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Come mi sono innamorato di Pistol Pete Maravich
05 gen 2019
Storia di un amore che sfocia nell’ossessione.
(articolo)
16 min
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Introduzione

Pistol Pete Maravich e Andrea Pecile non si sono mai incontrati fisicamente, dal vivo, sulla strada o su un campo da basket. Viene quindi difficile per l’osservatore esterno carpire le ragioni profonde della passione, dell’amore, dell’ossessione che hanno accompagnato per l’intera carriera - dalle giovanili triestine alla nazionale italiana, passando per la Serie A e l’ACB spagnola - uno dei giocatori di basket più unici, divertenti e “larger than life” che l’Italia abbia mai avuto nella sua storia recente.

Un nome, Andrea Pecile - per tutti “Il Pec” o “Sunshine” - che forse non dice troppo ai “Millenials” entrati da poco in contatto con la palla a spicchi o catapultati direttamente nel mondo NBA, ma anche per chi con il basket italiano non ha mai voluto averci a che fare. Colpa del marketing da secolo scorso delle nostre istituzioni sportive, probabilmente, ma anche destino agrodolce di talenti matti, apripista e folgoranti come fu Pistol Pete Maravich. Lui e “Il Pec” non sono per tutti, altrimenti di un nostro giocatore diventato blogger di culto per il sito della lega ACB e uomo-simbolo di Granada durante la sua esperienza in Spagna avremmo saputo tutti, non credete?

Ma oggi Andrea Pecile ci interessa anche e soprattutto per essere con molta probabilità il massimo conoscitore italiano di Pete Maravich. Forse uno dei massimi collezionisti. Di sicuro è colui che in Italia ha omaggiato la memoria di Pistol al più alto livello, sui campi della Serie A ed europei. Gli stessi campi che hanno negato il tributo definitivo al giocatore che più ha ispirato Andrea Pecile durante tutta la sua carriera, ma questa è una storia che ci racconterà lui.

Di sicuro è l’unica persona che conosco i cui occhi diventano lucidi al solo sentir nominare tre semplici parole, nostra grande passione comune: Pistol Pete Maravich.

Mi è sembrato giusto chiedere al Pec di ricordarlo oggi - anniversario del drammatico addio di Pistol a questo mondo - attraverso le sue parole.

Michele Pettene

Il “mio” Pistol Pete

di Andrea Pecile

Avrei voluto esserci, quella sera di fine anni Sessanta ad Austin, partita NCAA: Texas contro Louisiana State, una gara leggendaria.

Pistol Pete sta facendo uno dei suoi soliti, incredibili show. Anzi, forse qualcosa di ancor più speciale: i tifosi di casa, avversari di LSU, hanno iniziato a tifare anche per lui. Semplicemente non vogliono che lo spettacolo finisca. E infatti si va ai supplementari. Maravich, preso bene dall’atmosfera e con la vittoria già in tasca, tira un gancio da centrocampo allo scadere senza manco vederne la conclusione: sapeva già sarebbe finito dentro (oh, ci sono le immagini eh!). Poi uscirà dallo spogliatoio a notte fonda con gli occhiali da sole e i capelli da 20enne spettinati sulla montatura. Che fenomeno, Pistol.

Ora che ho smesso di giocare e lavoro come responsabile del settore giovanile della Pallacanestro Trieste, la mia vecchia società ora di nuovo in Serie A, mi chiedo spesso quale sia il modo migliore per trasmettere il culto di Pistol Pete Maravich ai nostri ragazzini. Impresa più ardua di quanto si pensi: da anni organizzo i camp di basket della nostra città, e spesso capita di raccontare aneddoti miei o dei grandi giocatori del passato ai giovincelli… Se va bene, forse uno su cento ha sentito parlare di Maravich. Gli altri scena muta.

Cioè, capite? Stiamo parlando di uno dei più grandi di sempre, uno dei primi dieci talenti offensivi più puri nella storia del Gioco, e in Italia passa praticamente da semi-sconosciuto!

Ma la cosa mi sta bene: Pistol Pete non è per tutti, a prescindere dall’età. Devi volerlo scoprire, devi avere qualcosa di particolare dentro, una curiosità “diversa”. Fortunatamente, Pistol Pete “era” per me, e conoscerlo mi ha cambiato la vita - perlomeno quella sportiva e professionale.

