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Fabrizio Gabrielli

Guida galattica ai quarti di finale di Copa América

Come sta andando il torneo sudamericano negli Stati Uniti.

Seppure con un notevole ritardo di epica e mistica, almeno da un punto di vista di sincronia, il Sudamerica si è finalmente allineato all’altro lato dell’Oceano: i quarti di finale dell’Europeo sono ora pronti a sovrapporsi a quelli della Copa América, che è appena uscita dalla fase a gironi – saltando l’orpello novecentesco degli ottavi di finale – e si prepara a vivere lo psicodramma dell’eliminazione diretta.

 

Ora il tabellone vedrà sfidarsi, da una parte e dall’altra, le prime e seconde classificate dei gironi, in una formula che sembra studiata per condurre a una finale tra Argentina e la migliore sfidante: l’Albiceleste, che ha stravinto il suo girone con Canada, Perù e Cile, dovrà liberarsi della seconda classificata del girone B (l’Ecuador) per poi ritrovarsi, in semifinale, potenzialmente ancora una volta di fronte alla seconda classificata del suo girone (si sfideranno infatti Canada e Venezuela). Lo stesso accadrà dall’altra parte del tabellone, dove però – come previsto – andrà in scena una totale mattanza.  

 

Il Brasile, classificatosi alle spalle della Colombia, dovrà vedersela con l’Uruguay di Marcelo Bielsa in quella che è, al momento, la prima sfida davvero interessante di questa Copa. La Colombia, dalla sua, dovrà disfarsi dell’abbordabile e sorprendente Panama per poi trovarsi, in potenza, di fronte a un’altra serissima contendente in semifinale.

 

Nel lato destro del tabellone, insomma, si prospettano almeno altre due finali: l’unica maniera, in fondo, per cominciare a rendere la Copa América qualcosa per cui valga la pena di tirar tardi fino alle tre del mattino. 

 

Ma come ci arrivano, le qualificate, a questa serie di duelli ferali?

 

Argentina – Ecuador

 

Possibilità di passaggio Argentina: 70%

Possibilità di passaggio Ecuador: 30%

 

ArgenToro

L’Argentina ha chiuso il suo girone a punteggio pieno, imbattuta e con la porta inviolata: tutto come previsto, calcisticamente e narrativamente, ma a tratti ancora di più. Mai come in questa edizione l’egemonia culturale albiceleste è stata così massiva: basti pensare che i quattro tecnici che hanno vinto i gironi sono tutti argentini.

 

Doveva essere la Copa di Messi, e almeno inizialmente lo è stata: con un third-pass apriscatole che ha scardinato la difesa avversaria e un assist nella partita d’esordio contro il Canada, Lionel ha subito tenuto fede alle promesse. Ha festeggiato il compleanno avvolto da una patina di benevolenza ecumenica, ha offerto la sua torta di compleanno ai tifosi che lo osannavano sotto la sede del ritiro, ma soprattutto è esploso in tutta la sua umanità, sbagliando un gol – con il Canada – che ci aspettavamo segnasse a occhi chiusi e poi, perfettamente in linea con l’epica dell’eroe stanco, si è inceppato, fermato da un infortunio che lo ha tenuto fuori nell’ultima partita del girone – e per il quale rischia di saltare i quarti contro Ecuador. Il palcoscenico, svuotato del suo principale interprete, si è quindi riempito con personaggi alternativi, non necessariamente minori. Di Maria, con la fascia da capitano nell’ultima partita del girone, ha servito un assist delizioso di prima e innescato Montiel nell’azione del rigore (poi fallito da Paredes, proprio nel giorno in cui compiva trent’anni), e in generale ha dimostrato di saper ancora irradiare un’aura dorata. Ma chi si è proprio preso la scena è stato Lautaro Martínez, autore di 4 gol in 3 partite, due delle quali subentrato dalla panchina: un mal di testa delizioso, se mai ne esistono, per Scaloni.

