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Coming home
22 lug 2016
Dopo LeBron James, tornare a casa è diventata la nuova epica della NBA.
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L’attesa era spasmodica. Esplosioni, combattimenti, inseguimenti mozzafiato nello spazio più profondo. Poi questo caleidoscopio impazzito si ferma per un’istante ed entrano in scena i nostri eroi preferiti: “Chewie we’re home”.

Solamente a sentire quelle parole uscire dalla bocca di Ian Solo tutti abbiamo sentito le lacrime salire veloci dalle ghiandole fino a riempirci le palpebre di malinconia. Anche fuori da un contesto prettamente narrativo come quello di un trailer cinematografico ci sono parole che fanno tremare più di altre. La mitologia del Millennium Falcon rappresenta perfettamente il senso del ritorno a casa: non è solo un cavillo toponomastico, è un viaggio indietro nel tempo, un salto nell’iperspazio tra i bivi della nostra vita che ci hanno riportato immancabilmente alla casella del Via.

Che sia frutto una precisa scelta, il coronamento di un lungo inseguimento o il doloroso segno della sconfitta, in ogni ritorno che si rispetti c’è sempre un pizzico di nostalgia, torte fatte in casa e notti insonni rigirandosi tra le lenzuola ripetendosi “Cosa sarebbe la mia vita se non avessi mai lasciato la mia cameretta?”.

Le stesse domande che affliggevano Ulisse mentre giaceva con gli occhi spalancati in una tenda sull’altopiano di Ilio. Mentre stava architettando il celebre Cavallo, l’Acheo già programmava anche il suo viaggio di ritorno - impresa non banale in un’epoca in cui Ryanair ancora non serviva le isole egee. Così appena i greci vinsero la guerra, Omero, fiutando il colpaccio, mise sotto contratto l’eroe all’epoca free agent per una faraonica produzione, una serie tv di dieci stagioni che lo avrebbe portato a zigzagare per il Mediterraneo prima di tornare sulla sua amata Itaca. Il successo fu travolgente, tutti i popoli indoeuropei vollero sapere come Odisseo (come si faceva chiamare) sarebbe riuscito a scappare dalla caverna di Polifemo o come avrebbe resistito alla tentazione della carne delle Sirene. Nacquero così le Prime Guerre di Spoiler e i nostoi (i ritorni, in greco, ndr) si affermarono come modello narrativo di riferimento. Un dominio praticamente incontrastato fino ai nostri giorni.

South Beach, luglio 2014. Le stesse domande di Ulisse tormentano anche un altro eroe mitologico, LeBron Raymone James, mentre non riesce a trovare il sonno dei giusti nel suo letto King Size. Il caldo afoso della Florida lo costringe ad ascoltare fino a tarda notte il suo subconscio e ciò che gli sussurra non è esattamente il rumore del mare. La mattina seguente, con dei vistosi occhiali da sole a coprire le occhiaie, mette i piedi nella dorata sabbia della sua spiaggia privata. Ha con sé una copia dell’Inferno di Dante come ha visto fare a Don Draper in una replica di Mad Men che l’AMC passava a tarda notte. Apre a caso al XXVI canto, sfoglia svogliato qualche pagina. All’improvviso la sua manona destra si ferma. Non crede ai suoi stanchi occhi, il poeta fiorentino sembra rispondere a tutti i suoi dubbi: lui non è fatto per vivere a Miami come un bruto, deve inseguire l’umano desiderio del limite estremo. Deve tornare a casa per regalare un titolo al popolo di Cleveland.

In Ithaca nothing is given, everything is earned

Il resto, come si suol dire, è epica. Conosciamo a menadito le evoluzioni del novello Odisseo di Akron, di tutte le Scilla e Cariddi che ha dovuto superare una volta abbandonati i suoi fidi compagni sulle coste sabbiose della Florida, delle maledizioni che ha dovuto spezzare e di tutti i nemici che ha dovuto sconfiggere. Ma il bello di queste grandi narrazioni è che di solito finiscono bene e così, come Ulisse, anche LeBron quest’estate ha concluso il suo trionfale ritorno sconfiggendo i proci di Golden State. E tutti in Ohio sono andati da Penelope a farsi ricucire le loro canotte con il 23.

L’aspetto collaterale che accade quando si azzecca il format è stimolare il desiderio d’emulazione. Affianco al successo planetario (almeno fino alle colonne d’Ercole) dell’Odissea naquero un’infinità di epigoni, spesso incentrati su personaggi minori della mitologia greca. Non stupisce quindi che neanche un mese dopo l’incoronazione di James molti giocatori abbiano deciso in qualche modo di emularlo, ripercorrendo i sentieri delle proprie vite fino a tornare ai luoghi che chiamano casa dando ulteriore conferma di come i nostoi siano ancora drammaturgicamente dominanti - e di come questo Omero, che faceva tanto il cieco, alla fine ci abbia visto benissimo.