Ho scoperto Pete Maravich a metà anni Novanta, quando avevo 15-16 anni. Lui se n’era già andato da qualche anno, il 5 Gennaio 1988. Mi divertivo a giocare a “H.O.R.S.E.” nelle giovanili del Don Bosco, tra tiri di tabella e quelli da centrocampo. Nell’era pre-YouTube erano le videocassette a salvarti il culo, e io cercavo come un matto quelle sulle leggende NBA e sui trick-shots che mi potevano ispirare.

Naturalmente mi sono imbattuto nei leggendari video di Maravich: dietro la schiena, sotto le gambe, di testa, sulle dita. Mi si era aperto un mondo che non pensavo esistesse. “Basketball bloopers”, una VHS di inizio anni ‘90, l’ho consumata fino a bruciarla. C’erano alcuni dei suoi lampi geniali, e tanti altri degli eroi di quegli anni fantastici, tra NBA, ABA, capelli afro, da Walt Frazier a Earl “The Pearl” Monroe. Tutte guardie, lo so: certo che mi piacevano Charles Barkley o Larry Johnson che schiacciavano come animali, ma io che non toccavo nemmeno la retina poi cosa facevo?

Alcuni, memorabili highlights di Pistol Pete.

Con l’arrivo del Nuovo Millennio - ero da poco ventenne ed ero tornato in Serie A, questa volta a Pesaro - l’evoluzione della tecnologia è diventata una ghiotta opportunità per approfondire le cose: ho iniziato a comprare tutte le biografie su Maravich, gli Sports Illustrated originali, la VHS con tutti gli esercizi con la palla “per diventare Pistol Pete”. Le lezioni di passaggio con il mitico coach Red Auerbach. Tutto.

Avrei pagato per assistere agli allenamenti personalizzati che il padre “Press” Maravich imponeva al figlio. Padre peraltro figlio di immigrati serbi, con tutto quello che ne consegue in fatto di disciplina e Dna sportivo e competitivo. Fate anche ossessione: Pistol un giorno si definì “a basketball android”, un robot programmato per avere successo nella pallacanestro.

Avrei pagato per vedere Pistol ragazzino palleggiare ininterrottamente: al cinema, per strada, al bar. Uno degli aneddoti che mi fa impazzire ogni volta che lo racconto è quando, ancora bambino, pagò la spesa alla drogheria del paese natìo (Aliquippa, Pennsylvania) con una scommessa: farsi ruotare la palla sul dito per un’ora. Detto, fatto: spesa guadagnata e mandibole spalancate.

Avrei pagato per vedere il padre che va avanti e indietro con la macchina e Pistol Pete coricato a pancia in giù nei sedili posteriori a palleggiare fuori con la portiera aperta, costretto ad intuire i cambi di direzione e velocità. Un approccio assurdo, allenamenti che duravano anche 7-8 ore consecutive, cosa che mi ha sempre ricordato un altro grande, nato poco lontano da casa mia: Drazen Petrovic. Il problema, anzi la roba fica, era che Pistol lo faceva negli anni Sessanta, dieci-venti anni prima rispetto a chiunque. Ed è questo quello che lo rende unico, e allo stesso tempo così difficile da “trasmettere” come concetto.

Volendo far capire alle nuove generazioni chi era e cosa ancora rappresenta Pistol per la pallacanestro mondiale, partirei dalle superstar NBA di oggi e andrei a ritroso di decennio in decennio, giungendo sempre alla stessa conclusione: il primo a farlo è stato Pistol Pete Maravich.

La grandine quotidiana di triple di Steph Curry e Jimmer Fredette? Pistol Pete lo faceva già al college quando ancora il 1970 non era arrivato, con un’unica “piccola” differenza: non era ancora stato inventato il tiro da tre, quindi i suoi 44 punti di media in NCAA - ovviamente record imbattuto e imbattibile ogni epoca - è stato calcolato da chi ha “tracciato” tutte le sue partite universitarie che sarebbero stati più di 50, con una media di 4-5 triple segnate a partita.

Uno dei più grandi tiratori di sempre, e non solo in NCAA.

