È la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani. A ogni piano, mentre l’uomo cade non smette di ripetere: «Fino a qui tutto bene, fino a qui tutto bene». E che succede se l’uomo non trova neanche un ristoro decadente nell’impatto con il suolo? Quand’è che la caduta allevia l’atterraggio? O meglio, come fa quell’uomo a riconoscere le cause recondite che lo hanno spinto? Come avrete capito, è l’incipit di La haine – il film del 1995 diretto da Mathieu Kassovitz.
Tra il primo e l’ultimo giorno della seconda esperienza di Walter Mazzarri sulla panchina del Napoli sono passati quattro mesi che odorano della stessa, inevasa e forse inconcludente domanda: come siamo arrivati fin qui?
Al secondo esonero consecutivo nella prima stagione vissuta da Campioni d’Italia dopo trentatré anni, cioè, alla squadra svuotata che pareggia solo con la forza del talento contro il Genoa, all’evidente squilibrio tra quello che il Napoli sente di essere e ciò che è davvero. Secondo Relevo, domenica sera il club ha contattato Francesco Calzona, attuale CT della Slovacchia, per chiedergli di ricoprire il doppio incarico fino al termine della stagione. Un’ipotesi che non era stata presa in considerazione a novembre, quando a essere esonerato fu Rudi Garcia, e l’alternativa a Mazzarri pareva Tudor.
Negli ultimi giorni si era persino parlato di un interesse per Marco Giampaolo, e lo stesso Aurelio De Laurentiis aveva garantito fiducia in Mazzarri con prosopopea appena una settimana fa. Aveva citato un altro film, stavolta di Paolo Sorrentino, forse involontariamente: «Mazzarri è un amico di famiglia» aveva detto. «Dal 18 febbraio avrà la squadra al completo e solo allora potremmo dirgli bravo o meno».
Restano celate nei silenzi i motivi delle tempistiche di questo nuovo esonero. Il Napoli è nono in campionato, a -9 dalla zona Champions, e tra due giorni ospiterà il Barcellona al Maradona per l’andata degli ottavi di finale.
Tra il Napoli e Mazzarri non poteva andare diversamente
Certo non è la prima scelta che possiamo definire figlia del caos. A novembre il presidente del Napoli ha deciso di tagliare i rapporti con Rudi Garcia e inasprire il controllo sull’area tecnica. Per farlo ha richiamato un allenatore conservatore, che non ha saputo adattarsi alla rosa a disposizione. Sono lontani i tempi in cui Mazzarri elogiava il calcio del Napoli di Spalletti con la pretesa di poterlo replicare.
Lo stesso Walter Mazzarri confuso, a tratti distratto, che da un lato chiedeva ai giocatori di assumersi più responsabilità e dall’altra rimproverava il fatto per le occasioni sciupate sottoporta. «È un’annata davvero strana» ha detto dopo la partita contro il Genoa, in cui il Napoli ha rischiato di segnare, e alla fine ci è riuscito allo scadere con Cyril Ngonge, quasi per caso.
Non ci si poteva aspettare di più, probabilmente, da un allenatore che per 23 anni di carriera si era fatto portavoce di un calcio artigianale, affascinante in ripartenza e contemporaneamente inadeguato nello scontro con una dimensione internazionale. Abbiamo ritrovato lo stesso Walter Mazzarri che era andato via da Napoli nel 2013, mentre il mondo intorno a lui è cambiato. Walter Mazzarri come un personaggio diretto da Ettore Scola, pensoso e angosciato dal passare del tempo. E anche quando sottolineava lui stesso l’evoluzione del calcio nell’ultimo decennio, sembrava esorcizzarlo con le parole.
In realtà non è stato così, e se nelle prime uscite Mazzarri aveva provato a restaurare l’impianto tattico che ha portato allo Scudetto, ogni suo tentativo è sembrato balzano. Non pareva crederci nemmeno lui. Nella penultima partita della sua seconda gestione, a San Siro contro il Milan, pur avendo a disposizione sette attaccanti ha schierato la squadra con un compatto 3-5-1-1 in cui a Kvaratskhelia veniva affidato il compito di inventare il fuoco.
Il Napoli aveva cominciato a giocare a tre prima per brevi stralci di partita, per difendersi meglio e trovare più certezze in un momento delicato; poi Mazzarri aveva deciso di provarla per un tempo intero, nella brutale sconfitta di Torino, e le cose erano naufragate subito. Neanche la bella vittoria in semifinale di Supercoppa Italiana contro la Fiorentina, giocata con un 3-4-3 compatto, con densità centrale per ridurre le distanze tra centrocampo e difesa, aveva convinto del tutto - pur dando segnali di vita.