 

Come ha scritto Jorge Luís Borges, «un uomo, in ogni istante della sua vita, è tutto quel che è stato e tutto quel che sarà, tutto il suo passato e tutto il suo avvenire». Ecco: Lautaro, in questa Copa América, sta mettendo tutta la delusione per non aver vissuto il Mondiale qatariota da protagonista e tutta l’ambizione di continuare a essere quel che ha sempre dimostrato di essere, e cioè un toro nell’encierro di Pamplona che carica difensori sprezzante, e spesso li incorna pure. 

 

Cinico e brutale, ma anche deliziosamente cringe quando ha rischiato di aumentare il suo bottino, Lautaro è per ora l’unico argentino ad aver segnato in tutte e tre le gare della fase a gironi della Copa América: ha raggiunto il Kun Agüero tra i marcatori dell’Albiceleste in Copa (anche se con 11 partite in meno) e in generale sembra sprizzare scintille di fuoco da quando si è sbloccato – e secondo lui a sbloccarlo è stato il rigore che Messi gli ha concesso di tirare al posto suo contro Guatemala nell’ultima amichevole prima della manifestazione, ma anche il cioccolatino sul cuscino di poco dopo non lo sottovaluterei. 

 

In tornei così ristretti nel tempo, avere un finalizzatore nello stato di grazia in cui si trova Lautaro è una condizione invidiabile, specie se la squadra gira comunque alla perfezione. Nel primo gol di Lautaro al Perù l’azione è stata costruita con diciassette tocchi; in quello contro il Canada con dodici tocchi, quasi tutti di prima: gli argentini costruiscono trame di gioco con un possesso mai fine a se stesso, fecondo, dal quale sprizza tutto l’entusiasmo e la felicità del rapporto simbiotico con la pelota. Al netto di psicodrammi e autosabotamenti, niente e nessuno potrà privarli della terza (quarta, se ci mettiamo la Finalissima di Wembley) finale consecutiva.

 

Ecuador, tra delusione e illusione

Nel disegno in testa agli organizzatori, ad affrontare l’Argentina ora ci sarebbe dovuto essere il Messico: invece al secondo posto del girone B si è classificato l’Ecuador, che partiva da favorito e non ha mai trovato la quadra definitiva per sfruttare al meglio il suo potenziale.

 

Che il movimento sia in crescita è chiaro già da un bel pezzo: però forse sono proprio l’aspettativa e l’hype ad avere reso La Tri, paradossalmente, più vulnerabile. L’aria all’interno dello spogliatoio sembra umida e rarefatta come quella che si respira a Quito, e anche tutt’attorno spira pessimismo attorno a Sánchez Bas, colpevole di aver sacrificato la verticalità del gioco spettacolare sull’altare di un possesso spagnoleggiante che diverte meno e che sembra esporre maggiormente agli attacchi avversari (contro il Messico l’Ecuador ha subito 19 tiri contro la propria porta).

 

La sconfitta in rimonta all’esordio con il Venezuela – amplificato anche dall’espulsione di Enner Valencia in apertura – ha reso il percorso molto più difficile del previsto, e la qualificazione è arrivata soprattutto grazie alla vittoria, larga e spumeggiante, contro la Jamaica, nella quale oltre alla stella di Sarmiento è finalmente sbocciata anche quella di un emozionatissimo Kendry Páez.

 

Quando l’Ecuador ritrova la sua natura più primigenia, il turbinio di Preciado, Sarmiento e Páez sembra davvero pericoloso, con Moisés Caicedo nella calma del cuore dell’uragano a dettare tempi e farsi metronomo. Forse, però, contro l’Argentina, servirà decisamente qualcosa di più.

 

Venezuela – Canada

Possibilità di passaggio Venezuela: 50%

Possibilità di passaggio Canada: 50%

 

L’ubriacatura da Vinotinto può essere molesta?

