Il cronometro segna il minuto 111 quando la Colombia, dopo aver bloccato un attacco argentino, si lancia in una transizione offensiva di quelle dettate dalla frenesia di una partita che ha ormai perso ogni brogliaccio tattico. Leandro Paredes è nel cerchio di centrocampo: disegna una diagonale, accelerando, per andare a chiudere in scivolata l’inserimento di Carrascal. Arpiona la palla, e la tocca di prima per Lautaro Martínez, che a metà del primo tempo supplementare ha sostituito Julián Álvarez in un triplice cambio profetico, che gliela restituisce. Paredes la controlla con la suola, riflette un istante di secondo, e con un no-look lascia sfilare la sfera verso Lo Celso, in posizione di enganche. Fino a quel momento ha sbagliato pressoché tutto, Lo Celso: deve però sentire, dietro la nuca, il soffio del vento che fanno i tori quando vengono liberati nella cuesta di Santo Domingo all’inizio della Feria de San Firmín. È Lautaro che scatta in progressione: Lo Celso, allora, apre il piede sinistro, come un compasso, e con un passaggio di sponda innesca el Toro.
La conclusione di Lautaro ha la precisione chirurgica di ogni sua definizione a tu per tu con il portiere, ma anche una carica emotiva straripante. Perché è il quinto gol della sua Copa América, in poco più di 220 minuti giocati. Perché è quello della vittoria definitiva, che consente all’Argentina di sollevare, per la sedicesima volta, la Copa. Di farlo back-to-back, come si dice, con il dolce intermezzo di una Coppa del Mondo. Ma soprattutto perché è il gol della redenzione, per Lautaro: quello che gli permette di riprendersi tutto ciò che il Mondiale, in qualche modo, gli aveva tolto.
C’è un tempo per ogni cosa, verrebbe da dire. Anche se quel tempo a volte è lunghissimo, sprimacciato, denso di avvenimenti.
La finale della Copa América ci ha messo un’ora e mezza in più del previsto, a cominciare. Ai tornelli dell’Hard Rock Stadium di Miami si è consumato forse il picco più alto del disagio organizzativo di questa competizione, con i tifosi trattenuti fuori dai cancelli, i flussi gestiti in maniera approssimativa, i posti sugli spalti occupati da chi non aveva il biglietto (ed era comunque riuscito a entrare, anche in maniera creativamente ridicola) e molti, moltissimi tifosi rimasti esclusi dallo spettacolo. Un disastro annunciato, dopo i tafferugli della semifinale tra Colombia e Uruguay stigmatizzati da Bielsa in una conferenza stampa tremendamente eduardogaleaniana, eppure sottovalutati, come se gli Stati Uniti, tutt’a un tratto, avessero deciso di sudamericanizzarsi.
Argentina e Colombia si affrontavano per la prima volta – in 108 anni di Copa América – nell’atto conclusivo. I Cafeteros, indiscutibilmente la miglior squadra del torneo, si giocavano la storia, inseguendo una vittoria che manca dal 2001 attraverso la prosecuzione di un’imbattibilità iniziata 28 partite prima, proprio dopo una sconfitta con l’Argentina.
L’Albiceleste, dalla sua, battendo la Colombia, inseguiva non solo la chiusura di un cerchio, ma la leggenda. Dieci anni e un giorno dopo una delle date più amare della sua storia, gli si presentava la possibilità di consacrarsi bicampeones d’America, di conquistare il quarto trofeo in quattro anni, e di farlo in quello che era – ed è stato, in maniera annunciata – l’ultimo baile di uno dei suoi uomini più rappresentativi, Ángel Di Maria. Con la convinzione che, comunque fossero andate le cose, nadie te quita lo bailado, come dice un famoso tango. Cioè che nessuno avrebbe tolto all’Albiceleste quanto di buono ha fatto.
Come ha scritto Andrés Burgo qualche giorno fa, la Scaloneta è una specie di Ministero della Felicità – uno dei pochi ministeri, ad oggi, in Argentina, che funziona (e che si può già ritenere fortunato di esistere). Un gruppo solido, perfettamente amalgamato, inossidabile, che si alimenta della propria mistica e che ha una consapevolezza nei suoi mezzi che poche altre Selecciones, ma forse poche altre squadre tout court, possono vantare. Senza mai cedere al fatalismo o all’euforia, Scaloni ha saputo dare a questa squadra un’identità, costruendola attorno a giocatori formidabili, primus inter pares Lionel Messi.
Questa Copa América, per tutta una serie di motivi, doveva essere soprattutto la sua.
E in qualche modo, in fondo, lo è stata.
