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Concussion
30 gen 2016
Lo scandalo più spinoso della storia della NFL.
(articolo)
20 min
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Il 25 dicembre in America è uscito nelle sale Concussion, una pellicola diretta da Peter Landesman e che vede Will Smith attore protagonista. Il film racconta la vera storia del Dottor Bennett Omalu, colui che scoprì la CTE, la Encefalopatia Cronica Traumatica, dando via uno dei più grandi scandali dello sport a stelle e strisce. Il film si inserisce nel filone di una delle polemiche più aspre degli ultimi anni, rappresentando un’istantanea perfetta per capire i livelli critici all’interno dell’opinione pubblica. Un discorso che parte dall'ex star NFL degli Steelers, Mike Webster, fino ad arrivare all'ex 49ers Chris Borland, ritiratosi nel 2015 nel pieno dei suoi anni migliori, per evitare gravi rischi di salute.

The twelfth player

Bennet Omalu nel 1990 si laurea all'università di Nsukka, situata nello stato dell'Eunugu nel sud-est della Nigeria. La University of Nigeria è una delle più prestigiose del Paese ed è stata fondata da Nnamdi Azikiwe, il primo presidente nigeriano alla fine degli anni '50 e costruita sul modello americano. Ed è proprio negli Stati Uniti che Omalu prosegue i suoi studi, prima alla Columbia e poi a Pittsburgh, dove si stabilisce e lavora nel dipartimento forense. Ogni mattina Omalu si sveglia e ascolta il notiziario per essere informato sui eventuali decessi o omicidi della notte, suona inquietante ma è parte del suo lavoro.

Una mattina dell’autunno del 2002 arriva all’ospedale e scopre che l'autopsia del giorno è da effettuare su un 50enne, tra le cui cause di morte annovera sindrome post-concussionale.

Entrando in ufficio chiese ai colleghi chi fosse l'uomo in questione e loro divertiti gli risposero «C'è veramente qualcuno a Pittsburgh che non conosce Mike Webster?». Si stava parlando di uno dei migliori centri della storia della NFL, una leggenda, capace negli anni '70 di portare a casa con gli Steelers 4 Super Bowl e 9 partecipazioni al Pro Bowl. Purtroppo pochi anni dopo il suo ritiro Mike cominciò a soffrire di demenza, amnesia, depressione fino ad arrivare alla morte per arresto cardiaco a soli 50 anni. Il dottor Omalu non solo non sapeva chi fosse Webster, ma da nigeriano non aveva nemmeno dimestichezza con il gioco del football, eppure era sempre rimasto turbato dalle imponenti attrezzature che indossavano i giocatori. Perché era necessario usare tutte quelle protezioni?

Che il football fosse, almeno in prospettiva storica, uno sport molto pericoloso era lapalissiano. In 95 anni di storia della NFL sono stati molteplici, non solo i gravi infortuni debilitanti, ma persino le morti. La prima svolta epocale fu nel 1905 quando, sotto le pressioni del presidente Teddy Roosvelt (e dei 15 morti sul campo in quell'anno) si introdusse il passaggio in avanti sancendo la fine del rugby derivato negli States e la nascita del football come lo conosciamo oggi.

Ma dagli anni '30 fino alla rivoluzione dei caschi degli anni '70 sono stati oltre 700 i morti dall'high school al professionismo. Con l'avanzare dei tempi, le attrezzature sempre più sofisticate e la ricerca continua verso la perfezione regolamentare per limitare al minimo i rischi di infortuni - specie dopo che il football sorpassò il baseball come numero di spettatori - era passata sottopelle l'idea che fosse uno sport sicuro. I rischi ortopedici debilitanti erano stati accettati come part of the game e la NFL acquisiva sempre più consensi come primo sport USA.

Eppure le prime ricerche sui danni cerebrali causati dagli sport di contatto risalgono addirittura al 1969. Era ormai chiaro da tempo ad esempio come ci fosse un collegamento diretto tra uno sport come il pugilato e le sindromi post-concussionali a lungo termine come l'Alzhaimer. Eppure intorno al football regnava una strana miopia, soprattutto perché si moriva sempre meno, specie tra i professionisti. Appena 10 al college e nemmeno uno tra i professionisti in due intere decadi, tra gli anni '80 e i '90.

