La mortalità di Messi
di Daniele V. Morrone (@DanVMor)
Al minuto 92 Leo Messi riceve il pallone poco prima della metà campo, supera il marcatore con il secondo tocco, poi, con una leggera finta di corpo, salta anche il secondo arrivato in copertura. Avanza solitario aspettando il momento buono per servire Lavezzi, che corre alla sua sinistra verso l’area, l’esterno del PSG passa la palla di prima rasoterra sul secondo palo, dove Bravo non può uscire e dove sta arrivando Higuaín, pronto a metterla in rete e chiudere la finale. La palla però è leggermente lunga per "El Pipita", che, dopo aver seguito tutta l’azione dei compagni dalla parte opposta del campo, non riesce a trovare lo spunto per metterla dentro.
Al termine di una prestazione personale che possiamo definire deludente, Messi aveva fatto la giocata risolutrice dell’incontro. Se Lavezzi avesse passato il pallone con un angolo diverso, o se Higuaín fosse stato più svelto nel capire lo svolgimento dell’azione, l’Argentina avrebbe vinto il trofeo. Invece è stato il Cile ad alzare la coppa e a regalarci una settimana buona di dibattito sul rapporto tra Messi e la sua Nazionale.
Ho visto circa 50 partite dell’argentino in questa stagione e bisogna ammettere che, nonostante il risultato finale sia lo stesso, il Messi arrivato in Cile era in una forma fisica e mentale ben diversa rispetto al Mondiale. D’altra parte è innegabile che le prestazioni del 10 siano state inferiori a quelle con la maglia del Barça. Certo, anche giocando a un livello quasi normale, ha regalato lampi di genio notevoli: ha chiuso la competizione con 7 dribbling a partita e ha praticamente umiliato gli avversari nella semifinale contro il Paraguay; però, per quanto esistano diverse attenuanti, quello visto in Cile non è stato il Messi che ha alzato la Champions League il mese scorso.
La migliore partita della sua Copa América.
Il Tata Martino ha un rapporto personale speciale con Leo, però tra la sua esperienza al Barcellona e questa Copa América resta la sensazione che a tanta buona volontà di mettere Messi nelle condizioni migliori di giocare non corrisponda un risultato concreto sul campo. Messi è un giocatore associativo, può dribblare tutta la squadra avversaria a piacimento, ma vuole e deve giocare con dei compagni che lo seguano per assecondare questa sua caratteristica tanto spiccata. Quando si parla di Messi-sistema si intende proprio il fatto che il 10 è il creatore e definitore di tutta la squadra e, in quanto tale, deve essere circondato da giocatori in grado di aiutarlo. Nel Barcellona Dani Alves e Xavi (e da quest’anno Neymar) hanno interpretato il ruolo di prima spalla alla voglia di associarsi di Leo, leggendo i momenti in cui dargli il pallone, quelli in cui tentare le triangolazioni o quando è invece il caso di lasciargli spazio, mantenendosi comunque su di una linea di passaggio libera. Nel Mondiale è stato Di María a occupare il ruolo di spalla e Martino aveva invece individuato Pastore per questa Copa América. La coppia ha funzionato benissimo nella fase a gironi, in cui i due hanno dialogato e si sono cercati alla perfezione, per poi però raffreddare stranamente i contatti nei quarti, quasi assenti nella finale.
La pressione cilena concentrata su Messi (in cui Aránguiz è rimasto più bloccato del solito e Medel estremamente aggressivo sul 10) è stata interpretata male da Martino, che invece di cercare di aiutare il suo capitano forzando un ritorno alla coppia con Pastore, l’ha isolato. I compagni di squadra, pensando forse di trarre guadagno dalle attenzioni degli avversari su Messi—o immaginando forse che il 10 potesse superare da solo l’ostacolo—non si sono preoccupati dell’isolamento del loro capitano, cercandolo solo quando libero e finendo per regalare al Cile sicurezze difensive. Il Cile ha tenuto il 10 sotto controllo e, seppur a costo di un cambiamento nel proprio gioco, con i centrocampisti più bloccati (cosa che è costata anche a Valdivia una finale meno incisiva, non avendo i movimenti dei compagni da premiare), fino al minuto 92 non ha fatto arrivare l’Argentina dalle parti di Bravo, se non su calcio da fermo.