Dwyane Wade

Il figliol prodigo del vento

Englewood, Zona 65, South Side Chicago. Cioè, sulla carta si legge Chicago, le persone che ci vivono la chiamano in un solo modo: Chi-Raq. È la crasi tra il suffisso cittadino, Chi, e la rotacizzazione di Iraq. Serve a ricordare che da quando gli Stati Uniti sono in guerra in Medio Oriente sono morti più civili qui, a Chiraq, che soldati lì, in Iraq. Serve a ricordare che quando si scende in strada si scende in guerra. In questo far-west di faide tra gang - secondo il più trito cliché “della merda & dei diamanti” - ovviamente sono nati tra i più lucenti talenti della palla arancione. Nel giro di pochi chilometri quadrati nell’ultima decade sui playground della Chitown più cupa e povera si sono succeduti giocatori come Derrick Rose, Anthony Davis, Jabari Parker e ovviamente lui, Dwyane Wade.

Madre tossicodipendente, padre assente, l’unica figura autoritaria nella vita del giovane Dwyane era quella divinità pagana che gioca allo United Center con la maglia numero 23. Provateci voi a crescere in quel contesto e a non sognare di arrivare un giorno a sentire il proprio nome chiamato dalla voce di Ray Clay sotto l’ipnotica base di Alan Parsons. No, non è possibile. “Sono cresciuto idolizzando Michael Jordan e i Bulls” ammetterà in una delle prime interviste dopo la firma. Lo si era capito già da tempo Dwyane, tipo da quando hai vinto un anello a 24 anni chiudendo le Finals a 34.7 punti di media, una tra le migliori interpretazioni Jordanesche apocrife. O dall’attitudine da serial killer con la quale azzanni i finali di partita, un’attitudine che neanche la friabilità delle ginocchia ha intaccato.

Difficile non pensare che la decisione di LeBron non abbia avuto una diretta ripercussione su quella di D-Wade, possibile anche che il Prescelto gli abbia passato qualche lettura sulla mitologia greca o al massimo il blu-ray di Troy. Ma le due non potrebbero essere più diverse. Se LeBron ha rappresentato il salvatore per un intero stato, la scelta di Dwyane è più personale: è come se si fosse sentito in dovere di occupare l’armadietto deputato al figlio eletto della Chitown ora che Rose è sfiorito verso la Grande Mela. Perché c’è sempre un certo senso di predestinazione in ogni ritorno a casa, un essere stati investiti da una missione speciale a cui una legge universale a cui tutti dobbiamo obbedire.

Esempio di chicagoani in missione

Come i salmoni nella stagione dell’accoppiamento, Wade ha risalito il continente nordamericano dai tropici della Florida al freezer della Windy City. Nel caso ci ripensasse a Miami hanno comprato una pagina di giornale per ricordargli che per lui ci sarà sempre una chiave sotto lo zerbino, anche solo avesse voglia di un weekend romantico sotto le palme, magari sventolate da Pat Riley mentre recita il mea culpa. L’inverno chicagoano sarà mitigato dallo stipendio più alto percepito in carriera, da spendere come più lo aggrada scegliendo tra cappotti di pelliccia e cappelli con il copriorecchie in lana caprina. Più difficile sarà sopravvivere alla lotta tra lupi solitari nel backcourt con Butler e Rondo - ma si sa, il cuore conosce ragioni che lo spacing non conosce.

Jeff Teague

Should I Stay or Should I Go

Proprio mentre iniziavo a scrivere questo pezzo, Nexflix ha deciso che il weekend successivo non lo avrei trascorso nel caldo afoso di luglio ma a Hawkins, una cittadina inventata dell’Indiana, nella prossimità del Santo Natale 1982. Otto puntate di Stranger Things dopo avevo la testa che girava a duemila e fissavo con terrore il muro alle mie spalle, ma volevo immediatamente risalire su quella giostra spielberg/carpentiana della mia adolescenza nonostante avessi finito i nichelini e il bigliettaio mi indicava minaccioso i libri del mio prossimo esame ammucchiati sulla scrivania. La nostalgia ha un grosso effetto collaterale: crea dipendenza. Bisognerebbe assumerla in piccole dosi, evitando l’endovena del bingewatching, ma solo poche eroiche persone riescono nell’impresa. Io, ovviamente, non sono tra quelle.

