Il 13 aprile del 2013 Pierre-Emile Hojbjerg è diventato il più giovane giocatore di sempre a indossare la maglia del Bayern Monaco. Il suo esordio sembrava essere arrivato nel momento perfetto: uno dei giovani centrocampisti più interessanti in Europa, di sicuro il miglior talento uscito dalla Danimarca da un bel po’ di tempo, iniziava la sua carriera nel club che stava per accogliere il più influente allenatore del calcio contemporaneo e che di lì a poco avrebbe vinto uno storico “Triplete”. Esistono condizioni migliori per muovere i primi passi nel mondo del calcio d’élite?
Hojbjerg nelle mani di Guardiola sembrava poter diventare qualcosa di speciale. O almeno questo è quello che voleva farci pensare Pep con la solita enfasi. A Marti Perarnau, che lo aveva seguito durante la sua esperienza in Baviera per scrivere Herr Pep, l’allenatore catalano una volta disse di aver trovato “il Sergio Busquets del Bayern”. Guardiola e Hojbjerg, come spesso succede tra l’allenatore catalano e i suoi giocatori più giovani, svilupparono un rapporto vicino a quello che idealmente lega un padre a un figlio. Una volta il centrocampista danese raccontò di quando Guardiola pianse con lui quando venne a sapere che a suo padre rimanevano pochi mesi di vita per via di un cancro allo stomaco. A quel tempo Hojbjerg sembrava anche fisicamente un bambino, con la faccia pulita, la pelle liscia e rosea, i rossi sulle guance e un sorriso malizioso che gli inarcava verso l’alto gli angoli della bocca.
Nonostante ci fossero le condizioni perfette affinché nascesse qualcosa dal loro rapporto, però, le cose tra Hojbjerg e Guardiola in campo non hanno funzionato. La prima stagione gioca solo sette partite in campionato, di cui appena tre da titolare. La seconda dura sei mesi - otto partite, di cui due da titolare. Poi il passaggio in prestito all’Augsburg per farsi le ossa. Tornato in Baviera, il Bayern non sembra però ancora convinto a puntare su di lui e quindi lo rigira di nuovo in prestito, questa volta allo Schalke 04. Quando torna a Monaco per la seconda volta, Guardiola ha lasciato il club per andare in Premier League. «Ho imparato tanto da lui, è stato un grande insegnante», ha dichiarato successivamente Hojbjerg di Guardiola «Ma mi è capitato troppo presto nella mia vita e nella mia carriera». C’erano tutte le condizioni perché diventasse davvero il Sergio Busquets del Bayern, ma uno la propria storia non se la sceglie.
E così Hojbjerg è diventato qualcosa che nessuno si sarebbe aspettato quando era sbarbato e sorridente al Bayern Monaco. Negli anni al Southampton ha ricoperto di muscoli il suo fisico sempre più robusto, la sua pelle si è ricoperta di tatuaggi (tra cui uno che recita “il ferro affila il ferro”), il suo viso, incorniciato da una barba rossiccia, ha assunto uno sguardo torvo da pirata, mentre il suo gioco si allontanava anno dopo anno dall’idea che tutti abbiamo di Sergio Busquets. A inizio agosto, quando Hojbjerg è passato al Tottenham, in un pezzo in cui si cercava di fare chiarezza su ciò che il danese avrebbe potuto dare alla squadra di Mourinho, The Athletic ha titolato in maniera netta: “il più alto numero di recuperi palla del campionato”. La sua reputazione, dopo tre stagioni in Inghilterra, è diventata quella del giocatore duro e soprattutto carismatico - del leader nato. La prima cosa che veniva notata su Hojbjerg non era più il suo senso dello spazio o la pulizia tecnica del suo gioco di passaggi corti ma il fatto che a soli 23 anni fosse diventato il capitano del Southampton. «Se non avessi saputo quanti anni aveva, non avrei mai detto che ne avesse 23», ha dichiarato il portiere Angus Gunn, che ha giocato con lui al St Mary’s Stadium. Sembra essere soprattutto questa la qualità che ha convinto Mourinho a puntare su di lui in estate, per cercare di trasformare il Tottenham in quel “mucchio di bastardi che vincono le partite” che chiedeva a gran voce la scorsa stagione in All or Nothing.
La storia di Hojbjerg, che oggi a sorpresa è titolare inamovibile di un Tottenham che ambisce più o meno esplicitamente al titolo, è significativa da tanti punti di vista. Nel grande romanzo della rivalità tra Guardiola e Mourinho, per esempio, è diventato un personaggio inaspettatamente rilevante che il sito specializzato TV Tropes penso definirebbe “Fallen Hero” - quello che sarebbe dovuto essere un’eroe idealista che per via di un avvenimento traumatico o per un lento abbandono al cinismo passa dalla parte opposta. Hojbjerg che, abbandonato da Guardiola, diventa come il gobbo Efialte che, in 300, passa dalla parte dei Persiani dopo essere stato rifiutato dall'esercito spartano per le sue malformazioni fisiche. Per il Tottenham, invece, il centrocampista danese rappresenta la metafora perfetta della rinascita di questa stagione: un giocatore che, dopo le aspettative deluse della giovinezza, torna inaspettatamente ad alti livelli, trasfigurato. Ad immagine e somiglianza, cioè, del cattivo per eccellenza del calcio contemporaneo, quel José Mourinho che lo ha definito “un capitano che non ha bisogno della fascia al braccio”.