Era arrivata una buona prestazione, ma la squadra era davvero pronta a impiantare nel suo bioma un cambiamento così radicale? Lo stesso Mazzarri era scettico, e aveva motivato il passaggio di sistema alle ingenti assenze per infortunio: «Se avrò i giocatori, tornerò al 4-3-3» aveva detto dopo la partita.
Una dichiarazione smentita presto, sia dalla finale contro l’Inter – di nuovo giocata a tre – sia dalla dalle trasferte di Milano e Roma, in cui l’obiettivo principale è stato concentrarsi per difendere lo zero a zero. La presunta capacità di adattamento del Napoli a più schemi e soluzioni era in realtà mutata in strati aggiuntivi di paura: contro le squadre superiori o di pari livello trascorreva la partita a difendersi, risalendo il campo senza idee particolarmente brillanti.
In altre occasioni, come dopo il pareggio interno contro il Monza (0-0), Mazzarri si è appellato alle statistiche del possesso palla come verità assolute, che dovevano raccontare qualcosa di reale. Eppure in campo la squadra perdeva ulteriori riferimenti: accentrando Kvaratskhelia è venuto meno il gioco sulle catene laterali, indispensabile per la circolazione veloce della palla. Gli isterici cambi del sistema di gioco hanno acuito il senso di caos, e la sicurezza degli addii a fine stagione di giocatori importanti come Victor Osimhen – «Ho già deciso il mio futuro» ha detto poche settimane fa – e Piotr Zielinski hanno finito per minare ulteriormente l’umore dello spogliatoio e dell’ambiente intorno al Napoli
È innegabile il peggioramento dell’efficacia offensiva del Napoli sotto la gestione di Mazzarri: per Expected Goals, tiri tentati, gol fatti. Dalla tredicesima giornata, l’esordio a Bergamo contro l’Atalanta, gli azzurri hanno segnato solo nove gol – diventando, in quella fase temporale, il secondo peggiore attacco della Serie A.
Abbiamo già affrontato il tema della solitudine di Khvicha Kvaratskhelia, ma non va sottovalutato il decadimento nelle prestazioni e nei numeri di Giacomo Raspadori, relegato a una panchina a oltranza nonostante l’infortunio di Osimhen e la successiva partenza per la Coppa d’Africa. Pensandosi come una squadra reattiva, il Napoli ha perso la sua luce speciale, ormai ridotta a un breve baluginio nella tempesta.
Gli arrivi del calciomercato di gennaio non hanno aiutato Mazzarri a risolvere queste contraddizioni. Sono arrivati un esterno a tutta fascia, adattabile come terzino, come Pasquale Mazzocchi, e due giocatori abili a muoversi negli spazi centrali, alle spalle delle linee di pressione avversarie come Cyril Ngonge e Hamed Junior Traoré. Le lacune in difesa non sono state colmate, e alla fine il Napoli ha scelto Dendoncker come ultimo acquisto, un jolly che non è entrato ancora nelle rotazioni. Per chi sono stati fatti questi acquisti, e perché?
«L’equilibrio è importante, ma giocare a calcio ancora di più»
Francesco Calzona ha accettato tutto questo, sapendo che il suo intervento potrebbe non servire a rianimare nei risultati la peggiore stagione del Napoli dal 2008 in poi.
Con un passato modestissimo da giocatore, e una successiva carriera avviata come rappresentante di caffè, la storia di Francesco Calzona presenta tutti i topoi dell’uomo cresciuto sui campi di fango della provincia italiana: «Era un lavoro in cui mi trovavo benissimo» ha detto alla Gazzetta, «ogni tanto sento ancora gli ex colleghi». L’uomo nascosto dietro le quinte del Napoli di Sarri e della prima versione di quello di Spalletti, che incarna oggi il protagonista di narrazioni da libro Cuore.
Calzona non ha mai ricoperto il ruolo di primo allenatore in un club professionistico: le sue ultime esperienze risalgono al biennio 2004-2006, in cui ha allenato Castiglionese e Torrita, nelle categorie inferiori toscane. Pochi mesi fa ha raccontato di aver ricevuto l’offerta della Slovacchia attraverso una telefonata di Marek Hamsik: «Non me lo sarei mai aspettato, ero a fare benzina e gli dissi: “Finisco di fare gasolio e ci penso”, dopo dieci minuti l’avevo già richiamato».
Dal 2007 al 2018 è stato vice-allenatore di Maurizio Sarri. Quando era giocatore del Togoleto, nel 1999, lo aveva consigliato alla società, perché pensava «fosse l’uomo giusto»: da allora Calzona ha intrattenuto con lui un rapporto da consigliere “ufficioso”, come nella breve parentesi di Arezzo nel 2006.
