Che la Final del Siglo della scorsa stagione tra Boca e River fosse stata, per la CONMEBOL, un non plus ultra magniloquente ma fastidioso, qualcosa da lasciarsi alle spalle, il finale pirotecnico propedeutico a un nuovo inizio, era abbastanza inevitabile. Difficilmente si sarebbe potuto raggiungere un talemisticismo, eguagliare un così prorompente, esuberante ed esasperato sfoggio di sudamericanità. C’era bisogno di normalità. E di occidentalizzazione, se vogliamo chiamarla così.
Per la sua sessantesima edizione, cioè quella che si è conclusa sabato con la vittoria del Flamengo sul River Plate, la Copa Libertadores avrebbe dovuto incarnare alcuni semplici canoni, perfettamente leggibili: giunti all’epilogo possiamo dire che c’è riuscita - per quanto non del tutto, perché puoi togliere una Copa dalla tradizione sudamericana, ma non il Sudamerica dalla Copa.
Serviva una finale unica, la prima senza partita di andata e ritorno, che incanalasse la Libertadores nel solco della tradizione d’oltreoceano.
Se possibile, serviva una partita tra due squadre che potessero rappresentare le due diverse anime del continente. E il fatto che ad arrivare all’ultimo capitolo siano state due compagini gloriose, sì, ma anche due ottime squadre come il Flamengo e il River Plate, un’argentina e una brasiliana, sembrava aver soddisfatto ogni prerequisito.
Ma il cilindro gigante della Copa Libertadores, si sa, è come un vaso di Pandora pieno di realismo magico: basta agitarlo un po’ per lasciarne prorompere gli effluvi. Le turbolenze politiche che hanno investito il Cile hanno portato la CONMEBOL a decidere di spostare la sede della Finale a Lima, in Perù.
E anche l’arbitro che sarebbe dovuto essere a capo del VAR, Diego Haro, è stato sollevato dall’incarico a poche ore dalla finale, per aver rilasciato delle interviste in cui elogiava Marcelo Gallardo.
Non si è trattato della trasmigrazione transoceanica dell’anno scorso (con la finale di ritorno giocata a Madrid per gli incidenti causati dai tifosi del River che hanno coinvolto i giocatori del Boca), siamo d’accordo, ma pur sempre la prova incontrovertibile che il Latinoamerica è un mondo retto da regole universali più weird di quanto siamo disposti a tollerare, capace di regalarci istantanee indimenticabili.
Ne ho scelte quattro, tra le più significative, almeno secondo me, per restituirci il significato della serata di sabato.
Come vivremmo senza sensazionalismi?
La Copa Libertadores, in realtà, si chiama Copa Libertadores Bridgestone, come immagino sappiate.
Il che la dice lunga sul rapporto tra fútbol sudamericano e ingerenze degli sponsor. Se non fosse chiaro il loro peso specifico, un’ottima maniera per rendersene conto è stato l’ingresso della Copa sul campo del Monumental di Lima, prima del calcio d’inizio, nelle mani di Fernando Cavenaghi e Júnior Bahiano, scortata da una decina di Stormtroopers di Star Wars.
Foto di Daniel Apuy/Getty Images
Quando una mossa commerciale si sposa perfettamente con un apparato metaforico, a quanto pare, entrambe ne escono rafforzate: quella tra River e Flamengo, in fin dei conti, era una vera e propria Guerra delle Galassie, la sfida tra le forze dell’Alleanza Ribelle e quelle dell'impero Galattico.
Il virtuoso Flamengo da una parte, che ha sacrificato i gioielli del suo vivaio Vinicius e Paquetà per costruire un All Star Team della disillusione, pieno di calciatori talentuosi sul viale del tramonto o salvati dall’oblio, tipo Felipe Luis e Gabigol, rispettivamente. E il River sotto il dispotico regno del “Muñeco” Gallardo, dall'altra, forse la Morte Nera più onnipotenteche il calcio sudamericano abbia conosciuto negli ultimi lustri.
E a dirla tutta, in maniera molto coerente, tutta la cerimonia d’apertura è stata un inno alle storture, alle sovrastrutture e alle misinterpretazioni del Sudamerica calcistico.
Cosa c’è di più sottilmente malvagio di affidare l’apertura ufficiale a Fito Paez e alla sua “Y dale alegría a mi corazón”, cioè la canzone sulla cui aria i tifosi del Boca cantano la loro ossessione per la Libertadores?
