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Come si coltiva il talento in Italia pt. 1
25 lug 2018
Intervista a Maurizio Viscidi, coordinatore tecnico di tutte le nazionali giovanili maschili della FIGC.
(articolo)
19 min
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Maurizio Viscidi, è il coordinatore tecnico di tutte le nazionali giovanili maschili della FIGC. Gli ho chiesto di parlarmi di come la Federazione sta pianificando il futuro degli Azzurri.

Abbiamo cominciato parlando del fatto che tutti i CT della Nazionale maggiore - Antonio Conte più degli altri - si sono lamentati del poco tempo che i giocatori spendono ai raduni. Avviene lo stesso a livello giovanile o c’è maggiore collaborazione con i club?

«Gli Under 21, Under 20 e Under 19 si radunano nella cosiddetta “data fissa”, la stessa della Nazionale A. La data fissa è stata creata dalla FIFA per avere una sosta condivisa internazionalmente che permettesse ai club di rilasciare i giocatori per le nazionali nello stesso momento, per lo stesso periodo di tempo. Quindi c’è poco tempo, sì, ma è poco per tutti.

Dall’Under 18 in giù, abbiamo un calendario condiviso con i club più flessibili, anche perché generalmente questi calciatori non sono coinvolti in prima squadra. Armonizziamo il calendario delle nostre nazionali con quello delle competizioni italiane Primavera, Under 17, Under 16 e Under 15. Questo ci permette di lavorare con i ragazzi una volta al mese, anche in quei mesi in cui non c’è la data fissa FIFA. Ovviamente è un format condiviso dalle altre federazioni, che trovano il modo di lavorare anche fuori dalle date fisse. E per questo dobbiamo ringraziare i club».

Più in generale, che rapporto avete con lo staff delle squadre di provenienza dei giovani? Condividete anche metodi e obiettivi?

«Quando siamo arrivati in Federazione, Arrigo Sacchi e io, i rapporti erano inesistenti. Poi negli anni sono molto migliorati e oggi sono ottimali per quanto riguarda l’armonizzazione del calendario e il rilascio dei calciatori. Quello della condivisione metodologica è il passo successivo. Finora ho raccomandato a ogni settore all’interno dei quadri federali di tenere rapporti con l’omologo settore nei club. Io mi confronto coi responsabili dei settori giovanili o, a livello di prima squadra, coi direttori sportivi. I preparatori atletici si devono confrontare coi preparatori atletici dei club, e così via.

Il passo successivo, che stiamo adesso implementando, è quello di dare indicazioni metodologiche, soprattutto a livello tecnico/tattico. Non sono delle imposizioni, perché ogni club è padrone di sviluppare il talento come meglio crede. Però è importante che la Federazione trasmetta le conoscenze che acquisisce anche attraverso le esperienze internazionali. E che si esponga, dando una traccia di quella che è la metodologia ideale per crescere al meglio i calciatori, secondo i parametri che il calcio europeo fornisce».

Per le fasce d’età molto piccole (sotto i 15 anni) è auspicabile un modello di tipo belga, per il quale i ragazzi svolgono durante la settimana parte dell’allenamento presso le loro squadre e parte nei centri federali?

«Noi siamo pronti per farlo, ma nei centri federali non possiamo convocare i ragazzi più giovani. I club non possono far sottoscrivere un vincolo pluriennale a calciatori di età inferiore ai 15 anni, per cui una convocazione esporrebbe i club al cosiddetto “furto” di giovani da parte delle squadre straniere. Se cambierà la regola ne riparleremo. Noi in Federazione ora abbiamo innanzitutto il compito di riconoscere il talento; poi, se possibile, organizzare anche qualche allenamento.

Magari non arriveremo mai al modello belga, ma comunque stiamo osservando un’inversione di tendenza anche nel resto d’Europa. Tutti i club di nazioni piccole come il Belgio o la Svizzera, o di nazioni iper-organizzate come la Germania, rivendicano presso le proprie federazioni un’autonomia metodologica, e con questa una continuità del lavoro svolto dai ragazzi anche presso le nazionali.