L’importanza di Hojbjerg va però molto oltre le metafore e le narrazioni che possiamo cucirgli attorno. Perché se Mourinho lo ha messo fin da subito al centro della sua squadra, non solo letteralmente, è per ciò che il centrocampista danese gli restituisce in campo. L’allenatore portoghese ha riconfigurato il Tottenham rendendola una squadra estremamente reattiva, dal baricentro molto basso, che attacca in maniera verticale e in transizione appoggiandosi soprattutto alle qualità nel far risalire il pallone in velocità di Kane e Son.
Per fare questo, però, aveva bisogno in primo luogo dell’ingrediente segreto delle sue squadre migliori, e cioè una solidità difensiva senza crepe, che nel suo momento d’oro proveniva soprattutto da un dominio mentale e fisico dell’avversario, e che adesso è rimasto in primo luogo come dogma tattico. E quindi Mourinho si è liberato di Vertonghen (ceduto al Benfica), ha messo ai margini della rosa Davinson Sanchez dopo la rocambolesca rimonta subita dal West Ham a metà ottobre (da 3-0 a 3-3 nei 12 minuti finali di partita) sostituendolo con Dier, e ha impostato una mediana di grande quantità composta dal redivivo Sissoko e per l’appunto da Hojbjerg.
Oltre alle caratteristiche tecniche e fisiche dei giocatori, però, Mourinho ha dovuto pensare anche tatticamente a come sigillare la sua linea difensiva. Il Tottenham difende con un 4-4-2 molto stretto, sia orizzontalmente che verticalmente, che cerca di difendere il centro del campo già a partire dalla coppia formata da attaccante e trequartista (di solito Kane e Ndombele), che insieme alla coppia di mediani formano un quadrato mobile rispetto al pallone che ha la funzione di escludere il regista o la coppia di centrocampisti avversari. Un blocco granitico che lavora insieme alla difesa, che cerca di comprimere lo spazio alle spalle del centrocampo tenendo la linea del fuorigioco, e agli esterni (sia alti che bassi) che si staccano in pressione solo quando la palla va verso il fallo laterale.
Come abbiamo detto il Tottenham difende molto basso, soprattutto contro le squadre della parte alta della classifica, e questo significa che spesso difende in area, dove Dier e Alderweireld sono sempre molto attenti sia sulle palle alte che in marcatura. Non è solo merito della loro bravura, però, perché Mourinho è riuscito a trovare un modo per tenerli sempre molto vicini e al centro della difesa nonostante la compattezza orizzontale del Tottenham teoricamente suggerirebbe il contrario. Ed è qui che entra in gioco Hojbjerg.
Quest’anno infatti l’allenatore portoghese, proprio per tenere i due centrali vicini e per nascondere i limiti di due difensori non particolarmente elastici né veloci nella copertura della profondità, chiede ai suoi due mediani di seguire a uomo i tagli in profondità dei centrocampisti avversari, quando attaccano senza palla lo spazio alle spalle della difesa degli “Spurs”. In particolare lo spazio che si viene a creare tra centrale e terzino, quando quest’ultimo è costretto a sganciarsi sull’esterno. In questo modo, non è raro vedere Sissoko e Hojbjerg agire temporaneamente da centrali di fatto di una difesa a tre, in una sorta di salida lavolpiana difensiva che permette a Dier e Alderweireld di rimanere stretti centralmente a presidiare l’area.
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Non è un sistema perfetto, inevitabilmente, perché riempire uno spazio a fianco dei due difensori centrali significa per forza di cose crearne un altro di fronte (o a fianco dell’altro mediano, se volete) dove può ricevere un trequartista o una punta che viene incontro sulla trequarti. Lo si è visto soprattutto contro il Manchester City di Guardiola, nonostante la vittoria per 2-0.
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Eppure è un sistema che, alla luce delle caratteristiche dei giocatori a disposizione di Mourinho, sta funzionando. In questo senso, l’importanza di Sissoko e Hojbjerg sta soprattutto nella concentrazione inscalfibile con cui eseguono questo compito estenuante sia da un punto di vista mentale che fisico - dato che spesso comporta seguire in scatto un uomo che con ogni probabilità non riceverà la palla, subito prima di tornare in linea a centrocampo a difendere la zona - e nella grande sapienza di entrambi nel saper recuperare il pallone. È anche grazie a loro se nelle ultime sette partite in campionato il Tottenham ha subito appena due gol - uno nelle ultime quattro, dove la squadra di Mourinho ha affrontato in sequenza Manchester City, Chelsea e Arsenal, prima del Crystal Palace ieri.