Quella contro la Colombia, per una fantastica coincidenza numerologica, è stata la finale numero dieci del dieci: se escludiamo la sfida per la medaglia d’oro di Pechino nel 2008 e la primissima gara decisiva, quella del Mondiale U20 del 2005, l’ottava con la Selección – il calciatore con più finali giocate con la maglia della sua Nazionale. Non tutte sono bei ricordi, ma sono nondimeno ricordi, i puntelli della sua legacy: per arrivare all’onnipotenza degli ultimi anni, in cui vestendo albiceleste si è trasformato in Re Mida, è dovuto passare attraverso delusioni, frustrazioni lancinanti e uno sconforto apparentemente irrisolvibile che l’ha quasi portato al ritiro. Se non l’ultima battaglia, questa con la Colombia era sicuramente una delle ultime: quella in cui avrebbe cercato di rimpinguare il bottino di 109 reti, o di segnare per la prima volta il suo nome nel tabellino della finale. Di essere, ancora una volta, decisivo.
Non è stata una Copa América brillante, quella di Leo. Dopo l’esordio con il Canada, in cui è entrato in entrambe le azioni dei gol, si è eclissato anche per via di un infortunio fastidioso. Ha saltato la gara con il Perù, è tornato contro l’Ecuador ed ha fallito un rigore che sarebbe potuto risultare sanguinoso. La prima rete, su rigore, l’ha messa a segno nella semifinale contro il Canada, come fosse un atto dovuto, ma gli strascichi dell’infortunio lo hanno condizionato, portandolo in qualche modo a prendere coscienza del fatto che il nemico più complicato da affrontare, ora, sia il tempo che scorre e non lo fa più essere il tipo di giocatore che è stato, che vorrebbe essere. «Ho 37 anni, e lo sa solo Dio quando tutto questo finirà», ha detto in limine alla finale.
José Santamarina, in un libro che si chiama «Ya está. Variaciones sobre Messi», ha scritto che Lionel è «l’illimitata riproposizione del dramma del limite»: lo è sempre stato, ma ogni giorno lo è un po’ di più. Ogni volta che si tocca la coscia, che cade a terra, che sulla faccia gli si dipinge una smorfia di dolore, la sua fallibilità prende forma, assume i contorni sfilacciati dei sogni nel momento in cui ci stiamo svegliando.
E quei contorni si sono fatti nitidi quando al 35’, nel tentativo di arginare una chiusura colombiana sulla linea di fondo, la caviglia destra ha assunto una postura innaturale, piegandosi su sé stessa.
Nitidissimi quando mezz’ora più tardi – dopo aver trotterellato per il campo, quasi sempre avulso dalle folate offensive dei suoi, spettatore incupito e inerme degli attacchi a grappolo dei colombiani – nel tentativo di rincorrere un avversario, è franato a terra e ha chiesto di essere sostituito.
L’accostamento delle lacrime di Leo a quelle di Cristiano Ronaldo di qualche settimana fa – parimenti inconsolabili – è suggestivo, come lo è la fatalità che disarma l’eroe nel bel mezzo di una gara epocale, proprio come il suo doppelgänger nella finale dell’Europeo del 2016.
Ma sono lacrime, in qualche maniera, diverse: perché quelle di Ronaldo sono il pianto per l’ostinazione non ripagata del totem nonostante il quale il Portogallo cerca di avanzare, mentre quelle di Leo sono lacrime che bagnano l’impossibilità di accompagnare un gruppo che darebbe la vita per lui, che gli è – e gli sarà – eternamente grata e che ciononostante deve imparare a prescinderne. Non lo so, cosa sia passato per la testa di Leo in quei momenti. Prima della partita l’ipotesi che, con la Copa in mano, potesse dire «non l’ho fatto finora per non distogliere l’attenzione del gruppo, ma credo che sia arrivata la fine» era una possibilità. Ora, ora che si toglie la scarpa e si porta le mani al volto in panchina, scoprendo la stessa caviglia martoriata dalla semifinale del 2021 proprio contro la Colombia, gonfia come quella di Diego a Italia ‘90, sembra una probabilità.
Al suo fianco, il primo a consolarlo, è Paredes. In questo forse sì – come Ronaldo nel 2016 aveva in qualche modo trasmesso un flusso, messo il bigliettino tra le labbra come si fa per animare i golem a Eder che lo aveva sostituito – c’è stata una trasmissione di continuità.
Dopo l’uscita dal campo di Messi, l’Argentina ci ha messo un po’ per riprendersi, per riorganizzarsi. La Colombia di Lorenzo, ben organizzata, precisa, non ha saputo affondare il colpo, non ha saputo essere cinica. Nel vortice di mancata incisività dei dieci è finito per essere risucchiato anche James Rodríguez, al quale l’overthinking scatenato dal ritardo dell’inizio della partita non sembra aver fatto bene.
