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Come sta reagendo il calcio al conflitto israelo-palestinese
24 ott 2023
La questione si è sollevata anche nel mondo del calcio.
(articolo)
11 min
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IMAGO / Shutterstock
(copertina) IMAGO / Shutterstock
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Lo sfondo nero, la telecamera stretta in maniera claustrofobica sul viso, le parole anestetizzate da qualsiasi possibile controversia: è un video talmente innaturale da far sospettare che fosse stato generato da un’intelligenza artificiale. Mohamed Salah, in un breve reel pubblicato sui propri social la scorsa settimana, parla della recente escalation di violenza e orrore nella striscia di Gaza, ma più che dal suo discorso (in cui utilizza la parola “Gaza” solo due volte e in cui non viene mai citato Israele) lo si capisce dalla cascata di notizie drammatiche che ci sono arrivate negli ultimi giorni e dalla fama che precede il calciatore egiziano.

Mohamed Salah è di gran lunga il calciatore più famoso e influente di tutto il Nord Africa e del Medio Oriente, uno dei suoi soprannomi è “l’orgoglio degli arabi”. Nelle ultime elezioni presidenziali in Egitto, nel 2018, è stata la persona più votata dopo il presidente Abdel Fattah al-Sisi nonostante naturalmente non fosse davvero candidato. Si è stimato che Salah abbia preso circa il doppio dei voti del principale avversario di al-Sisi in quella tornata elettorale. Un suo intervento sugli ultimi eventi che hanno riguardato la striscia di Gaza, quindi, era atteso alla stregua di quello di un leader politico o religioso in tutti i Paesi a maggioranza araba, dove la questione palestinese è al cuore di ogni discorso politico. Ovviamente in Egitto, parte molto in causa del conflitto dopo che una delle ipotesi di questi giorni ha riguardato il deflusso di massa della popolazione palestinese nella penisola del Sinai (che per l’appunto è territorio egiziano), ma anche in Siria, in Libano, in Algeria, in Marocco, e così via.

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Di fronte a questa pressione gigantesca, Salah si è preso qualche giorno e poi, dopo aver fatto una significativa donazione alla Mezzaluna Rossa, ha scelto le sue parole con cura, come un Presidente della Repubblica in un momento di crisi. Nel video dice che «tutte le vite sono sacre e devono essere protette», che «gli aiuti umanitari devono essere fatti entrare a Gaza immediatamente» e si appella ai leader del mondo per prevenire «ulteriori massacri di anime innocenti». Secondo The Athletic, non è stato semplice girare questo video di nemmeno un minuto e ci sono voluti diversi tentativi. La paura di dire qualcosa che potesse essere frainteso in un senso o nell’altro deve essere stata terribile.

Per chi si ricorda gli inizi della carriera di Salah questa cautela deve essere sembrata strana. Arrivato in Europa nel 2012, cioè nel bel mezzo della Primavera Araba che stava sconvolgendo l’Egitto, Salah aveva dimostrato di avere una sua coscienza politica particolarmente spiccata. Al Basilea aveva fatto scoppiare una crisi diplomatica durante i preliminari di Champions League della stagione 2013/14, dopo che la squadra svizzera era stata sorteggiata con il Maccabi Tel Aviv. All’andata, durante la rituale stretta di mano tra le due squadre, si era tirato fuori dalla fila per allacciarsi le scarpe, facendo scoppiare un primo caso mediatico. Pressato dalla propria base di fan, aveva addirittura pensato di rifiutarsi di giocare il ritorno, prima di volare in Israele e contravvenire nuovamente al rito delle strette di mano pre-partita, offrendo un pugno chiuso ai giocatori del Maccabi. Il giorno dopo quella partita, durante la quale verrà fischiato continuamente da tutto lo stadio, Salah era andato nella città vecchia di Gerusalemme a pregare nella moschea di al-Aqsa, simbolicamente molto importante per i palestinesi.

Quell’incidente gli verrà ricordato varie volte negli anni successivi. Passato al Chelsea, l’allora allenatore José Mourinho si disse «più che pronto ad aiutarlo», come se Salah avesse un qualche problema psicologico. Durante la conferenza stampa di presentazione dopo il suo passaggio in prestito alla Fiorentina, un giornalista tornò sull’accaduto rimproverando alla Viola di non aver rispettato la linea societaria che imponeva l’acquisto di giocatori con «grandi qualità morali». Ancora prima di passare alla Roma, il presidente dell’associazione Maccabi Italia (un’organizzazione che coordina le associazioni sportive ebraiche in Italia) aveva invece twittato sul proprio account: «Noi ebrei come potremmo continuare a tifare Roma se dovesse ingaggiare un antisemita?». La comunità ebraica, attraverso le parole del suo assessore alle relazioni esterne, aveva fatto sapere in quegli stessi giorni che sarebbe rimasta vigile nei confronti dei suoi «comportamenti etici e morali». Nei 10 anni che hanno seguito quella partita, insomma, Salah ha imparato quanto possa essere pericoloso per un calciatore professionista esprimere un’opinione sul conflitto arabo-israeliano in Europa. E la paura che ha appesantito la sua decisione di fare un video a riguardo in questi giorni deriva da quell’insegnamento, che lo ha portato negli anni a far sparire qualsiasi controversia politica intorno alla sua figura e a curare in maniera certosina la sua immagine da icona del calcio europeo, spesso anche al costo di creare qualche malumore tra la sua base di fan arabi e/o musulmani (per esempio mostrandosi intento a festeggiare il Natale, cosa che secondo i più conservatori tra i suoi follower un buon musulmano non dovrebbe fare).

