“La bellezza umana in questione [agonistica] è una bellezza di tipo particolare; si potrebbe definire bellezza cinetica. La sua forza e la sua attrattiva sono universali. Sesso o modelli culturali non c’entrano. C’entra, piuttosto, la riconciliazione tra gli esseri umani e il fatto di avere un corpo.”
[David Foster Wallace - “Federer come esperienza religiosa”, 2006]
«Miky scusa è una puttanata, non vengo. Ciao.»
Il messaggio da Andrea Meneghin mi arriva alle 18:49, circa quattro minuti in ritardo rispetto al nostro appuntamento. Osservo lo smartphone perplesso. Poi alzo la testa: il “Menego” è entrato nel locale e si sta facendo le sue belle risate. La “puttanata” cui si riferisce mi era nata in testa qualche tempo fa, sentendo Andrea commentare le partite di Eurolega e del Real Madrid. “Luka Doncic”, pensai, “è in qualche modo l’evoluzione 2.0 di Andrea Meneghin, il nostro Luka Doncic prima di Luka Doncic”.
«Ok confermo è una puttanata!» esplode ridendo appena seduto il Menego sentita la mia ardita idea. Per ammansirlo ordino due birre e gli chiedo gentilmente di ascoltarmi due secondi mentre beve i primi sorsi, prima di continuare con gli improperi. Gli propongo la frase di un libro di David Foster Wallace, “Considera l’aragosta” (2005). C’è un passaggio che recita così:
Potrebbe essere benissimo che noi spettatori, privi dei doni divini degli atleti, siamo gli unici a essere davvero in grado di “vedere”, esprimere e animare l’esperienza del dono a noi negato. E che coloro i quali ricevono e mettono in pratica il dono del genio atletico debbano, di necessità, essere ciechi e muti al riguardo, e non perché la cecità e il mutismo siano il prezzo di quel dono, ma perché ne sono l’essenza.
La citazione del più geniale scrittore americano dei Nineties (pace all’anima sua) mi torna utile per portare il Menego ad “aggirare” questa sacrosanta verità così lucidamente descritta da DFW. Conoscendo la ritrosìa tipica dei grandi giocatori – e ancor di più, di giocatori dalla grande intelligenza e altrettanta umiltà come Andrea [vedi nota a pié di pagina n. 1] – nel raccontare se stessi e il proprio talento che solo a loro appare come la cosa più normale e naturale, provo ad aggirare l’ostacolo proponendogli il paragone che mi ronza in testa da qualche mese.
E se a parlare di un grande talento di pari o superiore qualità fosse un altro grande talento ormai in età adulta, passato ad allenare e con il ritiro dall’agonismo datato ormai al lontano 2006? In questo modo riusciremmo ad aggirare la constatazione di DFW, forse.
Notando che il dubbio della “puttanata” non si è ancora levato dalle sopracciglia di Meneghin, colgo l’occasione per provare sia a scalfire l’ironia e la modestia di uno degli interlocutori più simpatici e brillanti con cui mi sia mai trovato a dialogare, sia a dipanare i punti interrogativi dei lettori, soprattutto quelli delle nuove generazioni che forse non ricordano che mammasantissima di giocatore fosse Andrea. «Sentiamo...» mi sfida il Menego incrociando le braccia.
Innanzitutto la struttura fisica: due metri per 100 chilogrammi, entrambi. Menego più longilineo, un fascio di muscoli e nervi, e Luka con più massa, certamente, ma lo chassis di base è lo stesso.
Figli d’arte, entrambi. Per Dino Meneghin non credo servano presentazioni; per Sasa Doncic - che comunque l’Eurolega l’ha giocata con Lubiana - magari sì, ma vi rimandiamo alla nostra intervista con lui sul figlio di due anni fa.
Esordienti al massimo livello a 16 anni, entrambi. Meneghin con la sua Varese, Doncic con il Real Madrid: entrambi già decisivi sin dalla stagione successiva ed entrambi presto decisivi in Europa. [n.2]
Un modo di giocare e intendere la pallacanestro da subito istintivo, altruista, geniale, totale: sanno tirare, passare, usare l’altezza, intuire il gioco in anticipo, giocare tre ruoli, divertirsi. Da qui l’etichetta di enfant prodige dai media [n.3] e il rispetto degli avversari guadagnati piuttosto rapidamente.