In posa fetale sul divano ho però partorito i seguenti concetti che vado ora ad elencare. Punto primo: ogni casa in una cittadina inventata assomiglia ad ogni altra casa in un’altra cittadina inventata, e provarle a distinguere è sforzo inutile. Punto secondo: tutte le suddette case hanno uno scantinato che all’occorrenza diventa un mondo parallelo dove rifugiarsi per giocare a D&D o per organizzare avventure. È un luogo magico, in cui i grandi non possono entrare e in cui l’amicizia dura per sempre. Ammetto di aver subito il fascino - essendo vissuto solo dentro appartamenti in città - della suburbia da attraversare in bmx, dei canestri nel giardinetto davanti casa, dei barbecue selvaggi, delle birre in lattina, e a quanto pare non sono il solo.

Durante un’intervista successiva alla trade che da Atlanta lo ha rispedito a Indianapolis, Jeff Teague ha candidamente ammesso che non si troverà una nuova casa ma tornerà ad abitare dai suoi genitori. Quando l’intervistatore ha scherzosamente chiesto per quanto tempo resterà lì, Teague tutto serio ha risposto “l’intera stagione”, perchè quando ha firmato il prolungamento con Atlanta ha anche lasciato la villa alla famiglia e ora per non disturbare si accomoderà nello scantinato.

Jeff Teague ha sofferto per tutta la sua carriera del morbo dell’anti-narrazione ed essere stato per otto anni il playmaker della squadra più spersonalizzante della lega non ha di certo aiutato. Il sistema di Mike Budenholzer era un orologio svizzero in cui ogni ingranaggio rimaneva sotto l’uniforme del collettivo, un coro bianco senza solisti, un monastero trappista senza birra. E Teague si è sempre nascosto volentieri, facendo bene tutto ma nulla benissimo. Un giocatore di basket normale in un’epoca di playmaker dalla realtà aumentata. Negli ultimi tempi però Jeff ha lanciato una seria candidatura come nuovo “playmaker più sottovalutato della lega”, titolo oramai lasciato vacante da Mike Conley e dal contratto più remunerativo della storia della NBA, e premeva per una trade con un post su Instagram passivo-aggressivo. Poi, dopo l’ennesima personale reinterpretazione di Macauly Culkin, gli Hawks hanno davvero lasciato Teague a casa. Precisamente nel sottoscala.

Anche se mancava da Indianapolis dai tempi del liceo, lo spirito di Basket City non aveva mai abbandonato il suo corpo, tatuandosi in forma di prefisso telefonico sul suo avambraccio. Il 317 non sarà cool come il 206 di Seattle ma ha lo stesso significato, telefono-casa. JT ha finalmente coronato il suo sogno: giocare con Paul George, fondare un AV Club e passare le notti guardando i Goonies e ingoiando Eggies fino a scoppiare. Dovrà solo stare molto attento a non fare rumore quando tornerà tardi la sera.

Dwight Howard

Young Adult

Dwight era il tipo più fico del liceo: lo vedevi sempre appoggiato alla sua motocicletta cromata a parlare con le tue compagne di classe mentre metteva in bella mostra i suoi bicipiti. Invidiavi la sua aura da intoccabile, il suo sorriso che conquistava tutti e che gli faceva scampare i compiti in classe più insidiosi. Detestavi vederlo eccellere in ogni disciplina sportiva, con quelle scarpe firmate che neanche pagava, mentre tu non riuscivi ad entrare in nessuna nelle squadre della scuola e ti toccava rimanere a bordocampo. Sarà un campione, sentivi mormorare tra i corridoi, ci sono squadre professionistiche pronte a ricoprirlo d’oro già adesso. E avevano ragione.

Howard saltò con il mantello di Superman oltre il college e atterrò nel pitturato di Orlando, finalmente a battagliare con giganti dallo stesso suo tonnellaggio. Rimbalzo su rimbalzo, schiacciata dopo schiacciata, stoppata dopo stoppata, Dwight diventò il più fico anche di quel liceo enorme che chiamano NBA. Quando i Magic arrivarono fino alle Finals aggrappate alle sue spalle fatte di muscoli impilati come palline del gelato, tutti tifavano per questo supereroe sorridente che andava a sfidare i Lakers di Kobe Bryant. Erano le prime finali dopo l’addio di Shaq e Dwight era il suo il sostituto designato, un ruolo che prese troppo seriamente finendo anche lui per tradire Disneyland con la Città degli Angeli.