Più che puntare ad avere i ragazzi tre giorni presso i club e due presso i centri federali, preferirei avere a disposizione i professionisti Under 21, 20 e 19 una volta al mese, come già avviene dagli Under 18 in giù».

Non vinciamo un trofeo a livello di Nazionali giovanili dal 2004 (l’Europeo di De Rossi e Gilardino), però le ultime uscite sono state confortanti. La Under 21 è uscita in semifinale all’Europeo contro la Spagna, poi campione. Lo stesso è accaduto alla Under 20 che al Mondiale si è fermata solo al cospetto dell’Inghilterra, vincitrice del torneo. Che indicazioni trae circa lo stato di salute del nostro movimento?

«L’ultimo biennio è stato incredibilmente buono dal punto di vista dei risultati. Siamo stati vice campioni d’Europa (Under 19, ndr) contro la Francia che schierava Mbappé. Il terzo posto al Mondiale Under 20 è un risultato mai raggiunto prima dalla Federazione Calcio. Quest’anno siamo andati in finale (all’Europeo Under 17, ndr) perdendo ai rigori con l’Olanda.

C’è un parametro ancora più importante sul quale misurarci, ed è il ranking che la UEFA stila tenendo conto dei risultati nelle partite ufficiali degli ultimi quattro anni. Siamo attualmente ottavi, ma per i risultati ottenuti credo che saliremo al quinto posto nel prossimo ranking di dicembre. Quando abbiamo iniziato il nostro lavoro nel 2010 eravamo diciannovesimi.

Abbiamo ottenuto risultati migliori con le nazionali rispetto a quanto fatto dai nostri stessi club in Youth League. I risultati che stiamo ottenendo sono veramente buoni, sono incoraggianti per il futuro e il merito è anche dei club che sono tornati a lavorare sui settori giovanili, così come è tornata a fare la Federazione.

Se poriettassimo i risultati delle giovanili nel futuro, dovremmo essere confidenti e pensare che avremo un futuro migliore del presente. Non è una certezza, bisogna dare continuità al lavoro e ci sono tante componenti da tenere in conto. Però abbiamo ripreso a lavorare nei club, la Federazione ha dato l’impulso, le nostre sinergie sono migliorate. Ad esempio, il numero di partite è aumentato: le sette nazionali giovanili, quest’anno, hanno giocato un totale di 96 partite. Equivale ad un patrimonio di esperienza notevole per i ragazzi.

La Federazione si è accorta che siamo passati dai ragazzi che si auto-formavano, negli anni Settanta, negli oratori o in strada - c’era quasi solo il calcio, c’era grande passione e si giocava tutto il giorno, poi la vita delle famiglie, soprattutto nelle città, è cambiata - ad un calcio in cui i club avrebbero dovuto supplire con degli investimenti, che non sono stati fatti. La Federazione s’è fatta carico di tantissime iniziative per riempire un vuoto.

Ora stiamo osservando un miglioramento già nei ragazzi nati dal 2000 in poi. C’è stato un momento nel quale siamo stati un po’ a guardare, che ha riguardato la generazione dei ragazzi nati tra 1990 e il 2000, e ne stiamo pagando le conseguenze».

È proprio il punto sul quale volevo portare il discorso: si può ridurre le difficoltà della Nazionale alla mancanza di talenti tecnici? O dobbiamo fare un’analisi più profonda, culturale del nostro movimento? Non è ora di dirci esplicitamente che l’ossessione verso il risultato, almeno a livello formativo, è sbagliata?

«Ci sono da fare diverse considerazioni. Da un lato non abbiamo risposte in termini di quantità di lavoro rispetto a quello che si è perso non giocando più in strada. Dall’altro possiamo però dire che, nei club, ci sono pochi allenamenti, 3 o 4 alla settimana; e spesso sono anche troppo brevi, perché si ha paura di fargli far fatica in vista del risultato immediato, alla domenica successiva. Poi questi allenamenti sono troppo tattici, manca il lavoro tecnico.