I passaggi no-look, le invenzioni per smarcare i compagni, i contropiedi funambolici di Jason Kidd e di un altro mio idolo, Jason Williams? Pistol Pete l’ha fatto per l’intera carriera, NCAA o NBA scegliete voi. Al volo, sotto le gambe, dietro la schiena, dietro la testa… Anche se non esistono prove video, io sono convinto che Maravich il famoso passaggio col gomito di White Chocolate l’aveva già fatto, o quantomeno di sicuro lo aveva provato.

Ah, la mitologica definizione di “Showtime” coniata da Magic Johnson per descrivere il proprio gioco e i propri Lakers? Ha confessato di averla rubata a Pistol Pete, che per lo show, per il pubblico, scendeva in campo ogni sera, dichiarando: «La gente non viene al palazzo per vedere passaggi due mani dal petto!».

La tecnica di Chris Paul, il ball handling pazzesco di Kyrie Irving, e prima di loro Isiah Thomas? Pistol Pete aveva già posto tutte le basi, grazie a una fusione unica di talento, etica lavorativa e applicazione: riconosciuto da tutti i più grandi come uno dei controlli di palla più incredibili di sempre, riuscì addirittura a registrare gli esercizi quotidiani per diventare come lui. Guardateli e provateci: il range va da banale a semi-impossibile. Persino Red Auerbach gli chiese durante le riprese di rifare un movimento, dal poco che ci aveva capito.

Red Auerbach con Pistol Pete - Alcuni dei leggendari esercizi di palleggio.

I contratti multimilionari di LeBron James e tutti gli altri? Pistol Pete, dopo averlo dichiarato ai tempi del college, diventò il primo giocatore di sempre in NBA a firmare un contratto sopra il milione, un’enormità all’epoca. E naturalmente cosa mai avvenuta prima.

La sfrontatezza di Drazen al Sibenka, o quella di Ricky Rubio cui spesso è stato paragonato? Pistol è stato il capostipite dei giocatori iper-sicuri di sé: era certo sopra ogni dubbio che il suo approccio non l’avrebbe mai fatto fallire. Ma la sua non era presa per il culo, bensì fiducia nei propri mezzi, applicazione, capacità di esecuzione, talento naturale.

Molti hanno criticato Curry per la famigerata palla persa dietro la schiena a Klay Thompson in Gara-7 delle Finali NBA 2016: Pistol Pete c’è passato 50 anni prima, cavalcando per tutta la carriera quel sottilissimo equilibrio tra la giocata che va oltre gli schemi e la “cagata”.

Da giocatore, ve lo assicuro, quei numeri fatti a quella velocità e precisione sono una roba impossibile da replicare senza margine d’errore: ma la frequenza con cui Pistol li mandava a segno era sbalorditiva, grazie a classe, creatività e doti naturali. Il passaggio-bowling da sotto, tra i suoi preferiti e che adesso fa solo uno come Milos Teodosic, è già di per sé decisamente arduo tra il calcolo della parabola e della potenza. Se poi aggiungete di mezzo i difensori...

Ecco, se devo dire la cosa che più continua ad affascinarmi di Pistol è la capacità di immaginazione, in un mondo non ancora pronto per lui: Pistol trovava la vera gioia in un campo da basket perchè riusciva a realizzare quello che immaginava. Sognava quello che poteva fare con la palla - ed erano sogni selvaggi, da mani nei capelli - e poi lo provava a fare, riuscendoci.

Credo che un giocatore pro possa capire bene Pistol solo verso la fine della sua carriera, se non addirittura dopo il ritiro. All’inizio ne vedevo solo le cose belle: quando andavo a tirare solo di gancio nei playground per sfogarmi perchè giocavo poco nella Scavolini, in Maravich trovavo per la prima volta delle risposte al mio entusiasmo per questo Gioco. “Ah!” - mi dicevo ingenuamente - “non sono solo io che a 10 anni mi divertivo già come un matto, che al ricreatorio continuavo a provare passaggi dietro la schiena!”.

E quindi giù di highlights, come gli epici 68 punti segnati al Madison Square Garden contro i New York Knicks, e tanti altri ancora: non me ne accorgevo, ma stavo avendo le stesse reazioni euforiche dei tifosi NBA che in quegli anni si erano trovati all’improvviso un alieno in campo.

Nel 1968 era impensabile vedere un giocatore di basket bianco apparire sui paginoni centrali di Sports Illustrated. La gente scriveva alla sua università, a LSU, per avere in ricordo i calzini sporchi di Pistol Pete. I compagni e gli avversari affermavano di non aver mai visto prima nulla di simile.