Improvvisamente tutti si resero conto che non era né dominante come Shaq, né divertente come Shaq. Assomigliava più ad un gigantesco orsacchiotto di peluche usato come sacca da pugile. Destro, Sinistro, Gancio, Montante. Quando anche James Harden si permette di questuare il tuo approcio, sai che c’è solo un posto dove andare. Casa.

Ora Dwight lo vedi i weekend che torni a trovare i tuoi genitori appoggiato alla stessa moto con le cromature arruginite davanti al bar sulla piazza a fare le stesse battute a cui tutti ridevano anni fa. Ora sono rimasti in pochi, molti dei quali hanno ancora le felpe del tuo stesso liceo. Dwight ti riconosce immediatamente appena incrocia il suo sguardo con il tuo e agita la manona come se stesse cercando di ricevere la palla dal Barba. Ti irrigidisci: non ti aveva mai degnato di un saluto finora. Lui dice di essere cambiato, che questo è un nuovo inizio, che aveva bisogno dell’aria di casa. Ti sembra quasi di cogliere del rossore nelle sue iridi, ma non ci giureresti. È sempre alto buoni sessanta centimetri più di te.

E ti viene voglia di fuggire il più lontano possibile

Disperatamente studi la soluzione per sgusciare via da quell’icombenza da centoventi chili ma la tua attività fisica negli ultimi anni si è limitata a qualche corsetta serale nel parco. Tenti un passo di incrocio, improvvisi un eurostep. Tutto inutile. Se vuoi tornare al top devi tornare alle tue radici. Annuisci e cerchi aiuto con la coda dell’occhio. In un lampo però la sua attenzione scema bruscamente e per un attimo diventi un rollante qualsiasi.

Ne approfitti per fargli i più sinceri auguri mentre sposti il peso del tuo corpo oltre il suo. Anche te, man, dice ormai già di nuovo voltato verso i suoi compagni, anche te. Non invidi più Howard, non lo detesti più. La scuola è finita anni fa, è tempo di voltare pagina. Ti appunti che vorresti portargli un pacco di Oreo la prossima volta che passi in città. Lo cancelli subito dopo.

Joakim Noah

Superfly

Never a dude like this one! He's got a plan to stick it to The Man! All He Needed Was One Last Deal… No, non si tratta di una carrellata veloce sui titoli dei tabloid newyorkesi il giorno dopo la firma del quadriennale da 72 milioni che lo legherà ai Knicks. Si deve andare più indietro nel tempo, prima che papà Yannick vincesse il suo Roland Garros, prima ancora che suo figlio Joakim trionfasse per due volte consecutive alle Final Four e diventasse l’anima freak dei tori di Thibodeau. No, queste sono le tagline che accompagnavano il cartellone promozionale di un film che diventerà uno dei più rappresentativi, dei più citati e più celebrati esempi della blaxesploitation.

Correva l’anno 1972 e all’angolo di ogni palazzo di Harlem c’era lui, Ron O’Neal: doppio petto, baffoni e Fedora d’ordinanza a ricordarvi che il film da vedere, quest’estate, è Superfly. Dalle finestre aperte delle case gli ottoni spianati e il falsetto di Curtis Mayfield rendono l’aria ancor più gommosa e irrespirabile. Ai giocatori che affollano il vicino campo da basket in cemento non sembra però interessare molto il livello del mercurio nel termometro, perché le sfide qui si susseguono a ritmo infernale giorno e notte. Attorno si muove una gigantesca coreografia di puttane, protettori, spacciatori e giocatori di dadi, sembra che tutti aspettino che da un momento all’altro passi Ron O’Neal nella sua Eldorado Cadillac.

Trent’anni dopo il panorama è decisamente cambiato, Harlem è stata uno dei luoghi che ha maggiormente risentito della Tolleranza Zero di Rudolph Giuliani. La gentrificazione ha poi fatto il resto. Ma per un 13enne che ha frequentato solo costose scuole private svizzere nel cuore di Parigi, prendere la linea rossa da Columbus Circle fino a Harlem è ogni giorno un brivido tribale. Il giovane Joakim si è da poco trasferito con la madre a Hell’s Kitchen, che potrebbe sembrare un programma con Gordon Ramsey, ma è quel reticolo di strade tra lo Hudson e Broadway, subito sotto Central Park, in cui vivono prevalentemente attori in cerca di fortuna nei teatri di Downtown. A Noah però non interessa la recitazione: lui come il padre è devoto alla competizione pura, allo sfidarsi guardandosi negli occhi. Solo che a lui il tennis non piace - troppa etichetta, troppi bianchi. Poi è troppo alto. Meglio prendere la rossa e assaporare l’odore dell’asfalto in ebollizione sotto la gomma delle scarpe. È lungo, magro, i capelli a boccoli costretti in un nodo per non farsi cacciare da scuola. Parla un inglese da salotto vittoriano con una forte inflessione francese, non capisce nulla dello slang che usano i ragazzi intorno a lui, ma ogni giorno è li, a cercare di schiacciargli in tesa.