C’è poi un altro aspetto organizzativo. Non capisco perché a giugno, luglio e agosto non si giochi a calcio, soprattutto a livelli dilettantistici. Anche eliminando agosto, che i ragazzi sono in ferie con le famiglie, ma a giugno e a luglio perché le società non fanno calcio? I ragazzi sono a casa da scuola, le giornate sono belle, i genitori lavorano: ma perché non devono essere aperte le strutture? Anche senza la presenza degli allenatori, anche senza un lavoro specifico, perché non va neanche bene perdere l’aspetto ludico e dello stare insieme. Io l’ho fatto nella mia città, sono arrivati centinaia di ragazzi spontaneamente per giocare.

Poi: abbiamo disconosciuto la tecnica e ci siamo innamorati della tattica. Abbiamo i migliori allenatori al mondo sulla tattica. Però spesso chi lavora nel settore giovanile si ispira troppo agli allenatori della prima squadra e capita che faccia copia/incolla degli allenamenti di prima squadra, e non ha la metodologia di lavoro della squadra giovanile.

Le società pagano troppo poco gli allenatori. Quelli bravi capiscono di avere futuro, aspirando a contratti migliori, solo se vincono, e prendono le scorciatoie. Quelli meno bravi lo fanno quasi a livello di volontariato e non danno indirizzi metodologici precisi. Quindi nel migliore dei casi non si lavora per il giovane, ma per se stessi. È un errore che ho fatto anche io, quand’ero dall’altra parte.

Siamo passati da una tecnica analitica un po’ datata, a un’assenza di lavoro tecnico. La tecnica va allenata in un contesto dinamico, com’è molto dinamico il calcio di oggi, calata nelle situazioni di gioco. Ci vuole una tecnica cognitiva, pensante. Ma il lavoro tecnico va fatto, e io vedo poco lavoro tecnico. Laddove c’è il talento, lo abbiamo ammazzato in virtù di una tattica poco rischiosa, all’insegna del: gioca a due tocchi, gioca semplice, passala sempre. Cioè abbiamo soffocato quei pochi talenti che avevamo, forzandoli a prediligere scelte collettive (un po’ quello che, negli ultimi tempi, Johan Cruyff rimproverava a van Gaal e all’Olanda, altra nazionale che oggi è in difficoltà, ndr).

Abbiamo delle colpe, noi allenatori, perché non abbiamo fornito al talento stimoli per esprimersi e non abbiamo lavorato a sufficienza sulla tecnica».

Voglio ora fare un lungo parallelo tra noi e l’Inghilterra, una nazione che calcisticamente ha compiuto enormi progressi. Gli inglesi hanno spesso detto che la vittoria del Mondiale ‘66 è stata la peggior cosa che potesse capitare al loro movimento, perché sono rimasti legati alle loro idee mentre il calcio ovunque stava cambiando. Vale anche per noi? Cioè la vittoria Mondiale del 2006 ci ha dato l’illusione di essere ancora in grado di produrre giocatori di élite quando non lo eravamo più?

«Nel 2006 abbiamo vinto un Mondiale grazie a prestazioni straordinarie di giocatori dal grande talento. Questi si erano formati 15-20 anni prima, se consideriamo che l’età media di una nazionale è di solito intorno ai 26 anni. Quindi, oltre alle grandi prestazioni di un gruppo di giocatori unico, stimolato da un momento storico particolare, quel talento ha toccato l’apice nel 2006 ma aveva un’origine diversa, erano tutti nati negli anni ‘70. Vincere è sempre bello, e non possiamo sporcare il ricordo di quella vittoria. Però quanto meno ci ha confusi: in quel momento storico, non siamo andati a vedere come i piccoli stavano lavorando. E ora quell’errore lo stiamo pagando.

Oggi siamo nella situazione opposta: abbiamo vissuto una grande delusione per l’esclusione della nazionale A dalla fase finale del Mondiale (seconda volta nella storia della Nazionale, la prima nel 1958, ndr). Però abbiamo le nazionali giovanili vicecampioni del mondo e due volte vicecampioni d’Europa. Adesso posso sperare in un futuro migliore».