La deludente finale di Messi, tagliato fuori dal Cile.
Messi è un leader tecnico, non mentale. L’importanza del 10 è l’influenza che può avere nel gioco, la capacità di essere decisivo nella definizione, la chiara superiorità tecnica su tutti. Ma non è un giocatore capace di trascinare mentalmente una squadra non in partita riportandola sui binari giusti, se non con gesti tecnici, che il Cile gli ha privato. Con il benestare di Martino, la finale di Messi è stata deludente. Leo ha anche calciato e segnato il primo rigore, dimostrando di non soccombere alla pressione se messo davanti a una singola azione (diversamente da Higuaín e Banega), ma è chiaro ormai che quella fascia di capitano, se non è un peso mentale, semplicemente non modifica l’apporto emotivo che riesce a dare lui alla sua squadra.
Mascherano è il leader emotivo della squadra, quello che in una Nazionale normale avrebbe la fascia rispetto a Messi. Ma l’Argentina non è una Nazionale normale, è quella che ha visto passare uno dei più importanti connubi tra leader tecnico e mentale della storia come Maradona, e che quindi cerca di replicarlo ancora. Si cerca in Messi quello che non è e lo si punisce per questo.
La Copa América del 10 ha avuto sprazzi di genio e una conclusione negativa e nel complesso non può essere considerata soddisfacente. Ha confermato che se messo nel suo contesto Messi (che lui stesso è in grado di creare alle giuste condizioni) non ha rivali, ma che ritorna mortale in caso contrario e i mortali le finali le possono vincere o perdere. In questo caso l’ha persa.
La redenzione di Valdivia
di Carlo Pizzigoni (mondofutbol.com)
«Hijo de puta... la puta que te parió», poco originale, qui, Jorge Valdivia. Siamo a metà secondo tempo della partita più importante della sua vita, la finale di Copa América 2015, giocata allo stadio Nacional di Santiago.
Il Mago, come lo chiamano tutti, ha giocato un super torneo, con una continuità che non ha mai avuto. Però, poco oltre il 70' viene richiamato in panchina da Jorge Sampaoli, dopo essersi fatto sostanzialmente sempre anticipare da Otamendi, nelle zone offensivamente pericolose dell'attacco cileno. La prende male, ovvio: vomita di tutto contro il CT e registra il suo ennesimo acto de indisciplina.
Già sentita: siamo al cospetto di un genio del fútbol che in vita sua ha impilato un numero impressionante di giocate di classe superiore sopra l'erba verde, modelle di stordente bellezza in ogni discoteca o locale disponibile, bicchieri rotti (pratica consumatasi spesso col favore della notte) e atti di indisciplina.
Il più noto data 2007. L'ufficio stampa della federazione cilena ribatté l'ormai celebre formula in un comunicato che informava anche della galera calcistica a cui sottoponeva il Mago: 20 giornate di stop. Motivo? Un gruppo di giocatori, ben accompagnati (le modelle di cui sopra), si era reso protagonista di atti inqualificabili in un hotel di Puerto Ordaz. Ormeño, Contreras, Tello e, oh yes, Valdivia, i nomi dei condannati, “Puertordazo” il marchio indelebile di quella triste avventura in quella Copa América, chiusa dalla Roja, il giorno dopo lo scandalo, con un umiliante 6-1 subito dal Brasile nei quarti di finale.
Sembrava chiusa lì, nella maniera più triste, la storia futbolistica di Valdivia. Lì, in Venezuela, dove tutto era cominciato. A Maracaibo, nasce il Mago. Il padre Luis da qualche tempo era stato trasferito dalla linea aerea cilena, la LAN, con moglie e figlio maggiore, al Nord del Subcontinente. Lì era nato il piccolo Jorge.
Prima che Hugo Chávez distribuisse a pioggia finanziamenti alle diverse discipline presenti sul territorio che lui avrebbe ribattezzato “bolivariano”, in quelle soleggiate lande si giocava solo a baseball, anzi a béisbol, il più diffuso tra gli sport del Caribe. Cappello con visiera e mazza d'ordinanza, Jorge andava col fratello a vedersi i Tigres de Aragua. Papà Luis adora il fútbol, è un fanatico del Colo-Colo, e qualche partita la comunità cilena, soprattutto, la gioca. Una comunità piuttosto folta, quella trasferitasi lì: non tutti vogliono vivere nel Nuovo Cile di Augusto Pinochet Ugarte.
