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Il Como non è come lo raccontano
18 feb 2025
Una piccola squadra molto ricca, che gioca come una grande.
(articolo)
10 min
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IMAGO / ABACAPRESS
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Il 24 novembre dalle tribune del Sinigaglia si alza qualche “mugugno”, così li chiama Transfermarkt. È l’espressione della delusione per una sconfitta piuttosto netta con la Fiorentina di Raffaele Palladino, ma soprattutto per una classifica che vede il Como terzultimo in classifica con appena 10 punti, a sole due lunghezze dal Venezia ultimo. La società lombarda era salita in Serie A in estate in condizioni per certi versi paradossali. Una squadra con un bacino d’utenza minuscolo, che deve farsi spazio in uno stadio inaugurato quasi un secolo fa sulle sponde di un lago che è diventato un feudo dell’aristocrazia globale; ma allo stesso tempo anche una delle proprietà più ricche della Serie A, arrivate in Italia in circostanze oscure per mezzo di una famiglia indonesiana che ha fatto fortuna vendendo, tra le altre cose, sigarette aromatizzate ai chiodi di garofano.

Il Como è una piccola e una grande al tempo stesso, un paradosso che si riverberava sulla nostra realtà ancora prima dell’offerta da 47 milioni di euro fatta al Milan per Theo Hernandez in quest’ultima sessione di mercato. Dopo la promozione ottenuta direttamente alla fine di una stagione di Serie B conclusa al secondo posto, il Como aveva già speso quasi 50 milioni di euro per rinforzare la squadra, facendo arrivare in Italia ben 20 nuovi giocatori, tra cui Raphaël Varane, Sergi Roberto e Alberto Moreno. Nomi che fanno i titoli dei giornali a cui una qualsiasi neopromossa non sarebbe mai stata in grado di pagare lo stipendio e che comunque non sarebbe riuscita a convincere a passare una stagione tra le intemperie della lotta salvezza.

Il Como, però, ha Cesc Fabregas, arrivato nell’estate del 2022 da giocatore nello sgomento generale, e diventato allenatore della prima squadra talmente presto che, quando ha deciso di affidare a lui la missione di portare la squadra in Serie A, la società è stata costretta ad affiancargli un vero allenatore (cioè uno abilitato) per aggirare il fatto che non avesse il patentino. Che dimensione bisognava aspettarsi da una società che, come i top club europei alla ricerca del nuovo Guardiola, promuove un grande giocatore del passato dalla primavera alla prima squadra? Che spende come una società di metà classifica?

«Qualcuno pensava che potessimo lottare per la Champions ma è un problema suo. Siamo il Como, cinque anni fa qua non c’era niente e ora siamo in Serie A», dice sprezzante Fabregas dopo la sconfitta con la Fiorentina, riportando tutti a una realtà che però è più ambigua di quello che vuole farci credere.

Ancora prima di questa partita, il percorso del Como era stato lastricato di risultati che erano l’esatto opposto del corto muso, di quel cinismo nel concretizzare le occasioni giuste al momento giusto che in Italia rappresenta la vera essenza del calcio. Nel turno precedente, contro il Genoa, il Como era stato raggiunto sull’1-1 da un destro in area di Vogliacco sull’ultimo calcio d’angolo della partita. «Non capisco come una squadra possa creare tanto e non vincere», aveva dichiarato Fabregas dopo quella partita, come se proprio non riuscisse a farsi una ragione dell’ingiustizia di questo sport. «Il Genoa con poco ha fatto gol, noi con tanto no». Parole come queste lo stavano confezionando nel cliché dell’allenatore giochista, come vengono chiamati con una nota di disprezzo quei tecnici incapaci di adattarsi alle durezze della realtà, accecati dalla loro stessa ideologia. Un cliché che stava alla perfezione su un giocatore che ha scritto la storia del Barcellona, e che dal gioco di posizione catalano ha assunto le sue coordinate tattiche, e la cieca fiducia che con solo quelle si possa colmare il gap con l'avversario. Due settimane prima, dopo una sconfitta per 1-0 sul campo del Torino con un gol arrivato al 75', Fabregas aveva dichiarato che il Como aveva «perso per un errore una gara che poteva terminare con una nostra vittoria». «Meritavamo di più, come è già capitato in questa stagione in tutte le partite, anche in quelle che abbiamo vinto». Allora di punti il Como ne aveva appena nove e nelle sue parole ci si poteva sentire una lontana nota di disperazione.