La piccola Waterloo di Gallardo
Marcelo Gallardo è l’allenatore più vincente della storia del River Plate, ma soprattutto il protagonista e fautore di uno dei cicli tecnici più tremendamente monolitici nella storia del calcio sudamericano: sarebbe ingeneroso ma anche ingenuo dire che l’uscita di scena da sconfitto dalla finale di Lima (quella che avrebbe potuto sancire la vittoria della seconda Libertadores consecutiva e della quinta nella storia della Banda) ne determinerà in qualche modo la legacy.
Per 89 minuti, il River ha avuto la vittoria a portata di mano. Per 65 è stato pieno padrone del proprio destino, prima che l’impalcatura cominciasse a sbriciolarsi. Per 45, la perfetta incarnazione di cosa significhi preparare un piano gara - il piano gara di una partita così determinante - per Marcelo Gallardo, cioè un distillato di concentrazione quasi disumana, di ossessione, di preciso calcolo e presa delle misure, e delle distanze, di e dall’avversario.
Foto di Daniel Apuy/Getty Images
Sono certo che ricorderemo, negli anni, il River di Gallardo per la Máquina che è stato in grado di congegnare: un martello pneumatico dai meccanismi perfetti, capace di riprodurre movimenti e strategie con brutalità spietata.
Tutto il primo tempo del River è stata una lectio magistralis di Gallardo, la summa di come giochi una squadra non solo abituata a vincere, ma abituata a vincere le partite decisive. Il Flamengo è stato completamente soffocato dalla pressione altissima, dalle ripartenze tempestive, da un costante mascheramento di ogni punto di riferimento.
Enzo Pérez e Exequiel Palacios hanno asfissiato senza soluzione di continuità l’estro creativo di Gerson o Everton Ribeiro o De Arrascaeta, i centrali difensivi Pinola e Martinez Quarta stretto nella loro morsa Gabriel Barbosa.
E Nacho Fernández, con Santos Borré e Mati Suárez, hanno dato dimostrazione di come il talento possa essere sorpassato dall’abnegazione, dalla costanza, dall’ostinazione.
Dopotutto anche il gol del vantaggio è nato da un pallone sul quale Nacho ha insistito nonostante partisse in svantaggio, quasi preso in controtempo, dal suggerimento di Palacios.
Se il River avesse portato la Copa in bacheca agevolmente, come ha dato l’impressione di poter fare per il 99 per cento del tempo, oggi staremmo elogiando l’insuperabilità di Franco Armani, capace di mantenere la sua porta inviolata in 6 partite su 10 - e decisivo sul primo vero arrembaggio del Flamengo, intorno all’ora di gioco.
Oppure dell’onnipresenza di Nico De La Cruz, uno dei giovani talenti impreziositi dagli insegnamenti di Gallardo.
Ma la gloria, si sa, a differenza di quanto voglia far intendere la CONMEBOL, non è eterna, anzi piuttosto effimera e passeggera.
Così capita che Pratto, eroico nella doppia finale dell’anno scorso, finisca per perdere un pallone sanguinoso sulla trequarti avversaria, scatenando la ripartenza di De Arrascaeta che culminerà nel gol del pareggio di Gabriel Barbosa. E se è vero, come scriveva T.S. Eliot, che c’è tempo in un minuto per decisioni e ripensamenti che un altro minuto sovvertirà, in quel momento crollano tutte le certezze, Gallardo chiama il suo pubblico all’incitamento perché sa che il piano si sta inclinando, l’inerzia potrebbe non essere più necessaria.
Chissà se in quegli istanti stava chiamando a raccolta tutta la fiducia non solo nella sua squadra, ma in sé. Il gol decisivo, al 92’, su un errore di Pinola, la colonna portante del suo reparto difensivo, non è stata che l’ennesima riprova di quanto il calcio, come diceva Sir Alex Ferguson, beh, è il calcio, bloody hell. E non possiamo farci granché.
Nel saluto di Gallardo, uno a uno, ai suoi giocatori a fine partita, nello sguardo piantato sul vuoto, c’è tutto il senso di un commiato triste, ma orgoglioso. Perché un taladro perforante come il River dell’ultimo lustro, che ci piaccia o no, non lo rivedremo presto.
Mentre Gallardo in Europa, forse, finalmente, invece sì.