Con la palla tra i piedi, Jorge scopre di essere davvero felice. Non ha mai smesso di accarezzarla e pare sempre avere una cura particolare nel gestirla. Se ne sono subito accorti tutti, e infatti, appena la famiglia torna a Santiago, è proprio il centro di allenamento del Colo-Colo ad accoglierlo.
Da lì, una prodezza via l'altra. Fisico non all'altezza, ma fantasia da sempre al potere. Pure troppo. Elabora anche una finta, diciamo particolare: calcia a vuoto, facendo andare libera la gamba quasi all'altezza delle spalle. Discutibile pratica a cui viene pure etichettato un nome, “Espanta Chunchos”, non sempre presa benissimo dagli avversari, che indugiano poi sulle sue caviglie del responsabile dell'esercizio, come vuole una certa legge del campo.
Le mattane del Mago, dentro e soprattutto fuori dal campo, vengono digerite il giusto. Il Colo-Colo prova a prestarlo alla Universidad de Concepción, ma pure lì il carattere differente di Valdivia non riscuote unanime simpatia da parte della dirigenza. E allora ecco lo sbarco in Europa.
Prima tappa Vallecas, periferia operaia e alternativa di Madrid. Il suo posto? Non esattamente. Ci arriva nel momento sbagliato: le sue fioriture con la maglia del Rayo Vallecano, immerso nei bassifondi della Serie B spagnola, sono poco gradite. Cinque spezzoni di gara mentre la squadra scivola addirittura nella Segunda B, la terze serie. Il Mago prova l'esperienza in Svizzera, al Servette. I granata non sono da un po' la squadra simbolo del calcio elvetico che furono: nel nuovo Stade de Genève, Valdivia, giunto qui con l'amico Beausejour, regala qualche lampo. Fatuo: torna a casa. Dalle Alpi alle Ande, atterra in Cile, e si fa subito riconoscere.
È protagonista di una rissa furibonda in un clásico, Universidad de Chile - Colo-Colo. Scatenano l'inferno le due paroline sibilate da Valdivia al portiere avversario Johnny Herrera, uno dei componenti della rosa del Cile campione del Sudamerica e all'epoca come oggi simbolo della U. È nuovamente tempo di migrare.
Trova davvero casa al Palmeiras. Odiato da tutta la San Paolo non Verde, nella squadra che fu di Djalma Santos e Altafini, il Mago diventa certamente il più grande idolo contemporaneo, forse uno dei pochi motivi per cui la torcida prova a riempire Palestra Itália.
È ovviamente lui il protagonista dell'ultimo successo del Palmeiras, la Copa do Brasil del 2012. Nella finale di andata contro il Coritiba, sblocca il risultato calciando un rigore perfetto, a 5 centimetri dal palo e festeggia omaggiando Hernán Barcos, compagno di squadra che la sera prima dell'incontro era stato ricoverato in ospedale. Anche questa partita dura per lui 70', ma Felipe Scolari non c'entra nulla: Valdivia che rimane Valdivia, già ammonito, fa un fallo totalmente inutile in mezzo al campo e si becca il rosso, saltando così la gara di ritorno, dove comunque il Verdão resiste, portandosi a casa il trofeo.
È un periodo particolare quello, per il Mago. Nonostante le ottime prestazioni sul campo, è stato fatto fuori in Nazionale dal CT Claudio Borghi. Causa? La solita, acto de indisciplina. E stavolta è un caso nazionale sul quale programmi tv e riviste scandalistiche si gettano sopra con voracità. È noto in tutto il Cile col nome di Bautizazo. Inizio novembre 2011, il giorno delle convocazioni, prima della partita contro l'Uruguay, il Mago organizza la festa di battesimo delle sue due figlie. Alcuni invitati lasciano la festa a metà pomeriggio, un gruppo, invece, prosegue. Non limitandosi all'ammazzacaffè e a qualche chiacchiera.