Questo è il punto di questi articoli in cui di solito si ritorna a una realtà in cui le cose stanno finalmente volgendo per il verso giusto. Oggi il Como di punti ne ha 25, viene da una convincente vittoria proprio contro la Fiorentina in cui ha segnato 2 gol e subito appena 0.39 xG (dati StatsBomb), e sta vivendo un 2025 in cui ha già strappato un punto all’Olimpico contro una delle migliori squadre di questa stagione, la Lazio; e tre a una delle rivelazioni di questo campionato, l’Udinese, a cui ha rifilato quattro gol.

Questa però non è solo la storia della piccola squadra di provincia che riesce a superare i propri limiti grazie a un'identità forte. Parte del merito degli ultimi successi del Como, infatti, va data a una sessione di mercato di gennaio in cui ha speso un’altra cinquantina di milioni di euro per rinforzare la squadra (e in cui, come detto, ha provato a spenderne un’altra cinquantina solo per prendere Theo Hernandez), con effetti sono stati visibili da subito. Assane Diao, arrivato dal Betis per 12 milioni di euro, è quello che ha avuto l’impatto più evidente. L’attaccante spagnolo ha segnato 4 gol nelle sue prime 7 partite di Serie A (a Milan, Udinese, Juventus e Fiorentina) risolvendo con un impressionante tasso di conversione del 31% un problema atavico di conversione delle occasioni da gol di cui lo stesso Fabregas si era lamentato nella prima parte di stagione. Discorsi analoghi si possono fare anche per giocatori come Alex Valle e Maxence Cacqueret (altri 12 milioni di euro complessivamente) che, appena arrivati, si sono presi immediatamente un posto da titolare, alzando il livello tecnico ben oltre la media delle squadre coinvolte nella lotta per non retrocedere, a cui teoricamente il Como ancora appartiene. Teoricamente, appunto, ma è davvero così?

Lo stesso Fabregas è sembrato voler solleticare le idiosincrasie che la dimensione ambigua del Como si porta appresso, per la gioia dei giornali online che utilizzano le sue dichiarazioni per fare il pieno di click. Prima dell’ultima partita casalinga, per esempio, il tecnico catalano ha dichiarato che Juventus e Como «hanno lo stesso livello progettuale», con delle parole che sembravano un affronto del nuovo capitale globale alle antiche gerarchie del nostro campionato, e che in realtà si riferivano più prosaicamente al fatto «che entrambi vogliamo prendere giocatori giovani da far crescere e creare qualcosa di importante per il futuro». “Non è uno sfottò”, avverte FanPage già nel titolo del pezzo che riporta le sue parole, che però è pensato proprio per attirare quelle persone per cui quelle parole suonano provocatorie. Di Fabregas si era parlato per motivi analoghi anche dopo la partita di metà gennaio contro il Milan, persa per 1-2 dopo essere stato in vantaggio per 1-0 fino al 71'. «Si è visto un gran Como per 65 minuti. Se a uno che non capisce di calcio gli dici che si sta giocando Milan-Como, pensa che il Milan sia quello biancoblu», ha detto Fabregas ai microfoni di Sky con una dichiarazione che ha fatto sorridere quelli per cui il risultato è l’unica cosa che conta, e che gioca di nuovo, chissà quanto consapevolmente, con il rapporto tra il Como e le alte sfere del campionato.

Il Como, sembra dire Fabregas, gioca come una grande, ma come gioca o dovrebbe giocare una grande? In maniera significativa, da alcune fonti le sue parole sono state trasfigurate in questo modo: «Meglio dominare per 65 minuti e poi perdere piuttosto che difendere» - una frase che non sono riuscito a ritrovare su alcuna fonte affidabile e che effettivamente starebbe benissimo in bocca a un allenatore che non si sta rendendo conto di star allenando una piccola. In Italia la salvezza passa inevitabilmente per sofferenza, difese disperate in area, palloni lanciati in tribuna, e quelle parole incorniciano invece Fabregas in un’immagine da Maria Antonietta che, di fronte alle esigenze di una piccola che gioca contro un avversario più forte, lancia alla sua squadra le brioche del possesso palla, dei tatticismi, di un dominio inconcludente e narcisista.