Il girone che si sarebbero dovuti contendere Ecuador e Messico, alla fine, a sorpresa ma neppure troppo, se lo è aggiudicato la Vinotinto. Il Venezuela è l’eterna promessa del Sudamerica, che però – anche per questioni contingenti – non è sbocciata (ancora) mai. Dei vice-campioni del Mondiale U-20 del 2017 – che oggi dovrebbero essere all’apice della loro carriera – nella rosa attuale ci sono soltanto quattro giocatori, mentre il più brillante della spedizione è invece uno che nel 2017 era già in Nazionale da quasi dieci anni, e cioè Salomón Rondón, l’unico giocatore che è stato eletto MVP in tutte le partite giocate finora in questa Copa e che è capace di segnare anche mentre cade.

 


Dire che la Vinotinto si regge soprattutto sulle spalle di Rondón non è sbagliato, ma è comunque ingeneroso: Batista ha organizzato la squadra in maniera funzionale agli exploit del suo totem, il cui perno centrale è la mediana difensiva composta da Yangel Herrera e José Martínez, instancabili nel riaggredire i possessori di palla avversari e innescare l’arroganza di Yeferson Soteldo (chissà da chi avrà preso) o la propulsività di Eduard Bello, che dopo essersi tolto la soddisfazione di segnare in Brasile il gol di un pareggio insperato nelle qualificazioni mondiali è anche andato a segno contro l’Ecuador per il gol vittoria, e contro la Jamaica per mettere il sigillo alla qualificazione ai quarti.

 


Non è bello ciò che è bello, ma è bello veder giocare così Eduard Bello, e più in generale tutta la Vinotinto, che almeno alla semifinale, in fondo, può legittimamente ambire. 

 

L’ultimo residuato nordico

Il cammino del Venezuela si incrocerà con quello del Canada, uscito indenne dal girone – sulla carta almeno – tritacarne composto da Argentina, Cile (due volte campione nell’ultimo decennio) e Perù (finalista nel 2019).

 

La squadra di Jesse Marsch, dopo una dignitosissima sconfitta all’esordio con l’Argentina, si è dimostrata squadra non proprio effervescente – nonostante abbia gli uomini per esserlo – ma solida e concentrata, per certi versi più sudamericana di altre sudamericane nella sua brutalità ringhiosa. Marsch ha scrollato via la patina di ingenuità entusiasta per costruire una squadra cinica, capace di battere il Perù con uno sprazzo di Jonathan David e di resistere – con tutti i mezzi possibili, attirandosi qualche critica – in arrocco contro il Cile. Tutti gli uomini più attesi sono apparsi decisamente sotto tono: Alphonso Davies, Tajon Buchanan e Jonathan David non hanno brillato e anche Eustaquio, normalmente euclideo, specie contro il Perù si è mostrato più timido del solito.

 

Di contro è salito alla ribalta un giocatore dal profilo minore, Jacob Shaffelburg, ala che gioca in MLS con Nashville e che ha apportato una vivacità turbomissilistica agli attacchi sulla fascia dei canadesi. Originario della Nova Scotia, estrema propaggine marina del Paese, terra di gabbiani e pescherecci, Shaffelburg è soprannominato “il Messi Marittimo” ed è un po’ l’orgoglio di tutta una comunità: forse l’unico grimaldello davvero identitario del calcio a nord di Città del Messico rimasto in questa Copa América, ammesso e non concesso che possa servire a qualcosa. 

 

Dovesse sconfiggere il Venezuela, il Canada si troverebbe ancora una volta di fronte l’Argentina: il fatto che sia stata l’unica contendente del girone a metterla un minimo in difficoltà permette a Jesse Marsch, se non ad altri, di guardare al futuro con ottimismo, perché accada quel che accada essere ai quarti, per il Canada, è già un successo.

 

Intermezzo: i tre momenti più weird, finora

 

C’è posta per te

Se almeno una volta hai cercato di acquistare la maglia di Ortigoza del San Lorenzo o quella del Libertad con il nome di Roque Santa Cruz ti sarai imbattuto in Mercado Libre, piattaforma di e-commerce che – un po’ come una specie di basilisco bolivarista tra Amazon ed eBay – si propone di interpretare le regole del libero mercato in ottica sudamericana, tipo permettendoti di pagare a rate. Dopo aver acquisito i diritti per dare il suo nome allo stadio Pacaembù di San Paolo – la casa del Corinthians, e tutto quello che significa, fatto che contribuisce a un’inferenza ancora più weird – Mercado Libre è diventato anche lo sponsor principale – e l’unico latinoamericano – della Copa América: il pallone al centro del campo, soprattutto nelle prime partite, l’ha portato una macchinina telecomandata, metafora del rider, all’interno di una scatola di cartone. Prima di Venezuela – Ecuador, mentre tornava a bordo campo, la macchina si è bloccata: Rondón se l’è caricata per portarla in salvo, sorridendo, ma insomma è il Sudamerica, bellezza.