Il 1999 come anno fondamentale. Per Andrea Meneghin è l’apice della carriera: tra Scudetto della stella con Varese e oro europeo a Parigi, entrambi da protagonista assoluto, il Menego è considerato uno dei giocatori più completi del Vecchio Continente. [n.4] Per Luka, beh… semplicemente viene al mondo, il 28 febbraio di esattamente 19 anni fa.
E poi potremmo aggiungere un oro Europeo come certificazione internazionale del livello raggiunto, vinto dal Menego a 25 anni e da Luka con la Slovenia a 18; o ancora l’aver condiviso gli anni dell’esplosione con guardie pazzesche come Gianmarco Pozzecco e Sergio Llull… ma il concetto dovrebbe essere più chiaro, ora.
Pure Andrea sembra per un attimo vacillare, ma si riprende dopo pochi secondi: «Ti ringrazio per il gran complimento!» è l’unico suo commento, e allora lo devo incalzare chiedendogli quanto sia raro vedere un giocatore così consapevole dei propri mezzi e del Gioco, a quell’età. Quanto è naturale esprimersi così a quel livello, ripensando anche ai suoi primi passi da minorenne in Serie A?
«Più che raro Doncic è quasi unico. Gioca un basket impulsivo, di talento, di genio e istinto. Una delle sue fortune è che sta dimostrando di essere una spugna, una sorta di Terminator T-1000 che appena ti tocca assorbe tutto, migliorando a una velocità allucinante. Sarà chiaramente uno scandalo se al prossimo Draft non verrà scelto alla numero uno, roba che se non succede James Naismith si rivolta nella tomba. Anche se più voci da Madrid dicono che non sia così certo che vada: io lo vedrei bene ancora “da noi”, a vincere tutti gli MVP di giornata prima di fare il grande salto».
La cosa più impressionante di entrambi credo fosse (e sia) il decision making a livelli sbalorditivi per il poco tempo trascorso su certi campi: per questo gli chiedo se capitasse anche a lui di sentirsi in una condizione simile, da così giovane. «È difficile da spiegare, sono scelte istintive prima ancora che giuste: stai conducendo un contropiede tre contro due, arrivi nella zona offensiva e “sai” semplicemente che un palleggio-arresto-tiro da 3 è la scelta migliore in quel caso. Ma lo capisci solo lì, in quell’istante. Quando hai la palla in mano e questo talento, questa consapevolezza, il difensore che hai di fronte “salta” nella tua percezione del gioco. Lo porti dove vuoi tu. Stai già giocando cinque contro quattro, e devi solo decidere come e dove passare la palla. La sfida diventa tale solo quando trovi un signor difensore».
Quindi, in un’ipotetica somma di fattori che compongono la totalità del giocatore, conta di più il talento di tutto il resto? A detta di tutti a Madrid Luka sembra essere pure un eccellente lavoratore, di quelli che vogliono imparare tutto al più presto. Da allenatore (delle giovanili di Varese) m’immagino che Andrea creda fermamente nel lavoro in palestra, cosa che ci riporta alle idee sullo Sport di DFW e al monumentale “Infinite Jest” [n.5], quando l’istruttore di tennis esorta a ripetere spasmodicamente gli stessi gesti. Fino ad implementarli nel proprio Io, per diventare “campioni”...
Ragazzi, la cosa più importante è la ripetizione. Dall’inizio alla fine, sempre. [...] Per accrescitivo intendo l’accumulare attraverso gesti ripetuti, senza l’intervento della mente. Il linguaggio macchina dei muscoli. Fino a che riuscite a giocare senza pensarci. A circa 14 anni, anno più anno meno. Fatelo e basta. Non state a pensare se c’è un senso. Certo che non c'è un senso. Il senso della ripetizione è che non c’è senso. Aspettate fino a quando imbeve il vostro hardware, poi vedrete come vi si libera la testa.
«Credo molto anche in questo, il lavoro in palestra è per forza necessario, ma non è sufficiente purtroppo, altrimenti tutti sarebbero dei Luka Doncic. Ma è fondamentale, perché puoi “assorbire” rapidamente solo con la costanza - il linguaggio-macchina dei muscoli di cui parlavamo prima - e in più ora, rispetto ai miei tempi, c’è la tecnologia che aiuta. Quando giocavo io vedevi magari una volta un avversario forte – e io ho giocato contro Toni Kukoc e Sasha Danilovic, per dirne due – e cercavi di replicare qualcosa del loro gioco, ma ti basavi sul ricordo e improvvisavi da solo in allenamento. Adesso invece con il video puoi rivedere all’infinito i movimenti dei migliori e implementarli scientificamente. E se sei un talento come Luka, ampli il tuo gioco alla velocità della luce».