Se Salah è diventato uno dei giocatori più importanti della nostra epoca, insomma, è anche perché conosce bene il terrore atavico del calcio europeo di parlare dell’argomento. Le autorità sportive a tutti i livelli utilizzano la propria neutralità come scudo per mantenere un minimo di indipendenza dalle istituzioni politiche dei rispettivi Paesi ma il conflitto arabo-israeliano è uno sport a parte. È uno dei grandi tabù del discorso politico occidentale e nessun dirigente sano di mente in Europa vorrebbe che un suo calciatore ne parlasse apertamente, soprattutto sostenendo ragioni anche solo vagamente contrarie agli interessi di Israele. Lo stesso Salah, dopo questo video, ha perso più di un milione di follower su Facebook nell’arco di un weekend, per dire.

Eppure dopo i Mondiali in Qatar, che hanno spinto molte opinioni pubbliche europee a chiedere alle proprie Nazionali una presa di posizione sulla situazione dei diritti umani nel Paese, e soprattutto la guerra in Ucraina, con lo sport europeo alle prese con l’espulsione della Russia e le manifestazioni di solidarietà nei confronti di Kiev, il contesto sembra leggermente cambiato. Intorno allo sport, persino intorno al calcio, c’è un’urgenza nuova affinché i giocatori e le istituzioni intervengano sui grandi temi che riguardano il mondo. E nessun tema è più grande al mondo del conflitto arabo-israeliano.

La FA (la federazione inglese di calcio), di fronte alle atrocità commesse nella striscia di Gaza, per esempio, ha sentito il bisogno di fare qualcosa. Prima dell’amichevole di Wembley contro l’Australia ha vagliato la proposta di proiettare sull’arco che troneggia sullo stadio il bianco e l’azzurro della bandiera israeliana, come aveva fatto l’anno scorso con il giallo e l’azzurro della bandiera ucraina, ma alla fine l’ha ritenuta troppo controversa, mandando su tutte le furie alcuni membri della comunità ebraica d’Inghilterra. La FA ha deciso di vietare dentro lo stadio sia le bandiere israeliane che quelle palestinesi, optando per il protocollo che si applica per le grandi tragedie, cioè il lutto al braccio delle squadre e il minuto di silenzio prima della partita. Comunque meglio di ciò che ha fatto pochi giorni dopo la UEFA, che per la partita tra Inghilterra e Italia ha imposto a sua volta un minuto di silenzio (fischiato da Wembley) dedicato in maniera ambigua alla "memoria dei membri della famiglia del calcio europeo uccisi in questi ultimi giorni in Europa e Israele" (il riferimento era anche all'attentato terroristico avvenuto poco prima di Belgio-Svezia, in cui avevano perso la vita due cittadini svedesi). L’ennesima conferma che lo sport, di fronte a temi politici troppo controversi, ha una libertà di manovra sostanzialmente limitata.

Anche la Premier League, forse ispirata proprio dalla FA, ha deciso di intervenire sull’argomento, condannando in maniera generica “i raccapriccianti e brutali atti di violenza contro i civili innocenti” con il risultato di scontentare tutte le parti in causa. L’unico calciatore israeliano del campionato inglese, Manor Solomon, ha definito il comunicato “vanilla” (ovvero “un tentativo di dire qualcosa senza riuscirci”, come ha scritto Rory Smith nella sua newsletter) e al canale TV israeliano Sport 5 ha dichiarato di aver chiesto chiarimenti sia al Tottenham che alla stessa Premier League. «Tutti sembrano spaventati da ciò che gli potrebbe accadere e quindi preferiscono non essere coinvolti», ha detto.

In realtà, però, i calciatori sono sembrati meno spaventati del solito. Rimanendo in Premier League, per esempio, si possono fare almeno altri due nomi di giocatori che hanno preso la parola sull’argomento. Da una parte Oleksandr Zinchenko, che nelle proprie stories di Instagram ha pubblicato una stella di David con sopra la scritta “I stand with Israel” (prima di rimuovere il post e rendere privato temporaneamente il proprio profilo); dall’altra il suo compagno di squadra Mohamed Elneny (tra l’altro compagno di squadra di Salah al Basilea durante quella notte a Tel Aviv di dieci anni fa), che ha cambiato la sua immagine profilo mettendo la foto di una bandiera palestinese. Non deve essere un momento facile per lo spogliatoio dell’Arsenal.