 

Amen

«Dio benedica tutte le nazioni d’America, ogni squadra, ogni giocatore, ogni tifoso e dirigente, e le loro famiglie. In nome di Cristo».

 

Non so se è un record, ma 70mila persone per una predica sono tante. Nonostante l’articolo 4 dello statuto della FIFA affermi che l’organizzazione «si dichiara neutrale in materia di politica e religione», la CONMEBOL ha dato segnali fin dall’inizio sul fatto che questa Copa América sia tutta sua: in fondo, ehi, siamo nel continente del real maravilloso, solo spostato temporaneamente qualche migliaio di chilometri più a nord. E cosa c’è di più perturbante di una performance affidata a un pastore evangelico? Amen, fratelli! Emilio Agüero Esgaib, peraltro, il pastore on stage, è un personaggio piuttosto interessante: amico intimo di Alejandro Domínguez, plenipotenziario e vulcanico presidente della confederazione calcistica continentale, l’uomo che ha portato la finale di Libertadores a Madrid e questa Copa negli States, Esgaib è il fondatore della chiesa MQV (Más Que Vencedores), ma anche un ex campione di karate e kickboxing che ha trovato l’illuminazione sul ring. Il signore è il mio pastore, non manco di nulla. Ma proprio nulla. In fin dei conti siamo nel paese sulle cui banconote sta scritto “In God we trust”, no?

 

I secondi saranno primi

A cavallo tra la seconda e l’ultima giornata dei gironi, la CONMEBOL ha deciso di mettere un po’ di pepe squalificando per una partita Scaloni, Gareca, Batista e Bielsa. La motivazione, un po’ troppo svizzera se vogliamo: aver ritardato l’ingresso in campo dopo l’intervallo tra primo e secondo tempo. Il fatto che gli spogliatoi, nel ventre dei colossali stadi statunitensi, siano molto distanti dal campo di gioco ha fatto perdere la cognizione del tempo un po’ a tutti. Come corrono le lancette quando ci divertiamo, eh? Il brasiliano Bruno Guimaraes ha raccontato che nell’ultima partita, quando le squalifiche ad Argentina, Cile e Venezuela erano già state comminate, durante l’intervallo hanno guardato tutto il tempo l’orologio, e all’undicesimo minuto si sono anticipati: l’immarcescibile partenza intelligente. 

 

Dal momento che non tutti i mali vengono per nuocere, però, l’occasione è stata propizia per veder sedere sulla panchina di una nazionale, tra gli altri, Walter Samuel per l’Albiceleste – con l’espressione di un tassista sconfitto dalla vita – e un supertonico Leandro Cufré (vice di Batista nel Venezuela). Sì, quel Leandro Cufré

 

Uruguay – Brasile

Possibilità di passaggio Uruguay: 55%

Possibilità di passaggio Brasile: 45%

 

L’ennesima locura di Bielsa

Jorge Valdano, in un’intervista con Ariel Scher per un quotidiano uruguayano, ha detto che «Bielsa e l’Uruguay si somigliano». Come ha scritto Julio Cortázar in Rayuela di Horacio e La Maga, «camminavano senza cercarsi, però sapendo che camminavano per trovarsi».