Certo, c’è da dire che gli “Spurs” a livello difensivo stanno ottenendo molto di più di quanto forse avrebbero meritato. Il Tottenham è infatti la squadra con la differenza più ampia in Premier League tra Expected Goals subiti (1.21 per 90 minuti) e non-penalty goals effettivamente presi (0.50 p90). Una differenza su cui sta incidendo in maniera profonda anche l’incredibile stato di grazia di Hugo Lloris, di gran lunga il miglior portiere del campionato inglese per quantità e qualità delle occasioni sventate (appena 6 non-penalty goals presi da 17.7 xG*, la metrica con cui si calcolano gli Expected Goals affrontati da un portiere).
Difficile dire quanto questa overperformance difensiva possa durare, insomma, quel che è certo è che Hojbjerg sembra aver dato un senso al Tottenham, donando coerenza tattica al piano di Mourinho, il cui successo da sempre si basa su quanto i suoi giocatori credono nelle sue idee. Anche lo stesso allenatore portoghese sembra crederci di più. «L’anno scorso cercavamo solo di sopravvivere, di ottenere i punti che ci servivano per arrivare tra le prime quattro o le prime sei», ha dichiarato recentemente Mourinho «Quest’anno siamo una squadra diversa, siamo migliori perché abbiamo più soluzioni».
In questo senso, l’importanza del centrocampista danese per la solidità e la coerenza del Tottenham non si vede infatti soltanto nei suoi movimenti senza palla difensivi ma anche nel suo gioco con la palla. Hojbjerg è il centrocampista che più sa come resistere al pressing avversario, che scende in difesa in salida lavolpiana a contribuire alla costruzione bassa, e che, in una squadra che vuole attaccare in transizione in campo lungo ma che non può fare affidamento troppo ai lanci lunghi senza grandi colpitori di testa in avanti, è preposto a far risalire il pallone con passaggi taglia linee affilatissimi. Un repertorio di movimenti e giocate da cui si evince l’influenza fortissima di Guardiola nella sua formazione, per esempio nel modo in cui con la postura del corpo sa aprirsi la luce per un passaggio centrale, e che per la fluidità del Tottenham in transizione è vitale. È primo tra gli “Spurs” per metri guadagnati per passaggio, 196 per 90 minuti.
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Hojbjerg, insomma, è il cardine della manovra di Mourinho quando il Tottenham accartoccia il centrocampo sulla difesa per rifugiarsi dentro l’area di rigore, e lo è allo stesso modo quando invece si distende in lunghezza sul campo per attivare le letali associazioni sulla trequarti tra Son e Kane. Non è detto, chiaramente, che il suo inserimento in questa stagione, da solo, basterà al Tottenham per vincere il campionato. Gli “Spurs” dovranno mantenere livelli di overperfomance che sembrano insostenibili nel lungo periodo - anche in attacco, dove Son, con 0.89 non-penalty goals per 90 minuti segnati da 0.43 xG, viaggia su tassi di efficienza realizzativa degni di Messi - e mantenere una concentrazione zen partita dopo partita se vogliono continuare ad essere la squadra che vince sbagliando meno dell’avversario - un aspetto che sembra essere diventato decisivo in questa Premier League post-apocalittica fatta di stadi vuoti e partite ogni tre giorni dove tutte le squadre prima o poi sembrano destinate a un momento di sbandamento.
Al di là di come andrà a finire, comunque, che sia proprio Hojbjerg la chiave di Mourinho per questa nuova, inaspettata, chance di vincere il titolo e tornare alla ribalta è un dettaglio talmente perfetto da un punto di vista narrativo che sembra uscito dalla testa di uno sceneggiatore ingaggiato per rivitalizzare una saga che sembrava ormai morta e sepolta. L'aspetto ancora più affascinante di questa storia, però, è che l'importanza del centrocampista danese in una squadra come il Tottenham sta mostrando quanto, arrivati a un certo livello, anche le opposizioni ideologiche più estreme finiscano per sfumare. Pochi giorni fa, ad esempio, Mourinho è tornato a parlare di Hojbjerg con parole che raramente utilizza per i suoi giocatori. Non si è concentrato come fa di solito sulla mentalità o sull'importanza di vincere, ma sul modo con cui il suo capitano senza fascia tratta il pallone. «Fisicamente è molto forte e tecnicamente è molto meglio di quanto si pensi» ha dichiarato «Le persone pensano che il giocatore forte tecnicamente sia quello che fa il colpo di tacco. Ma, in realtà, è la semplicità a essere geniale. E tutto ciò che Hojbjerg fa con la palla è estremamente semplice». Sono parole che, a rileggere attentamente, non sembrano nemmeno di Mourinho. Anzi, a non sapere chi l'avesse pronunciate si sarebbe potuto dire che erano uscite dalla bocca di Guardiola.