Note:
1 — È, nello specifico, soprattutto il caso di Andrea Meneghin, probabilmente una delle stelle sportive italiane più restie a parlare della propria carriera, perché come dice lui «sembrano sempre dichiarazioni banali: ho sempre ammirato chi dei miei compagni era capace di interagire tanto con i media».
2 — Qui manca purtroppo il paragone diretto: il Menego, retrocedendo con Varese in A2 nel 1992, giocherà la sua prima coppa europea — la Korac — solo nel 1996, a 22 anni, segnando 14 punti e quasi 2 assist di media. A 17 anni giocava comunque già 20 minuti di media in Serie A; a 21 anni segnava 14.6 punti di media giocando 32 minuti. La sua miglior stagione statistica in A è la 1996-97 a soli 22 anni, con 14.8 punti, 3.8 rimbalzi, 3.1 recuperi e 2 assist di media in 36 minuti. In Coppa Campioni (poi Euroleague) il top è nel 1998-99: 16.1 punti, 3.2 rimbalzi, 2.4 assist, il 63% da 2 e il consueto primo posto assoluto nei recuperi con 2.9 di media in 36 minuti a partita.
3 — Luka Doncic è stato il più giovane del Real Madrid ad esordire in ACB. Nella storia dell’ACB è invece “solo” il terzo più giovane di sempre, a 16 anni, 2 mesi e 2 giorni. Il primo è ovviamente Ricky Rubio, che esordì con Badalona a 14 anni e 11 mesi. Il secondo invece è un piccolo nome di culto, Ángel Rebolo, che esordì nella lontana stagione 1990-91 a 15 anni e 3 mesi con il Breogan, salvo poi letteralmente scomparire dal pianeta cestistico andando a gestire il negozio di mobili della famiglia. Ma per gli almanacchi sarà per sempre una posizione davanti a Doncic.
4 — Agli Europei del 1999 era opinione unanime che l’unico giocatore imprescindibile dello scacchiere tattico del c.t. Boscia Tanjevic fosse solo lui, Andrea Meneghin, uno dei primi veri giocatori europei “contemporanei”, un playmaker di due metri, tiratore, difensore sulla guardia avversaria più pericolosa, passatore, collante della squadra, tuttofare. Il 1999 è l’anno di grazia del Menego che cannibalizza tutto: Campione d’Italia, Campione d’Europa, MVP Supercoppa Italiana, Mr. Europa.
5 — Che una mente umana abbia potuto anche solo concepire un romanzo così folle, geniale e interminabile (il titolo, “Spasso Infinito”, si ispira a un passo dell’Amleto), composto da 1.079 pagine con un’appendice di 388 note a piè pagina, appare al sottoscritto alquanto improbabile. Deve per forza trattarsi di un’opera extraterrestre, una forma troppo intelligente capace di comprendere tutto, lasciarcene memoria e poi togliere il disturbo, in punta di piedi, quasi scusandosi. Ad ogni modo, quel testo e quelle note hanno ispirato tutto ciò che state leggendo, nulla escluso. Per quanto riguarda DFW, alla domanda su cosa fosse il libro rispose che era sul “Perché sto guardando così tanta merda? E perchè lo sto facendo?”.
Come diventare Luka Doncic
Andrea mi ha anticipato su un tema che mi premeva molto, che ha a che fare con gli ambienti dove entrambi hanno avuto la fortuna di crescere con l’esempio dei giocatori più grandi, dei veterani. Per questo gli chiedo quanto sia stato importante per Doncic crescere con Pablo Laso e i fenomeni della generazione spagnola precedente alla sua sin da quando aveva 12 anni.
«È la situazione ideale, il Real Madrid è stato perfetto per crescere. Sempre lo stesso allenatore, Pablo Laso, un ex playmaker di alto livello che probabilmente vede in te tutto quello che in termini di fisico e talento non è riuscito ad essere lui, e riesce a leggerti con più facilità: quando gestire la tua fatica, quando farti spingere sull’acceleratore… E poi delle strutture eccellenti, oltre a un club dove si gioca sempre per vincere. Ma soprattutto la qualità incredibile dei compagni di squadra, la crème della Spagna: quando un lavoratore come Reyes, a 38 anni, ti dice “andiamo ad allenarci domattina, così miglioriamo” diventa difficile non farsi coinvolgere da quest’etica lavorativa, così come diventa difficile non attingere alle cose migliori di Rudy Fernandez, Sergio Llull, prima ancora Sergio Rodriguez… le migliori guardie spagnole».
