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Come è nato l'amore tra Napoli e il calcio
15 mag 2023
Origine e diffusione a Napoli dello sport più amato dai napoletani.
(articolo)
16 min
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Illustrazione di Giorgio Mozzorecchia
(copertina) Illustrazione di Giorgio Mozzorecchia
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La vittoria del titolo di Campione d’Italia da parte del Napoli, il terzo nella storia del club e solo il quarto per il Sud Italia calcistico, sembra aver riaperto la scatola della discussione – e dei relativi sfottò – sulla storica arretratezza del calcio meridionale rispetto a quello settentrionale. Il dislivello storico è un dato di fatto, ma non deve farci pensare che la storia del calcio in Italia sia una storia del calcio nel nord Italia, in particolare per quanto riguarda i suoi esordi.

Una certa memoria sportiva, o il racconto tradizionale, racconta la diffusione del gioco più amato dagli italiani come un moto espansivo che dall’epicentro del nord-ovest integrò man mano, quasi ricalcando le tappe risorgimentali, il resto del paese. Vari studi storici di settore hanno smentito, almeno a livello accademico, questa narrazione. Per esempio, i lavori di Sergio Giuntini e Marco Impiglia hanno restituito una dignità e un ruolo fondamentale nel processo di diffusione del calcio alle palestre di ginnastica, che furono particolarmente influenti nel radicamento di questo sport nel nord-est. Non un’unica direttrice, ma un sommarsi complesso di forze avrebbe portato all’accensione di tanti piccoli fuochi sul territorio nazionale.

L’arrivo dell’association football in Italia ha una matrice plurale, insomma, anche se la tendenza radicata è invece di racchiudere in un solo nome, in un solo eroe, un avvenimento, un processo o un periodo. Per cui, come scrive Antonio Ghirelli nella sua Storia del calcio in Italia (Einaudi, 1990), «se è vero che l’Italia unita è stata sintetizzata in Vittorio Emanuele, nessuna meraviglia che la preistoria del nostro football si sia chiamata Genoa». La storia è, però, più complessa, più stratificata e intricata e ci può portare a riscoprire come fra i più antichi sodalizi calcistici del paese ci siano, per esempio, anche club di Palermo o di Messina.

Dallo strettissimo legame che univa Sicilia e Gran Bretagna nell’Ottocento, alla grande espansione e internazionalizzazione di Bari a cavallo fra i secoli, il calcio in queste zone sembrerebbe sbocciare in autonomia e indipendentemente dal nord Italia. D’altronde, una profonda divisione logistica attraversava ancora la penisola e i trasporti, quando esistenti, erano molto onerosi. Per molti anni gli incontri con gli equipaggi delle navi inglesi - ma non solo - furono le uniche sfide possibili per i footballers del Sud Italia oltre a quelle fra membri dello stesso club. Solo modo per saggiare la propria preparazione e la propria crescita, queste sfide, giocate spesso a ridosso dei porti, assumevano anche il valore di “corsi di aggiornamento”. Le squadre degli equipaggi britannici, in particolare quelli militari, ancora nel primo decennio del XX secolo, si piazzavano a un livello tecnico piuttosto alto rispetto al resto d’Europa e rappresentavano, per i club di remoti paesi, un esempio: pratico, per quanto riguarda la tecnica e della tattica, e valoriale, per quanto riguarda lo stare in campo e il comportarsi “da squadra”.

Anche la memoria storica sul calcio a Napoli risente del preconcetto sull’origine settentrionale. La data di fondazione da sempre utilizzata per l’unica squadra cittadina può far pensare ai più che la sfera di cuoio abbia iniziato a rotolare all’ombra del Vesuvio al massimo poco prima del 1926, anno di fondazione canonico del Napoli odierno. La storia del pallone nella città partenopea è invece antica e vivace. Per cominciare, però, bisogna ricordare che la storia del calcio non è mai solo storia del calcio, ma si innesta sugli sviluppi storici generali, li attraversa e ne è condizionata.