1897 New York World.

Nessuna regola poteva fermare l'evoluzione del football. La specializzazione dei reparti, atleti bionici, la sala pesi come parte della preparazione atletica avevano cambiato tutte le carte in tavola. Non era più il cosiddetto tackle football, era diventato collision football. Per capirci un giocatore di 250 libbre lanciato a 15 miglia orarie sprigiona più energia cinetica di un proiettile di un AK-47.

Nel 1994 la NFL formò il comitato per i Mild Traumatic Brain Injury, ma la linea della Lega era di sminuire la questione. L'allora commissioner Paul Tagliabue arrivò a commentare il problema dei danni cerebrali come “pack journalism issue”. La Lega restava miope al riguardo e le parole del capo del comitato MTBI furono paradigmatiche: «We think the issue of knees, of drugs and steroids and drinking is a far greater problem, according to the number of incidents». C'erano priorità politiche diverse in seno alla Lega, eppure qualcosa cominciava a muoversi. Leigh Steinberg, agente di campioni come Troy Aikman, Merril Hoge e Steve Young - tutti ritiratisi per problemi legati alle concussion (commozioni celebrali e traumi) - organizzò un seminario per giocatori e addetti ai lavori. I discorsi portati avanti sembrarono troppo allarmisti ma era un segnale importante. Si cominciava a parlarne sul serio.

10 percent of mothers

Eppure il Dr. Omalu sapeva che dovevano esserci dei collegamenti tra malattie cerebrali e il football e quella fu la sua grande occasione per dimostrarlo. Il Dr.Omalu guardò Webster steso sul lettino. Omalu è una persona molto spirituale, crede nella vita dopo la morte e tratta i suoi pazienti come fossero vivi, per questo è solito parlare con loro : «Mike, devi aiutarmi. Dimostriamo che stanno sbagliando. Tu sei una vittima del football, ma hai bisogno di aiutarmi ovunque tu sia. Non posso farlo da solo. Non sono nessuno. Devi aiutarmi. Dimostriamo che stanno sbagliando».

Durante l'autopsia si aspettava di trovare evidenti danni al cervello ma rimase deluso. Il corpo e il cervello di Mike Webster, nonostante decenni di football, erano assolutamente integri e all'apparenza sani. Eppure invece di procedere come da iter decise di condurre un'analisi più approfondita. Non fu facile ma la ricerca partita dall'autopsia del cervello di Mike Webster confermò il sospetto. Omalu notò un'anomalia in determinate proteine del cervello che per distribuzione non erano riconducibili a malattie quali Alzhaimer (escluse anche per età e storia genealogica) ma simili a quelle della demenza pugilistica.

Pensò subito che il mondo del football sarebbe stato contento di questa scoperta, di queste fondamentali nuove informazioni. Le avrebbero analizzate, utilizzate per migliorare il gioco e la sua sicurezza. Eppure non andò esattamente così. La ricerca, portata a termine dopo centinaia di ore di lavoro, fu ostracizzata fin dalla sua pubblicazione. Bennett dovette combattere una battaglia intellettuale per l'approvazione e la pubblicazione di una ricerca che minacciava il cuore stesso del football. Fu anche accusato di insultare the American way of life, e che lui – nigeriano - non si sarebbe dovuto permettere di dire certe cose su un paese come gli Stati Uniti. Fu un periodo molto duro che proseguì anche quando riuscì a pubblicare la sua ricerca.

La NFL, tramite la consulenza del MTBI, arrivò addirittura ad accusarlo di essere un ciarlatano e avrebbe voluto che la ricerca fosse ritirata dalle pubblicazioni. Una vera campagna diffamatoria cominciò a prendere piede a mezzo stampa e fu addirittura accusato di praticare vodoo. Il Dr. Omolu rimase ancora una volta sorpreso dalla ignoranza della Lega su questioni che li riguardavano così da vicino : «How can a nobody like me know the subject better than the top three NFL doctors who are in charge of trauma in the NFL?».

Ma per dimostrare al mondo che il caso di Webster non era una anomalia statistica servivano altri casi e serviva ampliare il raggio di azione. Serviva capire la degenza della malattia, il cambiamento nei comportamenti, i sintomi che avrebbero portato all'inevitabile. Dopo 3 anni travagliati arrivarono tra le mani del Dr. Omolu due casi fondamentali: Terry Long e Andre Waters.