Io per omaggiarlo cercavo di interpretare il Gioco come Pistol, divertendomi e facendo divertire. Ad Avellino ancora si ricordano il passaggio al volo sotto-gamba o altri dietro la schiena: lo facevo per lui, per quello che mi aveva trasmesso. Mi spingeva a migliorare, ad andare comunque ad allenarmi, mi spingeva anche quando non ne avevo voglia. La ricerca del numero, dello spettacolo, è sempre stata una cosa che mi faceva sentire speciale: riuscivo ad immaginare una cosa che gli altri, il pubblico, non riusciva a vedere. Pistol diceva sempre che il motivo per giocare è “to put on a show”, e per me la cosa più bella era riuscire a fare qualcosa che lasciasse a bocca aperta, così come nei finali di partita: volevo gli ultimi tiri, da agonista era grandioso vivere quei momenti. Anche così a Granada sono diventato con orgoglio e grande divertimento il giocatore simbolo prima di una promozione in ACB (la Liga spagnola) e poi della salvezza l’anno successivo.

La gigantografia a Granada nel 2007 dopo la promozione.

Crescendo, maturando, dopo il ritiro, ho capito invece altre cose. Con le prime difficoltà umane inevitabili in un mondo come il nostro, molte frustrazioni di Pistol mi sono sembrate più chiare. L’ho rispettato ancora di più: quando ho letto di quanto fosse protettivo il padre, suo coach al college, e quanto la sua protezione gli sia mancata in NBA, piena di aspettative difficili da sostenere; quando si è infortunato gravemente al ginocchio provando a fare un passaggio al volo sotto-gamba da centrocampo; quando l’hanno etichettato come perdente, perché con Atlanta non è mai riuscito a vincere nonostante le milionate, e così anche con i Jazz; quando gli hanno dato dell’Harlem Globetrotter, senza capirne la rivoluzione. Quando ho saputo che aveva perso la madre per abuso di alcool, lo stesso in cui lui era cascato nel finale di carriera.

La sua vita è un film “based on a true story”, e lui un personaggio di culto come potrebbe esserlo solo chi un giorno scrisse sul tetto di casa “Take Me” rivolto agli alieni, durante una delle fasi paranoiche della sua vita, in mezzo tra quella in cui pensava di vivere bevendo solo succhi di frutta e quella, l’ultima, in cui si era tuffato nel cristianesimo più devoto.

Insomma, anche i miti hanno avuto i loro cazzi.

Ho raggiunto “l’apice” nell’adorazione di Pistol nel 2009-10, la stagione che ho passato a Jesi. Lì, per combattere pacifica quotidianità del paese, avevo iniziato ad andare mezz’ora prima in palestra per rifare tutti gli esercizi di Maravich. Per svagarmi, durante gli allenamenti replicavo alcune cose, scegliendo ad esempio di tirare esclusivamente con la mano sinistra, pensando “Vuoi che Pistol non l’abbia mai fatto?!”. Oppure decidevo di cambiare mano solo sotto le gambe, robe così. Giocavo tanto, perfino troppo con NBA 2K: creavo Pistol e gliene facevo fare 60 a partita.

Ho iniziato anche a collezionare tutte le sue canotte: Atlanta Hawks, New Orleans Jazz, Utah Jazz, LSU. E poi le figurine, i magazine, le action-figure McFarlane (le prime statuine dei giocatori). Sono molto fiero di possedere lo Sports Illustrated datato 4 marzo 1968, con lui in copertina insieme al papà, e di alcune magliette del Pistol Pete Basketball Camp.

Ma non finisce qui, perchè l’estetica era l’altra componente fondamentale del fascino di Pistol Pete Maravich. Noi a Trieste lo definiremmo “sbriso”, ovvero quel “trascurato ma ricercato”, inevitabile con quel ciuffo di capelli che sembra che tu non te lo sia curato, con le calze arrotolate apposta e diventate di culto perchè non importava che fossero giù, insieme al fascino da star hollywoodiana mescolato a quello del figlio di immigrati serbi. Uno così non poteva non essere ricercato… e io non potevo essere da meno, in campo.