Napoli sventrata

Se c’è una costante nella storia della diffusione del football nei più disparati angoli del mondo, questa è sicuramente data dal legame fortemente identitario con la cultura borghese. Nei decenni post-unitari, però, Napoli sembrava una città senza borghesia. Non perché non esistessero persone di ceto medio, impiegatizio o professionale, ma perché queste non esprimevano una propria cultura di riferimento che le caratterizzassero come tali. Il modello da imitare era sempre e solo quello dell’aristocrazia feudale.

Anche urbanisticamente la borghesia napoletana era di difficile mappatura. Gli stretti vicoli, con i bassi tipici e le piccole botteghe, costeggiavano le fondamenta dei grandi palazzi nobiliari. I labirinti inestricabili dei quartieri di Porto, Mercato, Pendino e Vicaria, erano attaccati e quasi circondavano i bastioni dell’aristocrazia come San Giuseppe e San Lorenzo; gli assi viari che separavano queste zone non erano tratti d'unione ma, al contrario, rigide e invalicabili barriere. Nella città convivevano, l’una accanto all’altra, l’una dipendente dall’altra, in una sorta di simbiosi ma ben separate, la plebe più misera e l’aristocrazia più ingorda.

La grave epidemia di colera del 1884 porta le istituzioni a tentare di sgarbugliare la conformazione urbana e negli anni successivi vengono progettati, votati e resi esecutivi i provvedimenti per fare della città un ambiente più salubre. I lavori di “sventramento” – espressione coniata dal deputato Agostino Depretis durante una visita della città – cominciano nel 1889, dopo anni di forti contrasti e polemiche su espropri e appalti. Si aprono così numerosi nuovi spazi fisici e sociali in cui nuovi soggetti possono addentrarsi.

Fra gli anni Ottanta e Novanta, a Napoli si manifesta il risveglio di una modernità borghese che si fa largo in vari campi. Sotto i vetri della nuovissima Galleria Umberto I iniziano a passeggiare sempre più bombette e pagliette, cappelli che si aprono al mondo, al progresso, all’Inghilterra. Nei Grandi Magazzini Mele, ispirati ai più noti parigini La Fayette, vorticano nuove mode e la grande novità della pubblicità. All’interno della Galleria apre il Salone Margherita, massimo esponente napoletano e fra i maggiori in Italia della moda dei cafè chantant, dove nasce la figura della sciantosa: diva a metà strada fra la cantante e l’attrice, che impersona personaggi maliziosi e seducenti e che si impone come l’oggetto del desiderio tra gli uomini dell’alta società.

Questa fioritura contribuisce a ridefinire il concetto stesso di “napoletanità”. È in questo periodo che nasce e si definisce quell’identità collettiva che ora chiamiamo “essere napoletani”. Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao scompaginano il giornalismo cittadino fondando Il Mattino. Si risveglia - imponendosi anche come successo commerciale - la canzone napoletana grazie a pezzi immortali come Era de maggio e Funiculì Funiculà, che ancora oggi risuona allo stadio Maradona. E poi il teatro: negli anni post-unitari la maschera di Pulcinella cade sotto i colpi della critica, che in essa identificava la figura del lazzarone, fedele ai Borboni e che andava epurato dalla Napoli italiana e libera. Alla caduta di Pulcinella corrispose l’ascesa del teatro moderno, leggero e filo-francese di Eduardo Scarpetta e del suo personaggio, il piccolo borghese abbastanza illetterato e ridicolo ma ambizioso don Felice Sciosciammocca, che forse alcuni ricordano interpretato sul grande schermo da Totò.

Fra ginnasti e canottieri

Quali sono, però, fra questi nuovi soggetti cittadini i primi a dare calci a un pallone? Una narrazione romantica vede nei porti i primi luoghi di pratica del football in Italia, ma è un’idea quasi impossibile da verificare. Sappiamo, però, con certezza che la locale Società Ginnastica Partenopea lo avesse fra le sue discipline a metà degli anni Novanta dell’Ottocento e che negli stessi anni si tennero varie grandi manifestazioni sportive e ginniche a cui parteciparono anche gli studenti dei licei cittadini e nei cui programmi figurava anche il calcio. L’adozione di questo sport da parte della Partenopea non fu una scelta particolarmente in controtendenza o visionaria: la società napoletana rispose soltanto “presente” a una nota della Federazione Ginnastica Nazionale che nel 1895 invitava le palestre italiane ad adottare questo e altri “giochi inglesi”.