Nico González, che ha preso il posto di Messi, ha cercato di incidere, ha segnato un gol annullato per fuorigioco, ha innescato Julián Álvarez e Di Maria, ma senza successo, e la partita è scivolata verso i tempi supplementari. Uno degli ultimi squilli è stato proprio di Di Maria, che a tu per tu con Camilo Vargas, dopo un errore potenzialmente fatale di Mojica, si è fatto ipnotizzare dal portiere colombiano.
Di Maria, che dopo la resa di Messi si è cinto il braccio con la fascia da capitano, era l’altro protagonista atteso. Che quella contro la Colombia sarebbe stata l’ultima partita in Albiceleste si sapeva già da tempo: prima dell’inizio della semifinale con il Canada, negli spogliatoi, Messi aveva invitato i compagni a raggiungere la finale per il Fideo. L’avvicinamento alla finale è stato una lunga milonga triste e trasognante, fatta di tributi pieni di accostamenti biblici e video emozionali sul lancio della serie tv che si propone di raccontare come abbia rotto la parete.
La sua Copa América, sul campo, se vogliamo, è stata ancora più opaca di quella di Messi, introiettiva, malinconica, in cui è sembrato l’Angelo Sterminatore di Ernesto Sabato, personaggio che si interroga sul passato e sul presente, impegnato in una via crucis in cui si mette in discussione, tira le fila di tutte le vessazioni subite, affronta i propri fantasmi, il senso della caducità, dell’irripetibilità, del tempo che scorre.
Che Di Maria sarebbe uscito in lacrime da questa finale, c’era da aspettarselo. Ma per un calciatore così pivotale nella storia recente del calcio argentino, capace di caricarsi sulle spalle la condanna di essere comprimario della straordinarietà, protagonista di un percorso di redenzione personale e comunitario senza precedenti, capace di segnare in tutte e tre le finali giocate prima di questa, un’uscita di scena ammantata da lacrime di delusione sarebbe stata fin troppo ingenerosa.
Per questo, in fondo, l’uscita di scena che Scaloni gli ha tributato a una manciata di minuti dalla fine, sostituendolo con Otamendi, non ha il sapore sapido delle lacrime, ma quello dolce delle lacrime che finiscono la loro traiettoria sulle cuspidi di un sorriso, di una gioia più profonda, ecumenica, che nessun premio come migliore in campo può darti.
Il fischio finale dell’arbitro Claus, che arriva pochi minuti dopo la sostituzione di Di Maria, sancisce l’inevitabile: la Scaloneta, per la quale sembra essere diventato impossibile perdere, conquista ancora una volta la Copa América, ancora una volta un trofeo, e lo fa grazie alla spinta propulsiva di una mistica capace di generare nuove motivazioni, dalle quali scaturiscono nuovi protagonisti. Questa volta, se non di Messi, se non di Di Maria, la Copa è tutta di Lautaro Martínez, capocannoniere capace di non subire ma al contrario sublimare il ruolo di comprimario di Álvarez; e poi è di Paredes, della coppia difensiva formata dal Cuti Romero e dal carnicero Lisandro Martínez, dell’intelligenza di Alexis MacAllister e della resistenza di Rodrigo De Paul. Dell’aura del Dibu, e di un allenatore che – come ha detto in conferenza stampa, subito dopo il successo – non smette di sorprendersi. E di sorprenderci.
Quando è arrivato il momento di alzare la Coppa, Messi si è fatto affiancare da Otamendi e Di Maria. I tre senatori del gruppo sono andati a raccogliere dalle mani del presidente della CONMEBOL il frutto di tutti gli sforzi, di tutti i sogni, il riconoscimento di una parabola di un nitore annichilente.
Alla carte del cinque di coppe, nei tarocchi, segue inevitabilmente il sei di coppe.
Un uomo barbuto, simbolo incanutito della saggezza, porge la coppa a una figura giovane, epitome delle nuove generazioni, del futuro.
Le mani che si uniscono attorno alla coppa sanciscono non solo una condivisione, ma un ideale rito di passaggio.
Sullo sfondo c’è tutto quello che è successo negli ultimi dieci anni, avvolto in un alone nero.
Bene: quel nero non è l’oblio.
È solo il cielo scuro di quando è notte alta.
Una notte dopo la quale, come sempre, ci sarà una nuova alba.
Una notte grazie alla quale, anche o forse soprattutto perché buia, le stelle possono rilucere più ardentemente.