Prima faceva riferimento al ruolo della FIGC, come volano per i club che non riescono a maturare delle esperienze internazionali. La federazione inglese ha rivoluzionato il proprio sistema, aggiornandolo anche integrando idee dall’esterno (facendosi influenzare, ad esempio, anche da Guardiola e Pochettino). In Italia esiste una tendenza alla chiusura, rispetto a quello che può venire dall’esterno? Se esiste, è qualcosa che rallenta lo sviluppo del calcio italiano?

«Io vedo un altro problema: i nostri allenatori sono molto stimati, anche all’estero, a livello di prima squadra, perché sono molto esperti di tattica; siamo molto meno stimati e ricercati come allenatori di giovanili, perché abbiamo perso la didattica e la metodologia per allenare i giovani. A livello giovanile, la federazione australiana si è affidata a tecnici olandesi; quella ungherese, a tecnici tedeschi. Non abbiamo appeal per quanto riguarda le giovanili, e dobbiamo farci delle domande sul perché.

Io credo che oggi siamo poco bravi nell’allenare i giovani rispetto ad altre federazioni; abbiamo club stranieri che offrono ingaggi migliori per gli allenatori che fanno una scelta di vita. Noi dobbiamo recuperare la figura dell’allenatore della giovanili: non un allenatore scarso, ma un allenatore che sceglie di insegnare calcio ai ragazzi, che sceglie di aiutarli a crescere.

Noi come Federazione stiamo ritrovando e indicando un metodo. È auspicabile che nelle società chi fa la scelta di allenare i giovani venga ricompensato adeguatamente sotto il punto di vista economico, che costituisca una vera e propria alternativa rispetto al monetizzare, andando ad allenare in altre categorie».

Immagina già come giocherà l’Italia nel 2026? La ricerca della verticalizzazione è uno dei princìpi guida della nazionale inglese, quali saranno i nostri?

«Al di là di come giocherà la Nazionale A, il mio più grande lascito sarà stato proprio quello di passare da un ragionamento per schemi ad uno per princìpi. Qui parlo di fase offensiva, che è quella più carente, perché tutto sommato la fase difensiva in Italia sappiamo ancora allenarla. Abbiamo 4 macro princìpi, che sono riassumibili sotto l’acronimo di CARP.

La C sta per costruzione. Noi cerchiamo con tutte le squadre di iniziare a giocare da dietro, cosa ancora molto difficile in Italia con dei difensori che tendono a giocare poco la palla e tendono a fare durante la settimana ancora tanto lavoro sulla linea, tanto lavoro di reparto, tanto lavoro in marcatura. Fanno poco lavoro di costruzione, poco lavoro sui passaggi filtranti, poco lavoro sulla conduzione di palla per creare superiorità numerica. Il nostro primo macro principio sarà la costruzione del gioco da dietro. Stiamo combattendo per cambiare anche la mentalità dei portieri, che sono i primi costruttori di gioco, i primi sostegni all’azione offensiva.

Il secondo principio è quello dell’ampiezza. L’abbiamo visto studiando le squadre europee: per attaccare meglio bisogna sfruttare il campo tentando di allargare le difese avversarie. Il principio prevede che ci sia un giocatore in ampiezza indipendentemente dal ruolo. Quindi non c’è più l’ala classica che deve restare larga. Se l’ala fa un taglio, per portarsi in zona di rifinitura, sull’esterno dovrà andare naturalmente la mezzala o il terzino, al di là dello schema utilizzato in quel momento.

Il terzo step consiste nel presidiare molto la zona di rifinitura. È una grossa novità per noi, che per anni abbiamo ucciso i trequartisti, e in questo noi allenatori innamorati del 4-4-2 abbiamo delle colpe. Ora la zona di rifinitura, o trequarti avversaria, è così importante che non portiamo solo il trequartista, che presidia la zona in modo naturale. In rifinitura può andare la mezzala che sale tra le linee, l’ala che con un taglio entra nel campo, o la seconda punta che si abbassa sfilandosi dalla marcatura.