Il primo era stato offensive lineman dei Pittsburgh Steelers a cavallo tra anni '80 e '90, morto suicida a soli 45 anni per aver ingerito liquido antirefrigerante. Come nel caso di Webster, Long tentò già il suicidio e passò gli ultimi anni di vita in maniera travagliata tra depressione e strani comportamenti. Il secondo era stato una safety dei Philadelphia Eagles, anche lui tra gli anni '80 e '90, morto suicida con un colpo di arma da fuoco alla testa. Nonostante gli attacchi frontali della Lega, Bennett si stava facendo un nome nella comunità medica americana e così colleghi in giro per gli Stati Uniti lo consultavano per studiare casi sospetti di CTE, spesso confermati come nel caso di Justin Strzelczyk. Lineman per gli Steelers negli anni '90, dopo il ritiro caduto in depressione, divorziato e infine morto in uno stranissimo incidente automobilistico. Ma anche Junior Seau, Tom McHale, John Grimsley, Lou Creekmur, Mike Borich, Cookie Gilchrist, Wally Hilgenberg, Ollie Matson, Dave Duerson e tanti altri come loro.

Bennett era sempre più a contatto con i familiari dei deceduti e incontrava parecchi giocatori ritirati e la sofferenza era il leitmotiv che guidava le loro vite. Depressione, perdita di memoria, demenza. Stando a contatto con queste persone e conoscendo le loro storie pian piano stava diventando per lui una battaglia personale, oltre che intellettuale.

La stampa cominciava a sollevare dubbi per ogni caso di CTE confermato e la NFL dovette prendere atto della situazione. Nel frattempo la Lega aveva cambiato commissioner, Roger Godell era subentrato al pensionamento di Tagliabue, ed era cambiato anche il controllo del comitato MTBI che aveva una nuova guida, tale Dr. Ira Casson.

Nel 2007 la NFL arriva a tenere un summit sull'argomento a Chicago per i dottori delle squadre e aperto a esperti del settore. Eppure la Lega è ancora lontana da prendere coscienza di quello che si sta irrimediabilmente muovendo sul fronte delle commozioni celebrali. Non solo alla fine del summit il Dr. Casson continuò a smentire categoricamente che ci fossero collegamenti tra malattie degenerative del cervello e il gioco del football - «Sono un uomo di scienza. Credo nei dati scientifici empiricamente determinati. E quelli non sono dati scientifici» - ma a tale incontro non era stato invitato proprio lo scopritore, e maggior studioso della CTE, Bennet Omalu.

Omalu riesce comunque ad avere un dialogo sottobanco con addetti ai lavori della NFL, perché, nonostante la posizione decisa della Lega, l'ambiente sportivo ha voglia di verità. Durante uno degli incontri, rigorosamente segreti, organizzati da Omalu, un medico di un team NFL gli chiese :

«Bennet, conosci le implicazioni di quello che stai facendo? Il tuo lavoro suggerisce, o potrebbe suggerire, o potrebbe provare che il football è uno sport pericoloso, e se il 10 percente delle madri in questo paese inizia a percepire il football come uno sport pericoloso, quella è la fine del football»

La Lega era attaccata da più fronti. Da una parte doveva cercare di fare ostruzionismo e rassicurare che il football non fosse pericoloso per non perdere praticanti a livello giovanile e decretare l'inizio della crisi del football, ma dall'altra aveva un problema ancora più importante. La negligenza e il costante tentativo di sminuire le voci sugli effetti a lungo termine dei contatti del football erano un boomerang pericoloso che tornava indietro molto velocemente. Ricordava da vicino lo scandalo dell'industria di tabacco che per anni combatté e rifiuto l'idea che fumo e tumori potessero essere correlati.

Ed è qui che, temendo l'ineluttabile proseguo della vicenda, la NFL inverte improvvisamente la rotta. Prima fa dimettere il Dr. Casson dal MTBI e nomina in commissione il Dr. Kevin Guskiewicz, uno dei più autorevoli studiosi della CTE. Poi finanzia il Centro per gli Studi dei Traumi Encefalopatici della Boston University con 1 milione di dollari e dopo nemmeno un anno decide di devolvere la somma di 30 milioni di dollari al National Institutes of Health per le ricerche riguardanti i traumi cerebrali. Cambia anche e soprattutto l'atteggiamento pubblico verso la faccenda. Per la prima volta nella storia infatti la Lega, attraverso la figura del portavoce Greg Aiello, ammette che le commozioni possono portare a problemi cerebrali a lungo termine.