Contreras, Beausejour, Jara, Vidal e Valdivia si presentano al ritiro giungendo direttamente dalla festa. Il Mago fatica a stare in piedi, e per Borghi finisce inevitabilmente lì.
Sembra finita davvero per il Mago. E invece c'è un tecnico che punta ancora su di lui. Lo stesso che si è preso del figliodi, proprio da Valdivia, poco dopo il settantesimo della finale di Copa América. Jorge Sampaoli.
Il magnifico Cile di Bielsa cambia la mentalità di come intendere il fútbol in quel Paese. La squadra viaggia a una velocità folle, sempre. Quel calcio non trova pause, che invece inizia a prevedere Sampaoli. E la qualità delle giocate offensive del Mago sono il perfetto raccordo di un calcio finalmente maturo e definito. Un calcio anche vincente, contro ogni malalingua, contro ogni pregiudizio, anche perché in campo c'era lui, il Mago. Unico e insostituibile, capace di visioni proibite alla quasi totalità dei praticanti. Autentico culto in buona parte del Subcontinente.
Esulta finalmente il Cile, campione del Sudamerica, acto di indisciplina verso la Storia. Il Mago? Ha deciso di andare a gustarsi l'inutile calcio degli Emirati: contratto milionario e campionato per gente che di passione per il calcio ne ha davvero poca. Il Mago è il Mago, prendere o lasciare. Noi prendiamo, col groppo in gola.
Edu e Aránguiz
di Fabrizio Gabrielli (@conversedijulio)
In epoca vittoriana i birrai di Burton-upon-Trent sostenevano che i loro brodi di malto fossero i migliori che si potessero saggiare in giro per il Regno Unito. Burton-on-Trent è la patria della IPA, o India Pale Ale, il cui successo risiedeva (e risiede) tutto nella miscela degli ingredienti: acque molto dure, luppoli Fuggles (radicatissimi nei territori del Kent e dello Yorkshire) e malti tostati. Una IPA fatta con un’acqua che non fosse quella del Trent, o con un luppolo deterritorializzato, non avrebbe mai avuto la stessa inconfondibile eccellenza organolettica. Lo dicevano i birrai locali, ma bisognava convincere gli altri.
Ora potremmo ipotizzare, metaforizzando, che ogni singolo calciatore della Roja sia un ingrediente: il luppolo Edu Vargas, l’acqua dagli alti gradi francesi Valdivia, il malto robusto Aránguiz. Il mastro birraio: Jorge Sampaoli. E Burton-upon-Trent: il Cile. Il loro calcio: il migliore che si gioca in Sudamerica a livello di Nazionali. Lo sostengono i tifosi locali, ma bisognava convincere anche gli altri.
A proposito di birra e Cile. Ora la sete è sazia.
Eduardo Vargas si è laureato capocannoniere della Copa América e si è presentato alla premiazione tenendo in braccio sua figlia, agghindata come una piccola principessa Anastasia: l’aria delle grandi occasioni, quando hai dei bambini piccoli, traspira dalle scelte che compi mentre li vesti. La vittoria da protagonista della Copa sembrerebbe essere il naturale compimento di una carriera da predestinato, sbocciata precoce e fiorita in età relativamente giovane, tanto che quasi viene facile dimenticarsi dei petali appassiti che ne hanno contraddistinto la parte centrale.
Edu è esploso nella U de Chile ormai un lustro fa. In quella squadra che funzionava alla perfezione, sapientemente fermentata sotto la direzione alchemica di Jorge Sampaoli, c’erano anche altri punti di forza della Roja osservata in questa Copa América: Marcelo Díaz, Eugenio Mena e Charles Aránguiz, tutti nati a cavallo tra il 1986 e il 1989. Ottime annate, si potrebbe dire, se stessimo parlando di vini.
Se analizzassimo la carriera di Eduardo come fosse un prodotto, e come chiave di violino ci servissimo degli studi sul ciclo di vita del prodotto, potremmo dire che la fase di introduzione sul mercato di Edu Vargas™ abbia funzionato alla perfezione: protagonista di un reality a sfondo calcistico patrocinato da Adidas, è stato lanciato nella massima serie cilena neppure maggiorenne con la maglia del Cobreloa. Il Cobreloa è una delle due squadre del deserto di Atacama, l’altra famosa è il Cobresal, entrambe portano il rame (che in spagnolo si chiama cobre) nel nome, nello stemma e nei colori delle maglie.