Un’ispirazione veramente illuminante, effettivamente. Gli chiedo se si ricorda di avere avuto un compagno con lo stesso approccio maniacale di un Reyes, nei suoi primi anni, e se questo influiva sul suo, di approccio all’allenamento e al lavoro. Uno dei miei “pallini” di quegli anni era il suo compagno Reggie Theus [n.6], da cui qualcosa deve per forza avere appreso...
«Beh forse sì, nel senso che Theus lo osservavi in allenamento — non era difficile, considerata l’intensità relativa che ci metteva… — e copiavi qualche palleggio, qualche movimento. Uno che invece era un mostro dalla mattina alla sera ogni giorno era il mitico Arijan Komazec, che nei primi tempi paragonavano addirittura a Drazen Petrovic. Io però sinceramente non mi sentivo troppo condizionato, nel senso che mi sentivo già ok con gli allenamenti normali, non vedevo motivi per aggiungerne altri [ride]…».
“Touchè” penso, toccando il boccale di birra del Menego in suo onore, e gli chiedo invece un’opinione sulla gestione di Luka dei finali tirati, quando la pressione cresce ma lui non sembra subirne le conseguenze negative (rimane solo da capire se l’ultimo periodo in Eurolega - e il finale contro l’Olympiacos - siano solo degli incidenti di percorso): «È semplicemente un predestinato: qualcuno ha la qualità di gestire i finali e di fare canestro, tutti gli altri no. È così, e non ci si può far nulla, per me è una sorta di karma: è già assegnato alla nascita. Certo, una volta ti può andare bene, ma è una su un milione, non puoi dire razionalmente “ora segno il canestro della vittoria”, non accade così. Ciò che fa la differenza è sempre e solo la continuità, quante volte puoi rifare la stessa cosa».
Sembra quasi di risentire il DFW più devoto dopo “l’esperienza religiosa” a Wimbledon con Federer: “La sensazione del profondo privilegio personale di essere vivo e di assistere a tutto questo”. Ma avrà mai un difetto questo Doncic?! Prima sembrava poter essere il fisico, ma se l’atletismo è sempre stato di buon livello, ora è pure piuttosto grosso...forse possiamo chiamare in causa la difesa, le forzature e il nervosismo, per abbassarlo perlomeno al rango di semidio? Lo chiedo perché ho ancora in mente gli scivolamenti di Andrea su Henry Williams, nelle finali del 1999 contro Treviso, o gli aiuti in Nazionale: era considerato il difensore sugli esterni più tosto d’Europa, o giù di lì. [n.7]
«Eh...Non lo so, so solo che il “Poz" racconta spesso che non doveva preoccuparsi di essere battuto dal suo uomo perché diceva che dietro c’ero sempre io ad aiutare, e questo di sicuro lo so! [n.8] Scherzi a parte, per me la difesa rimane al 70% forza di volontà di tenere l’avversario per uno-due-tre palleggi, e il restante 30% qualità atletica. È cestisticamente impossibile dedicare il 100% del proprio sforzo fisico contemporaneamente al lato offensivo e difensivo della tua partita, e quindi si fanno delle scelte, altrimenti calano i tuoi minuti perché non ce la fai. Al Real Madrid mi sembra che la filosofia comune sia quella di dedicare un 30-40% alla difesa e tutto il resto all’attacco, e Luka non credo si trovi in disaccordo: sembra a tratti lento, ma è una trappola, altrimenti non andrebbe in coast to coast superando tutti. In un altro sistema difensivo potrebbe diventare un problema: lo vedrei bene allenato da Obradovic, ma anche da Jasikevicius. Sulle forzature dell’ultimo periodo: sai, ogni giocatore attraversa dei periodi cui un tiro gli piace particolarmente. Continui a lavorarci e continui a prendertelo, nonostante tutto. Io avevo un movimento di cui mi ero innamorato durante i miei 20 anni a Varese: penetrazione verso un lato, cambio di mano e tiro… era talmente lento che il mitico coach Dodo Rusconi mi obbligò a dimenticarlo, ma a me piaceva moltissimo!».