Il primo nucleo di praticanti di football di Napoli è da individuare, quindi, nell’ambiente ginnastico e studentesco dei licei e in una popolazione sostanzialmente giovanile, un contesto piuttosto differente dalla “via del mare” genericamente utilizzata per spiegare l’arrivo del pallone nel nostro paese.

Nel caso di Napoli, però, al mare si ritorna. Nei primi anni del XX secolo un nuovo segmento di società napoletana si addentra nel mondo del pallone. Cresce sempre più l’interesse per questo gioco da parte dei circoli nautici della città. La curiosità esercitata dal pallone su questi club segna un avvicinamento a questo sport da parte dell’aristocrazia e di questa nuova alta borghesia cittadina, pur sempre affascinata dagli stili di vita aristocratici, e anche un passaggio del football da una valenza puramente sportiva e formativa a una più mondana. È un passaggio fondamentale anche per un rincontro con le comunità straniere di Napoli; fra i soci dei circoli nautici comparivano anche rappresentanti della borghesia commerciale e finanziaria straniera, che avevano anche i propri centri aggregativi come il “Circolo Svizzero” e il “Circolo Italo-Britannico”.

Se i gentiluomini, locali e stranieri, la sera affollano il San Carlo o il bar dell’Hotel Vesuve, il Salone Margherita o i caffè di Corso Re d’Italia (oggi Corso Umberto I), nei caldi finesettimana scendono alla banchina di Santa Lucia, adiacente a Castel dell’Ovo, per una remata, un’uscita in barca a vela o anche solo per il gusto - e la necessità - di farsi vedere lì. Cosa fare, però, al Circolo in inverno inoltrato, quando il clima non permette spensierate regate?

I soci di circoli altolocati e storici come l’Italia o il Savoia iniziano così a cimentarsi in questo nuovo sport, che sa tanto di Inghilterra, di sofisticatezza e progresso. La prima partita su suolo napoletano di cui ci è pervenuto un resoconto, e le cui tracce si sono conservate fino ad oggi, è datata 4 febbraio 1900 e vede contrapposte una squadra di soci della Partenopea e una di soci del Savoia, ma dall’articolo de Il Mattino del 9-10 febbraio 1900 che ne parla sappiamo che fu solo uno degli episodi di un confronto che si protrasse per almeno quattro domeniche e di cui non sappiamo se si trovò, infine, un vincitore.

Il grande Naples

Nel novembre 1905, il Canottieri Italia fonda una propria “sezione di Foot-Ball”, che probabilmente inizia a giocare a Santa Lucia, vicino la sede del circolo nautico. È questa sezione a rappresentare il nucleo originario del primo club calcistico strutturato e dall’attività costante della città. Nel 1906 la sezione passa sotto la guida di Guido Fiorentino, sportman poliedrico, podista, ciclista, calciatore, campione italiano di canottaggio nel 1896 e 1897 e gestore del bar dell’Hotel Vesuve. La sezione assume un nome più adatto allo spirito cosmopolita e sofisticato dell’ambiente dei clubs: se a Genova nacque il Genoa e a Milano il Milan, nella città partenopea si costituì il Naples Foot-Ball Club.

In un articolo de La Gazzetta dello Sport del 5 febbraio 1906, riportato sul volume di Piergiorgio Renna Il football a Napoli (Idea Stampa, 2008), leggiamo: «In seno al Real Club Canottieri Italia si è costituito il Naples Football Club. Il comitato direttivo provvisorio è composto dai signori Guido Fiorentino, Roberto Sarlo, Hector M. Bayon, Delfino Golino, Arturo Kernot. La nuova società conta numerosi soci in gran parte appartenenti alle nostre società di canottaggio e le partite procedono animate al campo di Bagnoli. I colori sono il celeste e il nero».

In realtà i colori sociali della nuova squadra, come confermano foto e articoli di cronaca successivi, erano il celeste e l’azzurro, probabilmente ispirati al mare ed al cielo del Golfo.

