanti voti arrivati dalle aree urbane e suburbane. Nella Contea di Fulton - dove si trova la State Farm Arena degli Hawks - le schede sono passate da essere 415mila nel 2016 ad oltre 510mila in questa tornata elettorale, con un aumento di oltre il 25%. Quando si dà alle persone la possibilità di partecipare alla vita democratica del proprio paese, garantendo un luogo adeguato a esercitare il proprio diritto e motivandole che ogni voto conti davvero, queste lo fanno con una passione e un entusiasmo travolgente.
Good Trouble
Ovviamente non possiamo sapere quanto le iniziative che la NBA ha avviato in questi mesi abbiano modificato il risultato, considerando quanto il sistema elettorale statunitense alla fine faccia in modo che si decida tutto per pochi voti nei famosi swing states, come anche immaginare che l’endorsement del singolo atleta possa davvero avere un effetto sulle scelte di una sensibile fetta di popolazione.
Anche imparando dalle precedenti esperienze, i giocatori hanno preferito fare un passo indietro e concedere la propria piattaforma a figure più adatte a parlare di determinati argomenti, ma che non potevano raggiungere lo stesso pubblico di professionisti NBA. E soprattutto la sinergia tra atleti, proprietà e realtà sul territorio ha contribuito a piantare le radici di un movimento che dovrebbe andare oltre la singola elezione e coltivare una nuova generazione più attenta e responsabilizzata.
In questa direzione sono rivolte le iniziative della fondazione creata da LeBron James - More Than a Vote -, con la quale collabora una numerosa schiera di atleti, artisti e politici afroamericani, e che diventerà la vera legacy del numero 23 insieme alla I Promise School quando deciderà di appendere le Nike al chiodo.
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Il giorno prima di ufficializzare la sua nuova fondazione, LeBron aveva usato parole molto dure per commentare le immagini delle interminabili code davanti ai seggi della Georgia.
James è stato esplicito nel suo giudizio sull’amministrazione Trump, chiusa con un fotomontaggio della iconica stoppata su Iguodala nelle Finals del 2016, ed ha sempre preso di petto le critiche che il Presidente gli ha mosso durante i suoi quattro anni. Anche pochi giorni prima delle elezioni Trump ha sentito il bisogno di precisare come non avesse visto neanche un tiro delle Finals e che un po’ gli dispiaceva per James, che aveva appena vinto un titolo mentre nessuno lo guardava. Il giorno prima delle elezioni, a un suo comizio, si è alzato il coro “LeBron James sucks”.
L’amministrazione Trump ha spesso usato attacchi strumentali contro atleti di spicco, specialmente afroamericani, per infuocare la propria base e alimentare lo scontro ideologico. Una tattica infantile, che ha permesso al mondo dello sport di coalizzarsi contro un nemico comune senza però abbassarsi al suo livello. Invece, accettando di buon grado il potere su di essi riposto, ha trovato modi positivi di fare la differenza nelle proprie comunità con interventi a lungo raggio.
All’inizio di gennaio in Georgia si terranno i ballottaggi per due posti al Senato, che saranno decisivi per determinare la maggioranza e di fatto la linea che potrà tenere il nuovo Governo Biden. Anche in questo caso l’affluenza sarà determinante e vedremo se gli Atlanta Hawks terranno nuovamente fede al proprio motto, trovando altri modi per garantire la sicurezza del voto in un periodo dell’anno nel quale la State Farm Arena dovrebbe essere occupata dalle prime partite della stagione regolare.
Nel suo ultimo saggio citato da Harris, John Lewis scriveva: “Il voto è il più potente agente di cambiamento non violento che abbiamo in una democrazia. Ma lo dobbiamo usare perché non è garantito che ci sia. Lo possiamo perdere”. E gli Hawks hanno risposto al suo appello, portando un numero mai visto prima di cittadini del Quinto Distretto di Atlanta al voto. Il distretto che ha eletto John Lewis per sedici volte consecutive e che Trump ha tante volte disprezzato pubblicamente, e che ora - con quella che gli americani chiamano giustizia poetica - lo ha mandato a casa.