Infine, la profondità, ovvero il numero di giocatori che attaccano l’ultima linea avversaria. C’è una tendenza, anche nel calcio italiano, di squadre che giocano un po’ di più la palla, ma vanno poco in profondità, c’è poca ricerca della porta. Stiamo facendo un lavoro sull’attacco alla profondità, sull’avere un buon numero di giocatori che attaccano l’ultima linea. Perché al momento in Italia, se faccio una fotografia di come giocano le squadre giovanili, vedo uno squilibrio tra il numero di giocatori che difendono rispetto al numero di giocatori che attaccano. Noi attacchiamo attualmente con due, massimo tre giocatori. Le squadre europee che abbiamo osservato portano 5 giocatori in attacco di linea.

Qual è il grande vantaggio del giocare per princìpi? In primis per le squadre nazionali, siccome non c’è tempo di memorizzare un certo numero di schemi, il giocatore si sente più libero se agisce seguendo dei princìpi guida. Secondo grande vantaggio: creo un giocatore più intelligente, più pensante, sicuramente più duttile. Quindi più pronto ad agire nel sistema di gioco che sarà in voga nel 2026. Perché io oggi non so se nel 2026 giocheremo col 3-3-1-3, mentre io per anni ho allenato il 4-4-2. Io devo creare un giocatore adattabile dal punto di vista del sistema di gioco e lo posso fare solo per princìpi, non per schemi.

È una rivoluzione che sta già pagando, perché abbiamo già giocatori più vivi e più protagonisti sul campo».

C’è un giocatore precursore, che si è già formato secondo questi nuovi canoni? Penso ad un giocatore che ha fatto la trafila in tutte le squadre giovanili come Rolando Mandragora. Lei pensa a qualcun altro?

«In Under 21 Mandragora ha fatto il centrocampista centrale, ma anche il difensore centrale o la mezzala. È un ragazzo che ha sicuramente dimostrato grande duttilità. Più in generale, secondo me il calciatore moderno dev’essere in grado di comportarsi in base alla zona di campo che occupa e non in base al ruolo che gli viene affidato. Se un’ala destra in fase di rientro si ritrova a fare il terzino, deve saperlo fare. Se un centravanti in fase di rifinitura si stacca dalla marcatura, deve saper mettere una palla filtrante. Penso che il calcio del futuro è fatto di zone di campo nelle quali i giocatori deve sapersi muovere.

Questo non significa che i giocatori devono saper far tutto. L’ala continuerà ad essere molto brava quando avrà la possibilità di lavorare sulla riga. Ma l’ala che resta nella stessa zona tutta la partita può essere anche facilmente marcabile. Quindi deve saper venire tra le linee o deve saper andare in profondità senza palla. Il senso del ruolo va rivisto: bisogna sapersi muovere preferibilmente in una zona di campo, ma saper interpretare anche altre zone.

Già oggi in Italia ci sono allenatori di club che chiedono ai propri calciatori di occupare zone diverse del campo in fasi diverse. È un bene. Per me il concetto di calcio totale è voler giocare in tutte le fasi. Molto spesso manca questa volontà. In Italia trovo ancora difensori che non vogliono costruire, o trovo attaccanti che non vogliono difendere. Quindi il primo problema è voler fare entrambe le fasi, il secondo è saperle fare. Ovvero interpretare gli spazi e i compiti in maniera di volta in volta differente.

In Europa il calcio totale è un’esigenza. Questo Mondiale, ad esempio, potrebbe essere stato diseducativo. Perché ci son state squadre che hanno vinto partite, superato il turno, eliminato grandi nazionali, giocando un calcio molto chiuso, molto difensivo, solo sulla ripartenza. Non è un calcio che può migliorare i giovani, i ragazzi non posso giocare un calcio speculativo, difensivo, passivo.

In un campionato intero la squadra che gioca al calcio vince, non puoi sperare di giocare un calcio passivo per un’intera stagione. Il Mondiale non deve essere più preso come punto di riferimento per fare una valutazione tattica dell’evoluzione del calcio. Perché le nazionali sono ricche di giocatori ma non di gioco perché stanno poco insieme. La misura dell’evoluzione del calcio la offre la Champions League, e le grandi manifestazioni per club. Attenzione a non trarre indicazioni da partite secche, all’interno di un torneo breve e non di un campionato».