Kernot e Bayon erano rappresentanti della flessione cosmopolita che la città aveva già da tempo, ma, se il primo - che morì trentenne l’anno dopo in una tragica escursione alpinistica - era con tutta probabilità napoletano da tempo e forse da più di una generazione, Bayon era invece nato a Genova da un funzionario del consolato svizzero e da una quacchera inglese. Proprio nella Superba ebbe il primo contatto con il football: fu un socio, seppur praticando a livello agonistico solo il podismo, del Genoa.

Il Naples inizia sempre più ad affermarsi come un’istituzione, attirando l’attenzione e la simpatia di élite e classi medie napoletane e straniere residenti in città. Vari elementi stranieri si aggiungono nei mesi successivi, oltre ad altri italiani con precedente esperienza calcistica. Fra questi ritroviamo William Potts (o Poths), identificato dalla tradizione sportiva e dal racconto fondativo mitico del calcio napoletano come l’elemento esotico (ovviamente britannico) venuto dal mare a portare il football, e un certo Peter Jackson. Quest’ultimo, che secondo i cronisti dell’epoca sarebbe stato un campione a livello universitario a Newcastle, è il primo grande nome del football napoletano e il primo capitano in assoluto. Nella prima partita del Naples Foot-Ball Club di cui ci sia pervenuta testimonianza, disputata tra due formazioni dello stesso club nel novembre del 1906, Jackson guida la sua squadra segnando cinque gol, mentre Maier, un altro ex-Genoa, nello schieramento opposto si ferma a quattro. Nella sua esperienza napoletana, durata un paio d’anni, si impone in maniera indiscussa come il miglior giocatore della città. Un primo “idolo” di quella sparuta schiera di appassionati che furono gli amanti del pallone a Napoli nel primo decennio del Novecento, da inserire a posteriori in una lista che passa da Attila Sallustro (bomber azzurro fra gli anni Venti e Trenta), Altafini, Maradona e arriva, oggi, a Victor Osimhen.

La moda del pallone

Nel settembre del 1906 il Naples si affilia alla Federazione Italiana Football, inquadrandosi così nell’organismo calcistico nazionale e portando sulla mappa d’Italia la crescente passione dei napoletani per il football. È la squadra più a Sud per l’elenco delle affiliate in quell’annata e la lontananza geografica e la mancanza di adeguati collegamenti non consentono al Naples di partecipare a tornei federali per quella stagione. I soci devono accontentarsi di partite di allenamento interne o con equipaggi di navi di passaggio. Ma in poco tempo si può arrivare a disputare vere e proprie competizioni cittadine. Negli anni successivi nasce un pulviscolo di squadre minori, ognuna con i propri valori, rappresentanti ognuna una propria fetta di società.

La prima di queste è la Società Sportiva Napoli – i cui colori sociali erano il rosso e il nero –, con terreno di gioco al Campo di Marte e il cui annuncio di fondazione su La Stampa Sportiva nel dicembre 1907 – in cui la società è erroneamente chiamata Società del calcio – è accompagnato da un’aspra polemica sulla sua presunta “stranierofobia”. Come nel resto d’Italia, anche a Napoli monta la retorica nazionalista, che muoverà poi la guerra di Libia e successivamente l’ingresso del primo conflitto mondiale, e che, al pari di ogni altro ambito della società italiana, investe anche il calcio. L’ampia apertura agli stranieri attira sul Naples l’antipatia dei nuovi club che sorgono in questi anni e che spesso caricano la loro attività di valore politico in senso nazionale o militaresco.

Terza società calcistica napoletana per ordine di apparizione è, a gennaio 1908, l’Open Air Sporting Club. È una società a forte connotazione aristocratica, e ha nel marchese Parisi il proprio presidente e veste una divisa bianca e violetto. È anche, visti i considerevoli fondi, la prima squadra della città ad avere un campo di proprietà presso le Terme di Agnano, poco distante da Fuorigrotta, dove è oggi situato lo Stadio Maradona. Nei mesi successivi nascono lo Sporting Club Audace, in maglia bianca e verde, lo Juventus Sporting Club, con il bianco e il rosso come colori sociali e presieduta dal duca di Serracapriola, e altre ancora.