Dopo un’introduzione aggressiva, Edu ha cavalcato la parabola della fase dello sviluppo in un modo quasi arrogante: a ventidue anni ha spinto la U alla vittoria del campionato, alla finale di Copa Sudamericana e alla prima vittoria continentale assoluta.
In questa Copa América Edu ha spesso rubato la scena ad Alexis e Valdivia, e forse la sua rete contro il Perù non è solo la più importante della competizione, ma anche la più bella. Una nuova fase di introduzione?
A questo punto della sua carriera era opinione comune che la curva dello sviluppo sarebbe potuta schizzare altissima, garantendogli una maturità duratura e dorata, e un declino dignitoso. Poco dopo la vittoria della Sudamericana aveva esordito con la Roja, segnando il gol della vittoria in uno storico 3-2 contro la Spagna campione del mondo in carica.
«Ha qualità, velocità, tiro, agilità, tecnica. Tutto», ha detto di lui Mazzarri subito dopo che il Napoli si è assicurato il suo cartellino. Però qualcosa si è inceppato: al di là della tripletta in Europa League contro l’AIK Solna, Vargas è sceso in campo per poco meno di quindici volte, e mai per più di 45 minuti. Per trovare continuità ha accettato di trasferirsi in prestito prima al Gremio, poi al Valencia, poi ancora al QPR—ogni esperienza incolore più o meno della precedente.
Eppure un’enclave felice, per Edu, c’è stata; e quell’enclave era la Roja. In tre anni ha collezionato più presenze (e reti) con la maglia del Cile che con quella di tutte le sue squadre di club messe insieme. Vargas, quando gioca sotto la direzione di Sampaoli, è come una IPA stappata nel patio del pub di un birrificio di Burton-on-Trent: nelle squadre di Don Sampa Edu torna a essere quel giocatore fondamentale che sa creare spazi, pressare, mettere in ansia le difese. Perché si sente a casa.
Questa Copa América ci ha regalato un Edu che sembra tutto tranne che un giocatore finito, o un mezzo giocatore; l’impressione destata, magari anche a Napoli, è che arrivato sulla china dell’onda, là dove la parabola si inarca per inabissarsi nel declino, forse uno spiraglio di rivitalizzazione in fondo, c’è ancora.
Per convincersi del contrario c’è da pensare, con un po’ di malizia, che sia stata solo una questione temporanea e di alchimie: qualcosa che dipende dall’acqua, dagli ingredienti primari, e dall’aria speciale che si respirava in Cile mentre il Cile cercava di vincere quella Copa América che il Cile, poi, non aveva mai saputo alzare. Prima di sabato, ovviamente.
A proposito di rame: il suo simbolo chimico, che è anche il simbolo del femminino, nello stemma del Cobreloa porta un pallone inscritto nel cerchio che sovrasta la croce stilizzata. Anche Charles (si legge Ciarles, à la James Rodríguez, e non con la pronuncia inglese) Aránguiz ha esordito con i mineros che non aveva neppure sedici anni.
Charlie è stato probabilmente il calciatore più importante, e in maniera direttamente proporzionale sottovalutato, di tutta la Roja di Sampaoli: mi pare un’ingiustizia tremenda che ce ne siamo dovuti accorgere soltanto l’anno scorso, durante i Mondiali brasiliani, quando ha tirato questo rigore coattissimo contro i padroni di casa e aveva già venticinque anni.
Sul Diccionario de la Real Académia Española, alla voce CHULO, c’è questo Vine.
In realtà Aránguiz aveva già dato mostra, contro Australia e Spagna, di che tipo di giocatore fosse: aveva snocciolato un autobiografico bignami.
Contro gli iberici, dopo aver conquistato palla in limine alla sua difesa, con una transizione offensiva di un nitore raro si era proposto in sovrapposizione nella zona centrale del campo ad Alexis per poi appoggiare al compagno Edu Vargas una palla superfacile da spingere in rete.