«Se vogliamo è un piccolo indicatore del potenziale di Luka: capire che è impossibile essere sempre in forma per tutta la stagione, e scegliere di conseguenza» continua il Menego. «Tiri da tre di quel tipo — tra finte, step back e palleggi — stancano anche il corpo di un 19enne. Riconoscere al volo la propria condizione e usare di più il post basso, per fare un esempio, è un segno di maturazione. Non mi stupirei che un ragazzo così fenomenale nell’apprendimento mostrasse cose di questo tipo già nel finale di questa stagione. Sul nervosismo credo proprio sia solo questione di età: vuole far vedere che c’è, magari replica qualche giochetto sporco di Reyes, scatena qualche testa calda, commette qualche errore. Io ho continuato a farlo anche dopo i 20 anni comunque! [ride ancora]».
E il tiro? Quello di Andrea era di una pulizia e rapidità strepitose, Luka in Eurolega negli ultimi due mesi sta tirando da dietro l’arco con il 22% (11/48) [n.9]... Alcuni parlano addirittura di parabola da aggiustare o di meccanica da modificare. Gli chiedo se da allenatore gli cambierebbe qualcosa.
«Da allenatore gli cambierei di sicuro… il taglio di capelli! No dai, seriamente, è quasi perfetto così com’è. Sento spesso parlare del suo tiro, della parabola che non è mai la stessa, e sai qual è il rischio, a cambiargliela? Che raffinandolo in modo non naturale diventi un tiro sempre uguale, efficace solo con un certo tipo di equilibrio, perdendo il range di alternative odierne che lo portano a segnare in tanti modi diversi, in tante situazioni dinamiche differenti. Steph Curry, ovviamente per adesso a un altro livello, fa cose simili, modificando sempre i suoi tiri, mai uno uguale all’altro, eppure è di un’efficienza incredibile. Il tiro è un non-problema, a mio avviso: uno che domina così a 19 anni dominerà anche in Nba, quando vorrà andare».
In definitiva, ci stiamo avvicinando molto al giocatore ideale e totale. [n.10] Forse addirittura quest’anno a causa dell’assenza di Llull abbiamo avuto modo di apprezzarne maggiormente pure le qualità realizzative, ma Luka sembra segni più per necessità che per indole, che l’altruismo sia una parte integrante della sua pallacanestro. Andrea era l’epitome di questa condizione, un giocatore che condizionava le partite a prescindere dal tabellino a fine gara.
«Credo sia sempre un mix di mentalità e di esempio esterno. Luka — lo ripeto ma è così — è un super talento, ma è anche circondato da giocatori che hanno fatto di questa qualità una prerogativa: ovunque io abbia giocato, e se guardi indietro anche il passato — mi viene in mente l’Ignis di mio padre —, le squadre più vincenti sono sempre e solo quelle che hanno deciso di condividere completamente questo spirito. E per dire, anche giocare l’Europeo [n.11] con un “Esempio” che a Doncic mancava nella sua esperienza, ovvero Goran Dragic, gli ha permesso di crescere ancora, quasi all’improvviso».
«Che poi è anche una questione di Bellezza» conclude il Menego. «Arrivi in spogliatoio, è tutto stupendo, in strutture clamorose, con attorno compagni di quel calibro e ti dici “Che bello! Cazzo voglio essere anch’io parte di tutta questa Bellezza”. E così provi a diventare la versione sempre più bella di te stesso, giorno dopo giorno».
«Wow» mi sorprendo a pensare ad alta voce, «Menego, così mi diventi addirittura filosofo… e questa considerazione quando l’avresti realizzata?!».
«Più o meno… adesso!».
Ride Andrea Meneghin mentre finisce la sua birra, un po’ per levarsi d’imbarazzo un po’ perché forse è così come dice, e il flusso delle sue ultime parole, che tradiscono inconsciamente i ricordi più radicati dei suoi anni formativi, non possono far altro che ricondurre per l’ultima volta al grande David Foster Wallace e alle sue ultime frasi in “Federer come esperienza religiosa”:
Se tra quegli juniores ci fosse un novello Federer non è dato sapere. Il genio non è riproducibile. L’ispirazione, però, è contagiosa, e multiforme, e anche soltanto vedere, da vicino, la potenza e l’aggressività rese vulnerabili dalla Bellezza significa sentirsi ispirati e (in modo fugace, mortale) riconciliati.
Un’ispirazione che scorre come l’elettricità dalla notte dei tempi di talento in talento, di compagno in compagno, alimentando da sempre le più belle espressioni delle generazioni successive e che — ne siamo sicuri — in qualche strambo modo passando da Varese a Lubiana è arrivata da Andrea anche a Luka, seppur il Menego smentisca categoricamente: «Dai su non scherziamo! Ma quale mia versione 2.0?! Questo fa 25 di valutazione ogni sera a 19 anni, come minimo è la 20.0!».