A Napoli, nel 2015, è stato chiamato a correggere la fase difensiva colabrodo dell’anno prima, reduce dai 54 gol subiti in campionato con Benitez. Dal mercato arrivò solo Eilsed Hysaj, e la squadra guadagnò solidità grazie a un’idea radicale, esasperata, di difesa a zona. È facile ricordarsi la disciplina maniacale e i movimenti sincronizzati di quel quartetto difensivo – completato da Kalidou Koulibaly, Raul Albiol e Faouzi Ghoulam –, un organismo a intelligenza distribuita in cui il riferimento costante dei marcatori era la palla.
Luciano Spalletti lo ha voluto nello staff nel 2021, quando ritorna a Napoli dopo un anno da vice-allenatore di Eusebio Di Francesco a Cagliari.
Il Napoli si è riconosciuto negli anni in un dipinto ideologico, legato alla volontà di attaccare e forse è proprio questa la radice della scelta di mettere sotto contratto un allenatore poco esperto ma identitario come Calzona: risvegliare una concezione di sé ormai sopita, che è sopravvissuta a stento ai cambiamenti portati da Mazzarri e Garcia.
È un caso che Francesco Calzona sia stato una specie di coordinatore di produzione del Napoli, ben nascosto dietro le quinte, come un agente segreto in un film di Hitchcock, nelle stagioni più brillanti della sua storia recente? De Laurentiis deve aver pensato di no.
Il suo arrivo andrebbe valutato sotto una lente più profonda, però. Prima del sorteggio dei gironi per l’Europeo ha rilasciato un’intervista a Rai Radio 1 Sport. Quando parla dello stile di gioco della sua Slovacchia dice: «Non sono un integralista che si basa solo su costruzione dal basso» ha detto. «Ci vuole un po’ di tutto nel calcio».
Una delle rare interviste di Calzona col Napoli.
Con la nazionale slovacca Calzona ha superato il girone di qualificazione con 22 punti, arrivando davanti a Lussemburgo, Bosnia-Erzegovina e Islanda. Fin dai primi impegni ha costruito la squadra intorno al 4-3-3 con un centrocampo iper-tecnico – composto spesso da Kucka, Lobotka e Duda con Suslov super-sub – che ambiva a controllare il pallone per più tempo possibile in relazione alla forza degli avversari.
Contro il Portogallo, nella sconfitta di ottobre per 3-2, la Slovacchia ha giocato per ampie porzioni di partita sotto la linea della palla, finendo per soffrire la prima costruzione dei lusitani. Dopo qualche settimana, però, è arrivata una brillante vittoria casalinga contro l’Islanda, decisiva per il passaggio del girone: in quell’occasione la Slovacchia ha tenuto il 57% del possesso palla, e ha alternato momenti di possesso orizzontale ad attacchi alla profondità.
Certo non possiamo affidarci allo stile di gioco o ai risultati di una Nazionale, e più forse sulle esperienze trascorse a Castelvolturno. In queste ore si ripescano le sue citazioni, cercando di costruire un quadro più generale della sua ideologia; sulle pallonate: «Quando un mio difensore tira una pallonata senza motivo in avanti, per me è una sconfitta, non riesco a sopportare una cosa del genere: può succedere solo se sei costretto dall’avversario»; sul bel gioco: «Giocare bene disse un’azione costruita con criterio, cercando di mettere in difficoltà l’avversario, sfruttandone i punti deboli, arrivando alla conclusione in porta nel minor tempo possibile. Per me il bel calcio è questo qui»; sul calcio come divertimento: «C’è gente che paga il biglietto per vedere 90 minuti, non due gol arrivati da episodi. Per me il calcio è spettacolo, bisogna far di tutto per far divertire il pubblico. Io provo ad allenare le mie squadre per fare un buon calcio, a volte non ci riesco anche per merito degli avversari che ti portano a fare un calcio che non è tuo».
È possibile che anche a Napoli, con il ritorno di Victor Osimhen, Calzona dovrà modulare l’influenza sarriana della sua formazione calcistica con una tensione più verticale. Troverà una squadra esaurita, a cui manca l’autostima per credere in sé stessa e nel gioco che l’ha portata su questi livelli.
La scelta di puntare su un allenatore come Calzona assomiglia all’ultimo, disperato, tentativo del Napoli di produrre una scossa intestina, un tumulto che abbia l’effetto di ricostruire una piccola parte della macchina che Luciano Spalletti aveva lasciato in eredità al club.
Francesco Calzona è stato a lungo l’uomo dietro le quinte, il segreto che qualcuno individua nelle evoluzioni di Sarri e Spalletti. Dopo una carriera celato, adesso vedremo come se la caverà davanti ai riflettori.