Aránguiz è intelligente, dinamico, votato alla squadra; ha istinti difensivi e offensivi parimenti sviluppati. È tipo un microcosmo compiuto e perfetto, uno one-man-squad: l’errore più grande che potremmo compiere è valutarlo un giocatore senza specialità, buono a far tutto ed eccellente in nulla.
In un’intervista al sito della FIFA ha confessato: «Mi trovo bene in qualsiasi posizione del centrocampo perché in realtà non lo so neppure io dove devo piazzarmi di preciso»; «Sono un giocatore molto disordinato», «Non so mai troppe bene se mi trovo nella posizione più giusta per attaccare o difendere». Sampaoli lo ha definito un tuttocampista, e dev’essere per questo che a El Gráfico lo hanno inserito più volte in un ipotetico XI ideale e che El País lo abbia eletto (nel 2011, fresco di tre-campionati-cileni-in-a-row e Copa Sudamericana) centrocampista ideale d’América. Prima di Mascherano, per dire. L’impressione è che a quattro anni di distanza quel posto spetti ancora a lui.
El Príncipe da un anno e mezzo gioca nel Campionato Gaúcho con l’Internacional de Porto Alegre. Anche se per Sampaoli «è già pronto per un calcio competitivo come quello, per esempio, tedesco» (si parla di un interessamento del Bayern e del Bayer), per Charlie sembra tornare ogni volta d’attualità una frase pronunciata all’epoca della militanza nella U, nella parentesi in cui l’Udinese, pur avendone acquisito il tesserino, decise di non portarlo mai in Italia: «Non voglio andarmene alla fine del mondo ed essere dimenticato».
In Cile, e in Brasile, Charlie ha tutto quello che gli serve: affetto dei tifosi, dei compagni di squadra, del tecnico e di sua madre, dirigente e allenatrice delle giovanili del Nueva Esperanza Puente Alto. Ora che ha portato i suoi alla conquista di questa Copa América avrà anche la glorificazione: fin troppo, addirittura, anche per lui.
La crisi del Brasile
di Alfredo Giacobbe (@la_maledetta)
I fantasmi alla fine sono tornati. Il Brasile è uscito con le ossa rotte da questa Copa América, senza mai dare l’impressione di avere il controllo dei suoi match: salvato da un’invenzione di Neymar al minuto 92 contro il Perù; sconfitto contro la Colombia; in balia del Venezuela per un tempo, nonostante il vantaggio di due gol; buttato fuori ai rigori contro il Paraguay (un film già visto nell’edizione 2011, peraltro). Escluse le amichevoli, nelle ultime quindici partite che contavano qualcosa, il Brasile ha raccolto solo sei vittorie.
Il problema più grande di questa squadra è l’incapacità di difendersi mentre ha il pallone. Sembra un’esagerazione ma non lo è, basta guardare agli uomini impiegati da Dunga sulla mediana: Fernandinho è un distruttore di gioco con poca qualità nella gestione del possesso; Elias è un classico box-to-box midfielder; di David Luiz sappiamo più o meno tutto, nel bene e, soprattutto, nel male. Insomma l’assenza di un uomo d’ordine come Luiz Gustavo ha pesato in maniera persino eccessiva: i verdeoro hanno avuto il terzo possesso palla del torneo (58,3%), dietro all’Argentina (65,7%) e al Cile (70,8%). Per numero di passaggi chiave sono addirittura quarti, sopravanzati anche dal Perù.
Il Brasile è ancora la stessa squadra del Mondiale: incapace di gestire le fasi di transizione e che vivacchia sull’estro dei propri singoli. La pressione su Neymar è cresciuta su livelli insopportabili per un ventitreenne e spostare la fascia da capitano sul suo braccio, primo decreto esecutivo del Dunga II, non ha fatto altro che peggiorare la situazione. Anche per l’effetto collaterale subito, al contempo, da Thiago Silva, che fino a un anno e mezzo fa era il miglior difensore del mondo e che ora combatte una crisi di fiducia dalla quale sarà dura risalire: è allarmante notare come il fallo di mano che ha regalato i supplementari al Paraguay è un intervento in fotocopia rispetto a quello che ha rischiato di far fuori il PSG dalla Champions League, appena lo scorso marzo.
I rigori che hanno estromesso i verdeoro dalla coppa.