“Sono tifoso dei Knicks fin da piccolo”. L’ha detto davvero.

Tutti ricordano il Noah campione a Florida, il Noah trascinatore a Chicago, in pochi il ragazzino che andava ogni giorno a sfidare l’ignoto in calzoncini e AirOne. D’altronde come ha ribadito anni fa in un’intervista, New York è l’unico posto al mondo dove uno come lui passa inosservato. Padre franco/camerunense, madre Miss Svezia, residenze sparse tra Parigi, Gainesville e Chicago: Noah è un newyokese atipico, che poi è la forma più perfetta di newyorker. Se nei prossimi tempi sentirete una Cadillac sfrecciare con lo stereo a tutto volume girativi, potrebbe essere Noah. O Superfly.

Jeremy Lin

BrookLin’s Finest

New York non è solo una giungla dove nascondersi: è allo stesso tempo il palcoscenico dal maggior wattaggio al mondo, una fila di riflettori che se decidono di accendersi in sincrono, abbagliano e stordiscono. Sotto quei fari i 15 minuti di celebrità hanno una densità diversa, e possono nuocere gravemente all’apparato eccitante.

Quando si sono accesi il 10 febbraio di quattro anni fa sulla testa di Jeremy Lin, nessuno poteva prevedere come quel click dell’interruttore avrebbe dato il via ad una delle più sorprendenti apparizioni laiche della storia del gioco. I 38 punti con i quali spazza via i Lakers di Kobe e Gasol rappresentano il sogno erotico di un qualsiasi sceneggiatore con il vizietto del crescendo rossiniano. Più che un kolossal sportivo sembrava di assistere all’incoronazione di un Talent Show. Persino Kobe in versione Bastianich si complimenta con il prodotto di Harvard sottolineando come il suo exploit non sia casuale ma frutto del duro lavoro. Applausi, lacrime e titoli di coda.

Quando si esce dagli studi televisivi del Madison però la musica cambia. Contraddicendo Frank Sinatra, Jeremy Lin dopo aver conquistato New York non riesce più a ripetersi in nessun’altra piazza d’America, schiacciato dai suoi oggettivi limiti e dalle aspettative del pubblico. Si avverte la scollatura tra il Jeremy idolo pagano delle folle, portatore insano della Linsanity e brand internazionale che la Lega usa come volano per il mercato asiatico, e il Jeremy giocatore umile che è entrato in NBA dalla porta di servizio passando le nottate sui divani degli amici.

La sua epica rappresenta le due faccie del sogno americano: prima l’ascesa pirotecnica del self-made man, poi il lento svanire nelle luci della ribalta, pronte a spolpare una nuova e succulenta preda. E quando il rumore si fa brusio diventa difficile trovarsi nuovamente soli con sé stessi. Lin tenta di risolvere il deficit di accudimento con continui cambi di acconciatura, come a volersi creare un personaggio al di là di quelli fino ad ora indossati. Si impomata una cresta da Supersayan per strillare al mondo “Ehi non sono più né la matricola di Harvard, né The Yellow Mamba: sono quello con la cresta matta”.

Il suo debutto a Brooklyn è affidato a una treccia binaria che corre lungo tutta la circonferenza del cranio (alla Porzingis per capirci). Lin sorride seduto in una terrazza sull’Hudson e dietro, in profondità di campo, appare lo skyline di Manhattan. Appare così vicino e allo stesso tempo così lontano, come se la mitologia della Linsanity fosse confinata nel perimetro della City e la si potesse osservare negli occhi come un animale in gabbia. La può trattare per quello che è stata: una sbronza colossale in cui nel casino totale hai perso le chiavi di casa e ora inveisci verso le stelle.

Ci sono molti modi per definire il termine “casa”. Può essere il colore della squadra che hai tifato da bambino, il posto dove tutti ti salutano per nome o il sapore casalingo dello sciroppo d’acero. Lin spera di definire la sua come una brownstone a schiera accanto al suo barbiere di fiducia da cui può ogni giorno, alzando lo sguardo, può vedere i bagliori di ciò che era essendo finalemente libero di essere ciò che vuole, con i capelli che vuole.

Spread love, Jeremy, it’s the Brooklyn way.

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