 

Se da una parte non c’era squadra migliore in cui innestare i principi di Bielsa – una squadra che veniva da un ciclo tremendamente fruttuoso sotto Tabárez e che in qualche modo cercava una nuova genesi – allo stesso modo non c’è squadra che abbia permeato così rapidamente i dettami tattici di Bielsa come questo Uruguay. Una squadra giovane – la quarta più giovane di questa Copa, con un’età media di quasi 26 anni – eppure esperta, che ha il suo cuore pulsante in Federico Valverde e Manuel Ugarte, precisa nelle reti di passaggi, solida difensivamente e aggressiva nella pressione sul portatore di palla avversario, ma soprattutto – e anche soprattutto per questo – estremamente bielsiana. La Celeste è una squadra alla costante ricerca della palla, come fosse una missione di guerra, una battuta di caccia perenne: e una volta riconquistata, come uno stampede di bisonti si riversa in attacco.

 

«L’unica maniera che ho di intendere il calcio è quello della pressione costante, giocare nel campo avversario, mantenere il dominio della palla. Sono un ossessionato dell’attacco», ha sempre detto Bielsa, e questa Celeste ne è la più esatta impersonificazione, schierata con un 4-3-3 che si trasforma spesso in un 2-3-5 quando gli esterni salgono altissimi.

 

Gli esterni: un grimaldello fondamentale. Il gioco di Bielsa è sempre stato, e continua ad essere, orientato su verticalità e ampiezza: esterni d’attacco e carrilleros, tutti rigorosamente non a piede invertito, hanno l’obbligo di affondare e portare il gioco, come una vertigine, verso il centro dell’area avversaria nella maniera più rapida e precisa possibile. Non è un caso che due delle sorprese più scintillanti siano proprio due esterni: Facundo Pellistri, finalmente spogliato di ogni timidezza, e Maximiliano Araujo, autore di un gran gol nell’esordio contro Panama.

 


Ma è soprattutto al grande lavoro sulle fasce che deve le sue fortune Darwin Núñez, che finalmente sta rendendo secondo le aspettative: se prima dell’avvento del “Loco” Darwn aveva segnato solo 3 volte in 16 partite, ora ne ha accumulati 10 in 9 partite, 8 dei quali al termine di giocate che hanno avuto origine proprio dalle fasce.

 

Taglio di capelli scintillante e sguardo affilato, Darwin nelle prime tre partite si è presentato come una macchina da guerra ostinata, capace «di sprecare cinque o dieci occasioni, e comunque provarci per l’undicesima volta» come ha detto dopo la partita con la Bolivia, in cui dopo tanto penare, comunque, il gol l’ha trovato. «Se mi arrendo non uscirà mai fuori nulla».

 

Contro Panama, nei primi venti minuti, l’Uruguay è andato al tiro nove volte – una media di un tiro ogni due minuti. E questa filosofia estremamente offensiva calza a pennello a Darwin, ma soprattutto fa della Celeste una delle squadre più belle da vedere in questa Copa. Una squadra affiatata, che si diverte dentro e fuori dal campo; un gruppo di giocatori sulla cui mente il “Loco” è capace di esercitare un’influenza osmotica più di quanto lui stesso possa credere. Una squadra nella quale alzare il morale alle stelle era l’unico imperativo nella fase a gironi: ora, nella mattanza che è questa parte di tabellone, ad aspettare la Celeste c’è già il Brasile, e nel caso in cui superasse quell’ostacolo già impervio presumibilmente la Colombia. Arrivare alla finale non sarà semplice, ma nessuno ha mai detto che il cammino verso la gloria sia lastricato di petali di rosa. E tornare sulle vette più alte d’America nel centenario della vittoria delle Olimpiadi di Parigi, beh, è un’occasione irripetibile, per Bielsa, non solo per ribadire quanto la sua figura sia influente, ancora, nel mondo del calcio, ma anche per tornare a rafforzare la narrazione di un Paese che smette di essere solo garra per farsi, finalmente, nuovamente, vincente.

 

Il Brasile più brutto degli ultimi tempi è comunque sempre il Brasile

C’è un modo di dire, in Brasile, che si usa quando le cose non vanno come dovrebbero: «Sai, urucubaca», è una specie di scongiuro contro il malocchio, e i brasiliani, negli ultimi tempi, stanno usando quest’espressione un po’ troppo spesso.