A quel punto la scena calcistica napoletana è viva e varia e si confronta al suo interno attraverso trofei cittadini spesso messi in palio all’occorrenza. Nel marzo 1908 le quattro più “vecchie” squadre cittadine disputano il primo campionato regionale della Campania, inquadrato fra i campionati di III categoria della FIF. Il dominio del Naples è però evidente, tant’è che gli azzurro-celesti (o blu-celesti secondo altri) possono permettersi il lusso di schierare ben due ottime formazioni. La seconda squadra, più giovane e italiana, domina le competizioni locali minori, mentre la prima, con i primi grandi nomi del calcio napoletano come Bayon, Jackson, Maier, Garozzo, il portiere Saltmarsche e l’ala Michele Scarfoglio - quarto e ultimo figlio di Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao -, inizia a disputare le prime sfide con le squadre romane e la Coppa Lipton, un vero e proprio campionato meridionale che coinvolge squadre del Sud continentale e della Sicilia e che vede svilupparsi una vivace e combattuta rivalità con il Palermo.

Nuove rivalità in un calcio diviso

Nel giugno del 1908, nel corso di un torneo minore organizzato a Roma, si tiene poi il primo atto di un’altra grande rivalità. Il Naples, nella semifinale di questo torneo, che coinvolge quattro squadre, affronta la Juventus di Torino. Se volessimo considerare il Naples come il legittimo antenato del Napoli di oggi, questa sarebbe la prima sfida di una diatriba che ha segnato il calcio italiano e che è stata caricata, nell’immaginario collettivo, di tutto il peso della questione meridionale, quasi fosse una sua emanazione sul campo da gioco. Lo scontro simbolo del divario calcistico fra il Nord e il Sud inizia con un perentorio 6-0 per la squadra sabauda, che, insieme alla sconfitta della Lazio con l’U.S. Milanese per lo stesso risultato nell’altra semifinale, testimonia la netta differenza di livello fra il gioco settentrionale e quello centro-meridionale dell’epoca.

Il lineare dominio del Naples sul calcio cittadino, e probabilmente tutta la storia futura del movimento calcistico napoletano ai massimi livelli, ha una svolta nel 1911. L’idea nazionale, che soppianta lo spirito cosmopolita nelle culture borghesi di tutta Europa, comincia a diffondersi anche nell’ambiente del football a partire dal 1907. Nel 1909 il “football” divenne così il “calcio”, inizia la storia della Nazionale e si consuma la rottura fra Campionato Italiano e Campionato federale: il primo riservato alle squadre formate da soli elementi autoctoni e spesso definite “pure”, il secondo aperto a tutti i club, in particolare quelli in cui militavano tanti stranieri.

La frattura in due campionati viene ricomposta nel 1909, ma per quanto riguarda il contesto napoletano, nel 1911, in pieno montare della Guerra di Libia, i giocatori stranieri e alcuni giovani talentuosi italiani del Naples, fra i quali ritroviamo Bayon e Scarfoglio, decidono di fondare una nuova squadra che garantisse a tutti, indipendentemente dalla nazionalità, di giocare e che assume il nome di Unione Sportiva Internazionale (una storia che forse ci risuona familiare, vero?). La nuova squadra, che adopera una maglia blu scuro con ricamato lo stemma societario, ha progetti ambiziosi e innovativi, fra i quali la costruzione di un moderno terreno di gioco alle Terme di Agnano e la competizione con squadre del Nord.

La scissione, che crea una divertente rivalità cittadina e una emozionante alternanza di risultati nei tornei locali e nei campionati regionali, priva d’altro canto la città di una squadra realmente competitiva con le compagini del resto d’Italia. L’unità viene poi ricomposta solo qualche anno dopo la fine della Prima Guerra Mondiale.

I primi calci nelle palestre di ginnastica, i circoli mondani e d’affari, gli “esperti” giunti da oltremanica: in questi primi anni di calcio napoletano si intrecciano tutti gli elementi che, spesso agendo separatamente, hanno contribuito a diffondere il football in ogni angolo del nostro Paese.

L’origine della storia d’amore tra la città partenopea e il calcio è dunque più antica e tortuosa di quanto oggi si possa pensare. I suoi inizi sono colorati, vari, articolati e cosmopoliti, lontani dalla profonda corrispondenza sentimentale fra squadra e città di oggi, testimoniata ancora una volta dai festeggiamenti prolungati di queste settimane, e questo, credo, li rende ancora più affascinanti da ricostruire.

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