Le ricerche si moltiplicano: la NFL Players Association raccoglie 100 milioni di dollari per l'Harvard Medical School, la NFL ammette l'esistenza di traumi cerebrali collegati al football, sostiene finanziariamente le ricerche in materia, e ogni anno studia nuove regole e nuove procedure per limitare gli infortuni e per gestire al meglio i protocolli dopo una concussion. Pare la svolta, a quasi un decennio dalla morte di Mike Webber, e l'inizio di una fase di pacifica collaborazione tra il mondo scientifico, la NFL e l'opinione pubblica.

1 billion dollars

Fu così solo in parte. Da una parte il carrozzone NFL aveva per anni lucrato, sottostimato e negato in modo categorico i pericoli sulla salute dei propri giocatori e dall'altra nonostante tutte le buone intenzioni della Lega il malumore continuava a serpeggiare e crescere nell'opinione pubblica. E negli ex giocatori NFL.

I tempi erano ormai maturi e, partendo dall'ex giocatore dei Bucs, Ray Easterling, quasi 5000 ex giocatori NFL si unirono per citare in giudizio la Lega, rea tra le molteplici accuse di aver “mitizzato la violenza attraverso i media”, “propagato il falso mito che le collisioni di qualsiasi tipo fossero accettate, desiderate e che facessero parte del gioco” e “aver lucrato miliardi di dollari sulla brutalità degli scontri e aver permesso ai proprio giocatori di continuare a giocare nonostante evidenti traumi cerebrali”. Non da meno vengono citate le responsabilità di negligenza per aver celato ai giocatori i rischi cerebrali ai quali andavano incontro.

Ma le accuse colpiscono anche la società Riddell, principale fornitore di caschi da football dal 1922. Dal 2003 commercializzano il casco Revolution che avrebbe dovuto ridurre del 31% le concussion, eppure più di uno studio, tra cui quello pubblicato sul Journal of Neurosurgery, pare negare questa affermazione. Ma la accusa si è allargata alla negligenza nel proteggere effettivamente dai danni provocati dai contatti, né a breve né a lungo termine. Insomma una bella grana.

Dopo mesi in cui la NFL ha negato fortemente le accuse che gli si rivolgevano alla fine si accordò per un risarcimento complessivo di 765 milioni di $ - diventato poi 1 miliardo di dollari dietro pressioni del giudice della corte che seguiva il caso. Nonostante lo stratosferico ammontare da versare nelle casse degli ex giocatori questo accordo è stato altamente strategico per la Lega che non solo ha evitato una causa lunga e potenzialmente miliardaria ma, come parte nell'accordo, ha ottenuto la mancanza di colpevolezza. Insomma dopo la scoperta scientifica della CTE, dopo risarcimenti e finanziamenti in ricerca per quasi un miliardo di dollari nel giro di pochi anni, la Lega continuava non solo ad ammettere a fatica che ci fossero legami tra football e malattie cerebrali a lungo termine ma rifiutava anche di assumersi la minima colpa.

La NFL può anche aver salvato la faccia in tribunale e soldi dal portafoglio, ma la crisi è tutt'altro che scongiurata. La ricerca in materia si fa sempre più precisa e si allarga a macchia d'olio. Ad esempio si scoprì che 76 su 79 ex giocatori NFL deceduti, i cui cervelli erano stati donati alla ricerca, sono stati trovati positivi alla CTE. Se allarghiamo a giocatori semi professionisti o di college analizzati il numero sale a 101 su 128. Circa l'80% dei soggetti analizzati, che avevano giocato in modo agonistico a football prima della morte, presentavano una forma più o meno grave di CTE. E la banca dati è destinata ad aumentare giorno dopo giorno e anno dopo anno. Non solo, ma ricerche scientifiche hanno confermato che il 36% dei giocatori NFL ritirati hanno sofferto di demenza tra i 65 e 75 anni di età, quando la percentuale di incidenza nella popolazione “normale” non supera il 6,5%.

Sono solo numeri? Non proprio. La reazione delle persone allo scandalo è reale, e la Lega non aveva fatto ancora del tutto i conti con l'opinione pubblica.