 

Il Brasile visto finora in Copa América è uno dei più brutti dell’ultimo ventennio: sterile, incapace di approfittare delle occasioni e di imporre il dominio nel gioco, vulnerabile. Marquinhos, al termine dell’esordio, ha parlato di «problemi di organizzazione». Secondo Cafù è un problema di autostima, e c’entra un po’ la Premier League rea di inculcare nei giocatori della canarinha la certezza di essere i migliori senza esserlo davvero.

 

Il primo «sai urucubaca» di questa Copa ha accompagnato, come una litania, tutto il match contro Costa Rica, in cui la Seleçao non è riuscita ad andare oltre uno scialbo pareggio. Certo, non è stato tutto demerito degli uomini di Dorival – perché Gustavo Alfaro ha dimostrato di avere tra le mani un gruppo di giovani ticos molto interessanti, che lascia ben sperare per il Mondiale del 2026 –, ma insomma: sei pur sempre il Brasile. E anche la sfida al modesto Paraguay, soprattutto nel primo tempo, ha ribadito il concetto che questa Seleçao è, in prima battuta, ed è un’offesa gravissima per il futebol brasiliano: noiosa.

 

Competizioni a corto raggio come la Copa América non smettono mai di ribadire un punto importante: è tutta questione di attimi. Di momenti decisivi, che imprimono svolte e scatenano inerzie. E chissà che il momento chiave, per questo Brasile, non sia il sombrero con il quale James Rodríguez, a una manciata di minuti dall’inizio della partita decisiva con la Colombia, ha irriso Vinicius Junior.

 

La reazione di Vini, che ha appoggiato al diez cafetero una mano in faccia, costerà al brasiliano la squalifica per somma di ammonizioni: Vinicius salterà quindi la sfida all’Uruguay, la più importante finora, e la sua assenza apre tutta una serie di scenari che potrebbero modificare, magari definitivamente, i connotati della Seleçao. Chissà, spalancare la porta a Endrick.

 

Vinicius non è ancora riuscito a neymarizzarsi: in più di trenta presenze con la verdeoro ha segnato la miseria di cinque gol, è stato a secco per più di un anno e neppure la doppietta contro Paraguay è riuscita a convincerci che fosse davvero l’uomo della provvidenza, contro ogni pronostico. Con il Brasile la sua media gol è di una rete ogni 580 minuti: il triplo rispetto a quella con il Real Madrid. E la colpa non può essere soltanto dei campi stretti, o di una presunta persecuzione da parte degli arbitri. Quando ti chiami Vinicius Junior, e sei in odore di Pallone d’Oro, insomma: ci si aspetta semplicemente qualcosa di più. Anche che tu riesca a imprimere sicurezza nei compagni, fiducia nei propri mezzi.

 

Il contesto in cui galleggia il Brasile, invece, è quello di una nostalgia triste. L’emblema di questo sentimento è Paqueta. Da questo punto di vista, il suo errore dal dischetto contro Paraguay, l’emozionalità anche un po’ esagerata con cui ha portato a compimento una rivalsa un po’ minima ripresentandosi sul dischetto, ancora contro Paraguay, per finalmente segnare, è un po’ l’immagine di un sentimento negativo. Volteggia, nella verdeoro, un pulviscolo di nostalgia latente, di incompiutezza che finisce per inserirsi nei gangli del sistema rendendoli farraginosi, scricchiolanti.

 

Questo pugile stanco che è il Brasile, insomma, si presenta sul ring con la consapevolezza che, all’angolo opposto, c’è un rivale aggressivo, asfissiante, soverchiante: ma anche con la saggezza che ti conferisce l’esser già passato per il peggio, l’aver visto il fantasma dell’eliminazione aleggiare sulla tua testa, la sicurezza che peggio di così, in fondo, non può andare.

 

Colombia – Panama

Possibilità di passaggio della Colombia: 90%

Possibilità di passaggio di Panama: 10%

 

L’insostenibile leggerezza dell’essere Cafetero

Da quando ha preso le redini della Colombia, nel marzo del 2022, Néstor Lorenzo non ha perso neppure una partita delle 26 che ha guidato (vincendone 17), ed è a un passo dal record cafetero di imbattibilità: 27 partite a cavallo tra il 1992 e il 1994, quando cioè in campo c’erano Valderrama, Asprilla, Rincón, quella generazione là.