In carriera ho indossato due gomitiere solo per motivi estetici, perché venivo bene in foto. Ho spesso avuto due codini, una fascetta, il polsino praticamente da sempre. Quando Nike ha iniziato con le scarpe personalizzate mi ci sono buttato, ovviamente. Avevo i calzettoni alti, ben distinguibili. Insomma, c’ho messo del mio.

Alcuni degli omaggi a Pistol: passaggi sottogamba, fascetta, capelli lunghi, gomitiere...

Un’estetica, quella di Pete, che si rifletteva anche sull’eleganza dei suoi movimenti, dei gesti. La facilità naturale nel fare un’azione che agli altri è difficile da imparare: “Ma come gli viene?” ti viene da domandarti. Una reazione immediata quando vedi una cosa cui l’occhio non è abitato, come quando Federer gioca a tennis, o le poesie di Pablo Neruda in spagnolo, come scivolano via. Anche se non sapevi di basket ma osservavi quello che succedeva attorno a lui ti accorgevi della sua grandezza, con la gente attorno che si metteva le mani nei capelli. Pistol è la bellezza che trovi nell’arte di tutti i campi della vita.

E poi il fantastico soprannome, altrettanto epico. Oh, questo è conosciuto da tutti dai tempi del liceo come “Pistol”, pistola! E tutto perchè era formidabile come tiratore e realizzatore! A me un gran nickname me l’ha dato il mitico Joseph Blair, ai tempi di Pesaro: “Sunshine”, a causa dei miei capelli biondi e del mio entusiasmo. Un soprannome che mi è piaciuto subito tantissimo ed è diventato parte integrante della mia vita, anche oggi.

Ecco, il più grande tributo che avrei voluto rendere a Pistol non sono mai riuscito a realizzarlo, e ancora un po’ mi rode: nella mia ultima stagione in Serie A, a Capo d’Orlando prima di chiudere la carriera a Trieste, avrei voluto scendere in campo come lui in una partita ufficiale con il mio “Sunshine” scritto sulla canotta. Ma la federazione non mi ha mai autorizzato. Peccato, sarebbe stata la chiusura di un bel cerchio, un omaggio a colui che più mi aveva ispirato. Ho rimediato poi giocando un All-Star Game FIBA con “Sunshine” sulla schiena (tiè), ma a questa cosa ancora ci penso.

Quando parlo di Pistol cerco sempre di spiegare quanto fosse un personaggio che andava ben oltre i montaggi video su YouTube, con tutti i numeri da circo, gli esercizi pazzeschi, l’inserimento nei 50 Greatest of all Time nel 1997 e tutto il resto. Una forza della natura, un fascino irresistibile legato anche alle drammatiche vicende della sua morte. Pensate: se Pistol Pete Maravich avesse fatto una delle nostre classiche visite mediche sportive, non avrebbe mai avuto l’idoneità per giocare. Cioè non l’avremmo mai avuto, capito?

Perché?

Pete ha vissuto e giocato per tutta la vita senza un’arteria coronaria sinistra. Non l’ha mai saputo, nessuno gliel’ha mai detto. Ma a 40 anni il suo cuore ha detto basta.

Incredibile come la vita ti sconvolga in un lampo, ma nei miei ricordi più romantici, e secondo quanto hanno detto i testimoni, poco prima che Pistol crollasse a terra durante una partita al campetto, le sue ultime parole sono state “I feel great”, mi sento alla grande.

Quando a Settembre 2018 la Gatorade ha organizzato un clinic a Trieste, mi hanno chiesto di fare da traduttore per l’ospite, il coach NBA Lionel Hollins. Io lo ricordavo per il Grit & Grind di Memphis e poco altro, così per prepararmi ho usato Google e… sono letteralmente impazzito: la seconda immagine era lui in attacco con Maravich a difendere! Potevo finalmente parlare con qualcuno che l’aveva toccato, affrontato. Ma a cena, dopo centinaia di suoi aneddoti su tutto tranne che Pistol, eravamo arrivati al secondo e io stavo diventando leggermente “impaziente”.

Così gli chiedo gentilmente di Pete Maravich.

Lui sgrana gli occhi, forse non si aspettava fosse conosciuto in Italia.

Poi si è aperto completamente, a dire il vero raccontando fatti divertenti, ma nulla di nuovo.

Però ho avuto una conferma definitiva: come Pistol, nessuno mai.

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