Gente come Barack Obama ha ammesso pubblicamente che non farebbe giocare i propri figli a football, e LeBron James è arrivato effettivamente a vietarlo ai propri in quanto troppo piccoli per comprenderne i rischi legati alla sua pratica; LeBron è cresciuto a pane e football, si sospetta che lo stop sia un'idea della moglie senza margine di trattativa. Ed è probabilmente una consapevolezza che si fa strada tra i genitori americani nonostante siano ancora milioni i ragazzi impegnati a praticare football a livello liceale. Un recente sondaggio ha rivelato che il 50% degli americani non farebbe giocar il proprio figlio, e la percentuale sale fino al 63% per le classi più agiate (sopra i 100 mila dollari di guadagno annui). Lo scenario più augurabile è quello che riguarda la totale trasparenza dei rischi da parte di genitori e futuri praticanti. Visto e considerato che pare che iniziare a giocare a football prima dei 12 anni aumenti in modo considerevole l'incidenza di malattie cerebrali.

The nature of the game

Ma in tutto questo da che parte stanno i giocatori?

Da una parte c'è gente come il linebacker Chris Borland. Scelto al terzo giro del draft 2014 dai San Francisco 49ers, stella emergente, vincitore del rookie del mese a novembre ma ritiratosi dopo appena un anno di professionismo a 24 anni. Negli ultimi mesi Borland si era documentato sulle concussion e sui pericoli del football, aveva parlato con autori di controversi libri e ha preso una decisione che ha spiazzato un po' tutti: «Onestamente voglio solo fare ciò che è meglio per la mia salute. Da quello che ho scoperto e da quello che ho vissuto, non credo che valga la pena rischiare».

Nel giro di poche settimane si sono poi ritirati anche giocatori come il 27enne ex Steelers Jason Worilds o il 25enne sempre ex 49ers Anthony Davis. Se per il primo sembra possa esserci di mezzo la sua fede verso i Testimoni di Geova, per il secondo il motivo sono i frequenti infortuni, anche se non ha escluso un suo possibile ritorno. Ma il dado era tratto. Borland ha creato una certa psicosi e uno scomodo precedente che potrebbe avere grosse ripercussioni. Alcuni team sembrerebbero disposti a cambiare il metodo di scout per cercare di capire se c'è una certa predisposizione di un giocatore verso il ritiro per cause legate alla salute. I 49ers con il ritiro di Borland hanno recuperato i soldi rimamenti del contratto, compreso buona parte del signing bonus, ma hanno anche perso l'investimento di un terzo giro al draft. Le squadre agiranno sempre di più per tutelarsi in questa direzione. Borland potrebbe essere un caso isolato o l'inizio di una presa di coscienza dei giovani giocatori professionisti che potrebbe creare non pochi danni in NFL.

Ma dall'altra parte la Lega pare tranquilla invece perché nonostante lo scoppio dello scandalo i giocatori sono molto più preoccupati degli infortuni a breve termine che ai devastanti problemi a lungo termine. Un recente sondaggio che ha coinvolto 293 giocatori di 20 squadre ha rivelato che il 46% dei giocatori è più preoccupato per infortuni alle ginocchia e della propria carriera che degli infortuni a testa e collo la cui percentuale è dell'appena 26%.

«Ogni volta che puoi evitare un colpo alla testa è una grande cosa, ma se vieni colpito al ginocchio, è lì che finisce la tua carriera». Le parole di Michael Bush, l'ex running back dei Chicago Bears sono largamente condivise nell'ambiente NFL. Se da una parte i giocatori pensano principalmente alla loro carriera, dall'altra c'è una consapevolezza diffusa della ineluttabilità della violenza del football. La safety degli Eagles Walther Thurmond ha sintetizzato bene il pensiero: «La natura del gioco è violenta, e lo è sin dalla sua creazione».

Mentre lo scandalo sulle concussion è arrivato in una fase delicata, in cui nonostante gli accorgimenti il numero annuo in NFL continua a non avere ancora un trend negativo, si sta muovendo un altro scandalo in seno alle Lega. Il collision football ha ampliato anche gli infortuni muscolari e ortopedici per i quali i giocatori vengono portati ad abusare costantemente durante la carriera di medicinali per sopportare il dolore e giocare. E sono poi costretti ad usarli anche una volta ritirati per sopportare i dolori di un passato nel football, con effetti devastanti a lungo termine.