 

Il segreto di quella Colombia era tutta nel centrocampo: un reparto dai meccanismi perfettamente congegnati, formato da calciatori con piedi educatissimi, che alimentava – e a sua volta era alimentato – dalle invenzioni di Carlos “el pibe” Valderrama.

 

Allo stesso modo, questa Colombia gira tutta attorno a James Rodríguez, che a distanza di dieci anni sta ancora entusiasmando il continente inanellando, una dopo l’altra, prestazioni in cui disegna calcio nella maniera in cui pochissimi sanno fare. A titolo esemplificativo ci sono questi tre minuti delle sue pennellate mancine contro il Paraguay, ma contro Costa Rica e Brasile è stato sempre lo stesso show.

 


C’è qualcosa nel mancino di James che esercita su chi lo osserva una malia magnetica: credo sia la sua potenza pantocratica. Ogni suo tocco è come il davar, la parola che diventa fatto: una magia quasi esoterica eppure drammaticamente funzionale, pragmatica, che lo hanno portato a essere coinvolto in 4 delle 6 reti con le quali la Colombia si è guadagnata la testa del gruppo D. Con tre assist e quattro occasioni da gol create è il giocatore offensivamente più influente  del torneo, e ogni volta che c’è un calcio di punizione dal limite, ecco, non possiamo fare altro che pregustare l’incantesimo che scatenerà. Contro il Brasile ha colpito una traversa calciando una punizione dalla trequarti; poi, da una posizione dalla quale ti saresti aspettato un cross, ha cercato di beffare Alisson. Nel mezzo ha messo sulla testa di Davinson Sánchez metà di un gol poi annullato dal VAR.

 

Perdendo – inevitabilmente – un (bel) po’ di atleticità, di propulsione e tonicità, James è finito per giocare subito a ridosso delle punte, dove però ha trovato il suo perfetto posto al mondo. Si è, in qualche modo, valderramizzato. E per la Colombia non può che essere, in fondo, una buona notizia.

 

Come un vaso di coccio tra vasi di ferro

Per Panama trovarsi nel mezzo è quasi una condizione endemica, uno stato dell’anima. Certo, che si riuscisse a spingere fino ai quarti è stata una sorpresa per tutti, tranne che, ovviamente, per il suo allenatore Thomas Christiansen, che magari qualcuno ricorderà per un passaggio effimero al Barça (e una presenza nella Spagna mentre ancora giocava per il Barcellona B). Christiansen aveva detto che la sua squadra, alla seconda partecipazione in Copa América, avrebbe avuto lo stesso impatto del Marocco in Qatar: era complicato credergli, ma dopo aver segnato all’Uruguay (l’unica squadra, finora, ad esserci riuscita) ed aver strappato una vittoria in rimonta agli Stati Uniti le sue parole sono cominciate a sembrare meno bold e più realistiche. 

 

Nel marzo 2022, peraltro, a negare ai panamensi il Mondiale qatariota erano stati proprio gli States, che li avevano umiliati per 5-1: quella di Atlanta è stata quindi una rivincita piuttosto succosa, e chiaramente lo snodo nel quale l’avventura yankee ha preso la china che ha preso, portandoli fino all’eliminazione. Non è ingeneroso dire che la qualificazione di Panama muove i suoi presupposti, innanzitutto, dai limiti degli Stati Uniti: una squadra composta da ottime individualità come Antonee Robisnon, Christian Pulisic e Weston McKennie, da un Balogun che sembrava finalmente essere sbocciato, ma anche estremamente fragile e in fin dei conti condannata da un’ingenuità come quella di Tim Weah, che si è fatto espellere contro Panama condannando i suoi a giocare per settanta minuti in dieci, e infine perdere.