Ma i nostri club sono tutti concordi su cosa sia o non sia un gioco formativo per un ragazzo?

«C’è una grande convergenza su cosa sia davvero formativo. Negli ultimi due anni ho notato una grande virata verso un calcio propositivo, per il quale si cerca di giocare di più la palla. Poi ci sono determinati momenti in una stagione in cui si gioca più sotto la pressione del risultato, avviene ad esempio per le squadre coinvolte nella lotta per non retrocedere nella Primavera 1.

Qualche allenatore sente così tanto la pressione che invita i difensori a calciare in avanti, piuttosto che tentare l’uscita palla a terra dalla difesa. C’è ancora la paura di giocare un calcio tecnico, e non è educativo. Però al tempo stesso se devo fare una fotografia su quello che sta accadendo, penso che a livello giovanile ci sia stata una virata generale verso un calcio propositivo».

Gareth Southgate è da considerarsi lui stesso un prodotto del sistema formativo inglese, mente in Italia continuiamo ad affidarci a uomini con una forte esperienza maturata fuori dai quadri federali. In futuro dobbiamo aspettarci un cambiamento di stile?

«La mission che la federazione ha affidato a me, come coordinatore tecnico, e a tutta la struttura non comprende solo l’idea di migliorare i giovani attraverso le esperienze internazionali, ma anche quella di ritornare ad essere la cantera degli allenatori.

Anche se solo come traghettatore per due partite, siamo riusciti a proporre Gigi Di Biagio alla guida della Nazionale A, vent’anni dopo Cesare Maldini. La Federazione pensa che un allenatore che cresce nelle nazionali giovanili maturi esperienze che possano portarlo ad allenare la maggiore, senza risentire delle difficoltà del cambio di lavoro tra il quotidiano di un club e quello meno continuativo che si ha in Nazionale. Non è vero però che abbiamo smesso del tutto di formare allenatori: faccio gli esempi di Alessandro Pane, che è entrato nello staff di Spalletti, e Emiliano Bigica, che allenerà la Primavera della Fiorentina».

Come si lavora con le statistiche in Nazionale?

«Io credo molto nei dati, nella misura in cui c’è competenza e capacità in chi li elabora. Un esempio: che una squadra faccia 800 passaggi non mi dice nulla, a me interessano di più i passaggi filtranti, quelli che vengono chiamati passaggi chiave. Il possesso palla non mi dice nulla, mi interessa il possesso fatto nella metà campo avversaria. Il recupero palla è interessante solo se associato alle zone di campo e alle modalità in cui avviene. Anche il possesso palla offensivo è ancora più interessante se legato a un indice di pericolosità.

Ci crediamo, stiamo studiando come leggerli in modo utile. Dobbiamo andare sulla qualità, non sulla quantità, anche per questo aspetto».

Dal vostro punto di vista i club italiani stanno facendo di tutto per aggiornare le proprie competenze (con analisti ad esempio) o siamo ancora indietro?

«Come Federazione siamo stati apripista con il primo corso federale per match analysts, siamo stati i primi a livello europeo. Stiamo creando e formando delle figure professionali ad hoc. Le società si stanno dotando dei match analyst, alcuni allenatori li hanno nello staff, altre società li hanno incorporati nei loro quadri.

Come sempre: c’è società e società, ci sono realtà diverse, divise da una forbice economica sostanziale, tra chi ha mezzi notevoli e può permettersi certe figure e chi non può permettersele. Però un miglioramento da questo punto di vista c’è, anche perché ci sono giovani con un approccio più analitico al calcio, più orientato alle statistiche, che stanno portando il loro fondamentale contributo.

La statistica per me più interessante è l’Indice di Pericolosità, perché non vorrei che passasse l’idea di un “guardiolismo” distorto, in cui il possesso palla è un valore fine a se stesso. A noi interessa un calcio offensivo, il cui obiettivo sia fare gol».

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