È un’immagine che si fonda sull’idea che una squadra non possa salvarsi cercando di dominare il possesso e provando a segnare un gol più dell’avversario anziché subirne uno in meno, e che si scontra con la realtà del Como che - scusate il cliché - è più complessa di così. Certo, la squadra di Fabregas ha un notevole 54% di possesso palla medio (più di squadre come il Napoli, la Fiorentina e l’Udinese) che rivela idee piuttosto chiare, ma ciò che è più interessante e che le sue statistiche più impressionanti sono quelle che hanno a che fare con la fase difensiva. Il Como infatti è sotto la media della Serie A per xG creati su azione e la sua underperformance nella conversione delle occasioni da gol è meno evidente di quello che forse si può immaginare, con 1.20 gol segnati a partita (esclusi i rigori) a fronte di 1.06 xG avuti a disposizione. Dove invece lo scarto tra aspettative e realtà diventa davvero notevole è per l’appunto nelle statistiche difensive, che ci dicono che il Como è contemporaneamente la quarta miglior difesa per xG (dietro a Napoli, Juventus e Inter) e la quinta peggiore per gol subiti (meglio solo di Verona, Parma, Venezia e Lecce). Di fatto la squadra di Fabregas subisce quasi il doppio dei gol che sarebbe legittimo aspettarsi secondo il modello elaborato da StatsBomb (1.60 gol subiti a partita a fronte di 0.85 xG).

Questo distacco così ampio complica ulteriormente il discorso e ci costringe a trovare delle motivazioni. Innanzitutto un parco portieri probabilmente non all’altezza del resto della rosa dal centrocampo in su. Audero, Pepe Reina e il nuovo Jean Butez sono infatti tutti tra le ultime posizioni per differenza tra gol attesi e gol effettivamente subiti: in altre parole, hanno parato molto meno di quanto i modelli matematici si aspettavano da loro alla luce della pericolosità delle occasioni affrontate. Poi forse si potrebbe parlare dei molti gol subiti su palla inattiva (0.32 a partita, "meglio" solo di Cagliari, Monza e Verona), della sfortuna e della fragilità in fase di transizione difensiva, che in parte deriva effettivamente dalla spregiudicatezza della sua identità.

Il Como infatti è una squadra che cerca di giocare sempre ad alti ritmi e che gira, offensivamente ma soprattutto difensivamente, intorno all’intensità del pressing alto, che porta alle sue estreme conseguenze. È quarta per PPDA, l’indice che misura l’efficacia del pressing (dietro a Bologna, Inter e Juventus), ed è allo stesso modo ai primi posti per molte altre statistiche che certificano la sua aggressività nelle metà campo avversaria, come i palloni recuperati in riaggressione o il numero di pressioni nella metà campo avversaria.

Certo, è un tipo di gioco che comporta dei rischi, tanto più quando i tuoi centrali si chiamano Dossena e Goldaniga, e che è pensato anche per avere dei dividendi offensivi. Lo si è visto nell’ultima uscita contro la Fiorentina, dove lo splendido 0-2 di Nico Paz è nato proprio da una palla recuperata nella trequarti avversaria in fase di pressing alto, o nella celebre occasione contro la Juventus che ha portato Vlahovic a criticare Gatti, arrivata dopo che il Como aveva costretto Di Gregorio a rilanciare lungo. Il Como è anche la quinta squadra della Serie A per numero di tiri nati da una palla recuperata in pressing alto. Rimane il fatto, però, che l’obiettivo primario di un atteggiamento così aggressivo sia quello di impedire all’avversario di essere pericoloso, qualcosa che al Como, nonostante le apparenze, riesce piuttosto bene. E che nei fatti è l’esatto contrario di quanto l’immagine stereotipata dell’allenatore catalano vorrebbe raccontare.

Il pressing alto del Como che ha portato allo 0-2 di Nico Paz, con i riferimenti sull'uomo.

Da questo punto di vista, Fabregas sembra soffrire dello stesso fraintendimento che ha accompagnato Thiago Motta dal Bologna alla Juventus, dove ci si aspettava un allenatore offensivo e spettacolare anche al costo di essere magari un po’ svampito, e ci si è ritrovati in una situazione in cui la squadra sembrava ingessata da un gioco che era pensato innanzitutto per minimizzare i rischi. Da questo punto di vista sia l’allenatore della Juventus che quella del Como potrebbero davvero essere stati influenzati dalla figura di Pep Guardiola, ma non per i motivi che eravamo abituati a pensare quando era allenatore del Barcellona.

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