Il problema è legato però a doppio filo con i trauma cerebrali. Infatti nel concussion settlement della NFL c'è una clausola che limita il pagamento in denaro se il giocatore in questione è sotto abuso di droghe. Questo fa nascere un circolo vizioso pericolosissimo in cui un atleta per sopravvivere sportivamente alla NFL deve imbottirsi di medicinali durante la carriera, rischiare di avere problemi di dipendenza da questi medicinali e, nello scongiurato caso di una patologia legata ai traumi cerebrali, non vedersi nemmeno pagati i soldi pattuiti dall'accordo per l'abuso di queste medicine.

50

È però ancora utopistico pensare che ci possano essere misure regolamentari o attrezzature di alcun tipo in grado di far diminuire i rischi a lungo termine. Nel 2015 sono state quasi 170 le concussion in NFL ed è il dato più alto dal 2012. Se ampliamo il dato al football praticato ad ogni livello i dati si fanno ancora più allarmanti, con il numero raddoppiato in un solo decennio. Ed è un problema che da qualche tempo non riguarda solamente il football ma anche l'hockey, il rugby e persino il calcio anche se i dati sono meno allarmanti, sia per numero assoluto che per incidenza sulla singola partita. Ma persino NHL e U.S Soccer sono stati raggiunti dalla questione negli ultimi anni.

La questione sta prendendo così tanto piede dal punto di vista pubblico che sia la NHL che U.S Soccer recentemente sono state citate in giudizio. Se la NHL ha seguito un percorso parallelo a quello NFL, con Lega citata in giudizio dagli ex giocatori, più inaspettata è la querelle legata al calcio. Da uno studio americano del 2007 su giocatori di high school e di college il calcio negli Stati Uniti è addirittura il secondo sport per numero di commozioni celebrali; la U.S Soccer è stata costretta a vietare i colpi di testa per il calcio giovanile fino ai 13 anni.

Ma anche in Europa qualcosa si sta lentamente muovendo. Nell'aprile dello scorso anno ad esempio è stato confermato il primo caso di CTE di un ex giocatore di calcio professionistico. Jeff Astle, leggenda del West Bromwich Albion, morì a soli 59 anni nel 2002 – pochi mesi prima di Mike Webber – ma solamente dopo un decennio arrivò la inaspettata scoperta, dopo che i primi segni di demenza furono erroneamente diagnosticati come Alzhaimer precoce. La Football Association ha introdotto recentemente in Premier League nuovi protocolli per le commozioni celebrali, ma resta evidente la miopia per quello che riguarda i danni riguardanti i frequenti colpi di testa al pallone. Questo getta una ombra lunghissima su tutto il mondo del calcio, purtroppo attualmente più preoccupato della attuale situazione di Blatter e Platini e della FIFA che della salute dei suoi giocatori, nonostante la battaglia portata avanti dai familiari di Astle. Il problema è l'approccio alla questione. Si trovano più dati per i bambini in America che per i professionisti in Europa. Non esistono dati sul rugby e su molti altri sport di contatto.

Mentre la NFL è intenta a festeggiare la 50esima stagione dall'introduzione del Super Bowl, su binari molto differenti si continua a combattere una battaglia che va avanti da più di dieci anni, che entra nella fase centrale e che determinerà quello che sarà il futuro della NFL e del football professionistico da qui a 20 anni. Potrebbe soccombere in popolarità o fare il vuoto con gli altri campionati puntando sulla trasparenza e consapevolezza, una Lega di giocatori realmente consci dei pericoli, coperti finanziariamente nella malattia e sempre più protetti dal punto di vista della salute. Per farlo c'è bisogno però di una netta presa di coscienza e di un forte cambiamento culturale su molti livelli, dai dirigenti ai coach, passando ovviamente per i giocatori.

Ma sarà anche e soprattutto una enorme sfida di immagine per la NFL. Roger Goodell ha già dimostrato in passato di gestire in modo pasticciato le crisi, partendo dai casi di violenza di Ray Rice, passando per quello Adrian Peterson e arrivando a quello di Greg Hardy. La reputazione del commissioner, nonostante i record di fatturato della Lega, è da tempo appesa a un filo. Riuscirà Goodell a gestire una bolla che rischia di scoppiare a livello di opinione pubblica su scala mondiale? Perché in NFL la percezione spesso supera la realtà.

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