Nell’Europa continentale la situazione è andata un bel po’ oltre qualche commento indignato su Instagram. Il terzino marocchino del Bayern Monaco, Noussair Mazraoui, ha pubblicato un video in cui una voce esterna chiede a Dio di aiutare “i nostri fratelli oppressi in Palestina, affinché ottengano la vittoria”, e di “concedere la grazia ai morti” e “guarire i feriti”, scatenando un vespaio. Il deputato della CDU, Johannes Steiniger, per esempio, ha chiesto al Bayern di espellere il suo giocatore, mentre la stampa locale bavarese lo ha accusato di supportare il terrorismo. Il Bayern, dopo averlo convocato a colloquio, ha deciso di non prendere misure disciplinari non prima però di pubblicare un comunicato in cui ci ha tenuto a specificare di “essere dalla parte di Israele”. Peggio è andato ad Anwar El Ghazi, centrocampista olandese di origini marocchine, che per ragioni simili è stato invece sospeso dal Mainz. Secondo The Athletic, la ragione della sospensione è stato un post che includeva lo slogan “dal fiume al mare”, che i nazionalisti palestinesi utilizzano per rivendicare un proprio stato che includa anche il territorio di Israele (e il cui utilizzo in Germania è perseguibile a livello penale).

La situazione è ancora più delicata in Francia, dove il recente e doloroso passato con il terrorismo (tornato di attualità dopo l'omicidio di un professore in una scuola della periferia di Parigi) e la presenza di grandi comunità arabe rende tutto più complicato. Ha fatto molto rumore, ad esempio, la sospensione da parte del Nizza del terzino algerino Youcef Atal, per la pubblicazione di un video su Instagram di cui è difficile adesso ricostruire il contenuto. Atal successivamente ha cancellato il video e sui propri social ha pubblicato un messaggio di scuse, ma questo non è bastato. «Vista la natura e la serietà di ciò che è stato pubblicato», come si legge nel comunicato del club, il Nizza ha comunque deciso di agire nei suoi confronti e ciò che è più serio è che abbiano deciso di fare lo stesso anche le autorità francesi. Al momento, infatti, il giocatore è indagato per incitamento all’odio e alla violenza di stampo religioso.

Ancora più clamorosi sono i fatti che hanno riguardato quello che è a tutti gli effetti il calciatore francese più forte e rappresentativo degli ultimi vent’anni. Lo scorso 15 ottobre Karim Benzema ha scritto un tweet in cui rivolgeva «tutte le nostre preghiere per gli abitanti di Gaza, ancora una volta vittime di questi ingiusti bombardamenti che non risparmiano né donne né bambini». Sembrava poco più di un messaggio di solidarietà nei confronti di una tragedia in corso, ma lo sappiamo: Benzema non è un calciatore qualsiasi in Francia, dove poco gli è stato perdonato durante la sua carriera.

È stata soprattutto la classe politica francese a non prendere bene le parole di Benzema. La deputata repubblicana Valérie Boyer ha chiesto che gli venga tolto il passaporto e revocato il Pallone d’Oro vinto l’anno scorso, e il ministro degli interni del governo di Parigi, Gerald Darmanin, lo ha accusato di avere «noti legami con la Fratellanza Musulmana», una delle più importanti organizzazioni di tutto il Medio Oriente del cosiddetto Islam politico (e da cui alla fine degli anni ’80 in Palestina nacque Hamas). Come riportato da Pallonate in Faccia, pochi giorni dopo lo staff del ministro francese ha confermato le accuse spiegando a RMC Sport perché sarebbero fondate. E i motivi sono di questo tenore: Benzema non vuole cantare la Marsigliese in Nazionale, fa proselitismo sui social, mette like su Instagram ai post di Nurmagomedov sulla pubblicazione delle caricature di Maometto sulla stampa francese.

Difficile dire se Darmanin abbia davvero delle prove di un qualche coinvolgimento terroristico da parte di Benzema, di certo le sue parole non aiutano a diradare l’impressione che le classi politiche europee non abbiano alcuna voglia di andare oltre un’ostinata intransigenza su un tema che è a cuore a una parte sempre più consistente della popolazione europea, e che forse avrebbe bisogno di una comprensione più profonda. Non sembra cambiato molto rispetto a dieci anni fa, quando Salah era solo un talento in rampa di lancio in Svizzera e Benzema doveva ancora vincere la sua prima Champions League. Nel frattempo entrambi hanno segnato la storia del calcio europeo eppure nemmeno questo è bastato affinché potessero esprimere le proprie opinioni senza la paura di una qualche ripercussione.

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