Il problema del centravanti, poi, nasconde in realtà le ambasce di un intero movimento. Arsène Wenger notava che, nei maggiori campionati europei, i primi posti delle classifiche marcatori erano occupati da attaccanti sudamericani (non brasiliani). Secondo l’allenatore dell’Arsenal, ai giocatori europei manca la scuola della strada, il giusto mix di tecnica e aggressività necessario per fare a sportellate con i difensori in area e avvantaggiarsi con senso dell’anticipo. Lo stesso si può dire dei giocatori brasiliani: le società europee hanno colonizzato la Nazione con le succursali delle loro scuole calcio e, con i loro metodi di allenamento strutturati, hanno probabilmente snaturato le caratteristiche istintuali del gioco dei loro giovani.
Il progetto di Dunga è già in bilico. Storicamente il Brasile ha vissuto un’alternanza di tecnici che professavano o un’assoluta rigidità tattica o una totale, anarchica libertà. L’esperimento di Dunga ha le mostrine della restaurazione e la Copa América non è servita neanche da incubatore per talenti in erba: l’età media dei convocati era di 26,3 anni; i migliori nel torneo sono stati i veterani Robinho (31) e Dani Alves (32); i più giovani, come Casemiro, Douglas Costa, Marquinhos o Fabinho, sono stati impiegati marginalmente o esclusi del tutto. Anche tra i non convocati, forse solo Felipe Anderson e Lucas Moura avrebbero meritato più attenzione, a sottolineare la povertà di talenti in questa generazione di calciatori brasiliani. Le Nazionali verdeoro, che ricordiamo con più emozione, sono solitamente quelle nelle quali si è riusciti a far convivere il maggior numero di talenti. Ad avercene.
La crisi dell’Uruguay
di Alfredo Giacobbe (@la_maledetta)
Il percorso dell’Uruguay in questa Copa è stato accidioso e tutt’altro che inatteso. Due gol segnati in tutto, tre quelli incassati; una qualificazione ai quarti striminzita, raggiunta come migliore terza; la sconfitta contro il Cile e la disonorevole Royal Rumble alla sudamericana dell’Estadio Nacional. Lo spettacolo andato in scena sta diventando un cliché per la Celeste nei tornei per Nazioni: la garra uruguayana, da sola, non basta più.
La sconfitta contro il Cile che è costata l’eliminazione.
Non è stata la Copa América di Edinson Cavani. "El Matador" è stato chiamato, per la prima volta, a guidare l’attacco della sua Nazionale, considerate le assenze di Diego Forlán (per raggiunti limiti d’età) e di Luis Suárez (ancora squalificato per il morso a Chiellini). Cavani non è riuscito a dare profondità all’attacco della sua squadra: in entrambe le fasi, lo si trovava schiacciato sulla linea dei centrocampisti. In quattro partite ha tirato 9 volte verso la porta avversaria, centrando lo specchio in una sola occasione, e non ha completato neanche un dribbling a partita (per interderci: Messi ne fa 7, Alexis Sánchez 3,4).
La sterilità offensiva dell’Uruguay non è imputabile al solo Cavani, ma anche alla scarsezza di piedi buoni a centrocampo: la cerniera centrale era formata da due combattenti come Arévalo Rios e Álvaro González, ai lati dei quali agiva un corridore come “Cebolla” Rodríguez. Il collegamento tra i reparti doveva essere garantito da Rolán e Lodeiro, ma anche loro sembravano più concentrati nel tenere il loro uomo, in fase di non possesso, piuttosto che nel creare chances offensive.
L’Uruguay non ha mostrato niente di diverso della sua solita tattica attendista: gli uomini di Tabárez aspettavano bassi per negare la profondità dietro la linea della difesa; concedevano le fasce, sicuri del vantaggio sulle palle alte dei loro centrali difensivi Godín e Giménez; attendevano per novanta minuti l’occasione per colpire, magari su azione da calcio piazzato. È vero: quella descritta è la stessa, sterile tattica che ha portato il Paraguay a conquistare una finale e una semifinale nelle ultime due edizioni di Copa América. L’Albirroja però ha avuto dalla sua una maggiore qualità nel reparto offensivo (con i senatori Santa Cruz, Barrios e Valdez) e un bel po’ di fortuna: nelle ultimi undici partite di Copa, il Paraguay ne ha vinta solo una.