 

Contro la Colombia, Panama non sembra avere nessuna speranza. Ma Christiansen non sembra proprio Don Abbondio: nei suoi crede fortissimo, e il coraggio, uno, se non ce l’ha, non è mica vero che non se lo può dare.

 

La Copa America come test in vista del Mondiale 2026: come sta andando?

Ecco, doveva essere la Copa América del successo di pubblico, del continente che vibra, dell’eccellenza organizzativa: finora, non è stato niente di tutto questo. L’approccio yankee al soccer appare sempre più indecifrabile, e di cristallino, finora, è sembrato emergere solo il risvolto affaristico: gli USA, insomma, hanno capito come usare il calcio, ma ancora non l’hanno saputo capire e, di conseguenza, assimilare. Giocare una partita alle sei del pomeriggio in pieno Mid-West, quando fanno 40 gradi all’ombra, a cosa può portare se non allo svenimento di un guardalinee? Pianificare, nello stesso giorno e a poche ore di distanza, una partita della Nazionale statunitense e un dibattito presidenziale: c’è una maniera migliore per mandare in tilt una città (anche se prepara un ottimo apparato metaforico per il concetto di disastro)?

 

Ma la polemica più importante, e in qualche maniera perfettamente esemplificativa, è quella sui campi da gioco, semplicemente inadeguati. Non solo con terreni zollati alla bell’e meglio, che hanno portato a infortuni anche decisivi, ma letteralmente fuori dimensione. I campi impiegati in questa Copa América sono tutti lunghi 100 metri e larghi 64, il requisito minimo per la FIFA (5 metri più corti e 4 più stretti rispetto ai requisiti della Premier League, per capirci): un dettaglio per niente trascurabile, che ha portato spesso a sovraffollamenti in campo e ha favorito soprattutto le squadre che si sono votate all’arrocco. Se vi è capitato di vedere una delle partite e avete avuto l’impressione che stessero giocando stretti l’uno all’altro, ecco, dipende da questo. 

 

Ma non è solo una questione tattica: i tabelloni pubblicitari del MetLife di East Rutherford, per esempio (e sarà la sede della finale del Mondiale 2026) sono sistemati a ridosso del campo, in maniera tale da rendere un’operazione semplice come battere un corner qualcosa che somiglia di più a raggiungere il mare sulla spiaggia di Capocotta il 14 agosto, e gli spalti lontanissimi, che di certo non contribuisce alla creazione di quell’atmosfera grazie alla quale, in Copa América, emerge tutta la sudamericanità. Spalti lontani, dunque, ma soprattutto vuoti: dopo i 70mila spettatori dell’esordio, infatti, la media si è sensibilmente abbassata, raggiungendo a volte i ventimila spettatori in stadi con capacità da 50-60mila.

 

Certo, non tutte le partite hanno avuto lo stesso potenziale d’interesse (quanti spettatori potevamo prevedere per un Venezuela-Giamaica?): ma se consideriamo che ad essere eliminati sono stati sia i padroni di casa che il Messico (cioè la comunità ispanica più presente negli States), precisamente chi dobbiamo aspettarci sulle tribune prossimamente (a parte gli argentini, che ci sono sempre a prescindere)? 

 

Un biglietto per Argentina-Ecuador a Houston, al momento, costa almeno 315 dollari, più un centinaio per il parcheggio. Venezuela-Canada, che si giocherà ad Arlington, in Texas: almeno 170. La location sarebbe stata perfetta per un’affluenza monstre, soprattutto di tifosi messicani: il primo posto nel girone che ha visto trionfare il Venezuela sarebbe dovuto essere loro, o almeno questo speravano. Le cose non sono andate così, magari negli Stati Uniti impareranno qualche lezione che gli tornerà utile tra un paio d’anni.

 

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Fabrizio Gabrielli scrive e traduce libri. Ha tradotto Eduardo Galeano e Leopoldo Lugones. Ha scritto "Sforbiciate. Storie di pallone ma anche no" (Piano B, 2012), "Cristiano Ronaldo. Storia di un mito globale" (66thand2nd, 2019) e Messi (66thand2nd, 2022). Scrive su Ultimo Uomo dal 2013.