Siamo ai titoli di coda: saremo riusciti infine a smentire l’assunto di DFW per cui è “impossibile descrivere concretamente la bellezza di un fuoriclasse, o evocarla?”. Il cerchio da chiudere è probabilmente troppo ampio, sfumature cui forse solo talenti non-verbali come quelli del Menego e Luka hanno accesso, ma con il tempismo e la delicatezza delle migliori sceneggiature arriva come sempre in soccorso la realtà, da un tavolo vicino: un ragazzo, dal fare devoto e stupito — vedendoci in procinto di mettere i cappotti — si alza e avvicina.
Approccia il Menego, e gli chiede «Andrea Meneghin vero?!».
«Sì, ciao!» risponde Andrea stringendogli la mano con il suo solito modo caloroso.
«Volevo solo dirti grazie, è per merito tuo che ho iniziato a giocare a pallacanestro».
Note:
6 — Protagonista — non del tutto in positivo — di una delle più celebri citazioni dell’Avvocato al secolo Federico Buffa: “Avendo la Famiglia Bulgheroni venduto Rusconi alla Benetton per il Prodotto Interno Lordo del Niger, i denari vennero così re-investiti: un elegante centro sportivo, tuttora in voga… un campus… e la milionata a Reggie Theus… ‘O anima doo purgatorio’ avrebbe detto il Nonno di Bellavista…”.
7 — Se c’è un istinto che accomuna Luka al Menego non provabile empiricamente è l’istinto per quanto riguarda gli “intangibles”, sublimato da Andrea all’apice della sua carriera in difesa grazie a reattività e a fiuto ineguagliabile per i movimenti di uomini e palla. Negli anni Novanta le statistiche avanzate e i sistemi di rilevamento di oggi dovevano ancora essere inventati: ci fossero stati è opinione personale che Meneghin sarebbe stato nella Top-5 di ogni categoria statistica difensiva.
8 — A proposito di ispirazione, Andrea ha anche affermato che il Poz gli ha insegnato ad inserire gli stecchetti nei citofoni, in modo da bloccarli e continuare a farli suonare. Tattica che il Menego usò per parecchie notti consecutive proprio sull’amato compagno di squadra, facendolo andare fuori di melone.
9 — In Eurolega fino alla partita del 19 Dicembre contro Valencia Luka tirava da 3 con un buon 39%, da lì il calo. In ACB questa stagione sta tirando con il 30% (24/80, 4 tentativi a gara), dato in linea con lo scorso anno (29%) e di certo non del livello che ci si aspetterebbe da un giocatore con quel talento e quella facilità di tiro. È ancora presto per giudicare ovviamente, così come influiscono molto sulle basse percentuali i tanti tiri presi allo scadere dei 24 secondi o dei periodi, quando i compagni - in assenza di uno “specialista” come Llull - gli consegnano la patata bollente confidando nell’impresa. Conclusione: scout d’oltreoceano, non allarmatevi.
10 — Andrea, due ore dopo l’intervista – avvenuta venerdì 23 febbraio alle 19 – e durante la telecronaca del match di Eurolega tra Barcellona e Real Madrid commenterà così le domande di Andrea Solaini, collega a Eurosport:
«Andrea, Luka è il miglior giocatore d’Europa?».
«Assolutamente, per l’età…».
«No no, lascia stare l’età, la mia domanda è diversa… è il migliore d’Europa adesso?».
[Silenzio]
«Sì… io dico di sì».
11 — Sasa, il padre di Luka, è nato il 14 Giugno 1974 a Šempeter pri Gorici, in italiano San Pietro di Gorizia. La presenza della città friulana nel nome del paese natio non è casuale: storicamente territorio italiano e sotto le province di Udine prima e Gorizia poi fino al 1945, la frazione slovena dista soli 600 metri dal confine. Seicento metri che, lasciando correre l’immaginazione, con un po’ di fortuna avrebbero potuto fare la differenza prima per la nazionalità di Sasa Doncic e, dal 1999, per il figlio Luka. In altre parole e modificando di qualche centimetro sulle mappe i confini, Luka Doncic poteva essere italiano, il quintetto con Gallinari, Belinelli e Datome da Top-3 europea, la FIP con qualche medaglia in più in bacheca e i mali nostrani legati a giovanili e diatribe italiani vs stranieri spazzati improvvisamente sotto il tappeto per i successivi 15 anni. Tutto per pura casualità, che rimane comunque un criterio più comprensibile delle attuali logiche del basket italico.