Il successo di Copa del 2011 sembra lontanissimo per l’Uruguay e non solo per le assenze di Forlán, Suárez e Lugano, nonché per la stella di Sebastián Coates, tramontata troppo in fretta. Al contrario di Dunga, però, l’incarico di Óscar Tabárez non è in discussione in patria. Forse per il troppo rispetto imputato al vecchio Maestro, forse per il paravento offerto dalla pena che sta soffrendo Suárez e dal rumore mediatico dell’affaire Jara-Cavani. Probabilmente la Celeste sta patendo gli stessi mali che affliggono il Brasile: un cambio generazionale che tarda ad arrivare, in una nazione dalle grandi tradizioni calcistiche, trasformata dagli interessi economici in un calciatorificio.
La sorpresa del Perù
di Francesco Lisanti (@effelisanti)
La prima vittoria di Ricardo Gareca da commissario tecnico del Perù si registra il 18 giugno 2015 a Valparaíso, Cile. È l’1-0 sul Venezuela che ha proiettato la Blanquirroja ai quarti di questa Copa América, è il dato che meglio di tutti riflette il clamore del successo di questa spedizione peruviana.
In due mesi e mezzo Gareca ha portato il Perù da una sconfitta per 1-0 proprio contro il Venezuela nella sua partita d’esordio, con golazo di Josef Martínez del Toro, al secondo posto nel girone della Copa, e da lì ai quarti, e da lì alla medaglia di bronzo. Non ha stravolto—non poteva permetterselo—il lavoro dei suoi predecessori, Markarián e Bengoechea, conservando intatta la disciplina tattica di matrice evidentemente uruguaya, e confermandone le felici intuizioni, come la scoperta del portiere Gallese o l’arretramento di Ascues sulla linea di difesa.
Ha però rovesciato il triangolo di centrocampo, rinunciando al mediano davanti la difesa e consegnando un trequartista in supporto di Guerrero, e ha investito profondamente sul campionato locale—stando alle sue dichiarazioni, «la terza divisione spagnola non è particolarmente competitiva, preferisco la Primera División del Perù». Quindi le chiavi del gioco offensivo affidate all’aliancista Cueva piuttosto che a Benavente, talentino del Real Madrid Castilla, e il centro della difesa in mano ad Ascues del Melgar, e non a Callens, della Real Sociedad B.
Scelta perfettamente ripagata dall’enorme Copa América di Ascues e Cueva, come anche di Carrillo, quelli che erano i maggiori talenti mostrati nel Sudamericano Sub-20 del 2011 organizzato in casa, e che non sembravano, prima di vederli in Cile, riproponibili ad alti livelli.
Ascues è la cosa più simile a Hummels in etnia inca, la personalità e il piede destro di un mediano traslati venti metri indietro, meno aggraziato nei movimenti, ma sempre in anticipo sull’avversario, sempre a testa alta in proiezione offensiva. Cueva un talento purissimo sotto il metro e settanta, giocatore perfetto per smuovere le linee sulla trequarti, ambidestro, maestro di dribbling, inserimenti e calci piazzati. Carrillo, come il Perù, è emerso sulla lunga distanza, tenuto in panchina nelle prime partite, poi titolare a sorpresa contro il Cile. Seconda punta esplosiva, relegabile a esterno per sfruttarne la corsa in porzioni di campo più ampie: il gol di Guerrero che chiude la finale terzo posto è tutto suo.
Aggiungerci la scoperta di Advíncula, terzino destro dalle capacità motorie fuori dal comune, poi ugualmente lucido in zona cross, che l’Hoffenheim ha bloccato nel 2013 e da lì in poi girato in prestito ovunque, e forse adesso vorrà tenere un po’ per sé. Aggiungerci che i veterani, i Vargas, i Lobatón, i Farfán, non hanno sbagliato una partita, e che Guerrero era già il miglior marcatore del torneo in attività e ne è uscito ancora da capocannoniere. Che le eliminatorie per Russia 2018 siano particolarmente attese, nella speranza che il Perù ritorni a giocare un Mondiale dopo trentasei anni, non dovrebbe stupire nessuno.