Re Barbosa
Se a Gabriel Barbosa avessero detto che il 23 Novembre si sarebbe addormentato da capocannoniere della Libertadores con 9 gol, da eroe, da figura indiscussa di questa finale, da capopopolo con tutta Rio de Janeiro ai suoi piedi, ci avrebbe mai creduto? E noi?
«Io parlo sempre, non sono uno che sa tenersi la bocca chiusa. Voglio vincere, ho molta fame di vincere», ha detto una settimana prima della finale di Libertadores: aveva segnato il gol vittoria in casa del Gremio, che aveva proiettato il Flamengo verso la vittoria del Brasileirao, poi era stato espulso.
Uscendo del campo aveva mostrato ai tifosi del Gremio la manita, ricordando la semifinale di ritorno, chiusa sul 5-0. Il gol vittoria nel Brasileirao era il suo ventiduesimo, quello con cui aveva sfracellato il record di Zico: 21 reti in campionato, trentanove anni fa.
Trentotto, invece, sono gli anni trascorsi tra le uniche due vittorie del Flamengo in Libertadores. Tanti da crearti un peso insostenibile di aspettative, non sufficientemente tanti, però, da evitare a Gabigol di sfidare la sorte, le convenzioni, anche i tabù, durante l’ingresso in campo, e sfiorare la Copa.
Con la sventura Gabigol ha imparato a darsi del tu. Ha sempre passeggiato in bilico tra il ridicolo e il formidabile, tra chi è molto forte o soltanto molto pieno di sé, anche se non è sempre soltanto una questione di oggettività, ma anche di percezione.
Non se ne è mai curato troppo, Gabriel Barbosa: è per questo che quando segna fa il gesto del culturista, mostra il suo nome, è per questo che ha sposato l’appariscenza, e con appariscenza si è preso il cuore di un pubblico ultraesigente.
Ha segnato 40 gol in 54 partite, quest’anno. In tutte le fasi della Libertadores (l’unico a riuscirci, prima di lui, era stato Riquelme nel 2007), a partire dalla fase a gironi in cui, facendosi espellere contro il Peñarol, aveva rischiato di mettere a repentaglio la qualificazione stessa.
Non è cresciuto, Gabigol: è lievitato. Fisicamente, mentalmente. Non si è liberato dell’aura di bad boy: ha imparato a conviverci, se possibile a riderci su, a ridere di se stesso. Non per questo smettendo di perseguire con istinto famelico il suo propellente alla fiducia, il gol: non a caso, nel Brasileirao, è il calciatore che più ha tirato verso la porta avversaria, una media di 4 volte a partita.
Non è Zico, ovviamente. Non ha mai giocato né vinto da solo, non avrebbe mai potuto. E ha pur sempre 23 anni.
Jorge Jesus ne ha fatto il perno centrale di un apparato offensivo completo, gli ha affiancato la straripante verve di Bruno Henrique, il talento euclideo di Gerson, l’esperienza di Everton Ribeiro o Diego, che sabato ha giocato la sua seconda finale di Libertadores a distanza di sedici anni dalla prima (nel 2003, quando giocava nel Santos).
Gabigol e le sue due reti in finale sono il compimento più vistoso di una contro-orchestrazione ordita da Jesus nell’ultimo quarto d’ora di partita: eppure, nella nostra testa, anche perché in aperta contraddizione con l’immagine che serbiamo di lui, ci sembra che abbia fatto tutto lui. Sui giornali italiani si parlava solo di lui, il giorno dopo (e di Inter…). Tutto ciò che c’era intorno è scomparso.
Gabigol è riuscito nell’impresa non tanto di essere il Solskjaer o lo Sheringham della serata, ma Solskjaer E Sheringham, insieme.
Jesus Pantocrator
Nonostante sabato sera anche il Redentore di Rio si sia vestito di rubronegro, il vero Jesus protagonista è stato Jorge Il Pantocratore. A Maggio, appena ingaggiato dal Flamengo, intervistato poco prima della finale di Champions tra Liverpool e Tottenham, era stato profetico: non tanto auspicando la vittoria dei Reds, quanto quella della sua nuova creatura, ancora all’epoca tutta in divenire, in Libertadores così da poter ricreare nel Mondiale per Club di fine anno la sfida andata in scena nell’82 tra Liverpool e Flamengo.
Nella trasmigrazione dal Vecchio Continente al Nuovo di Jorge Jesus non c’è niente della retorica del Conquistador, eppure c’è tutto: nel suo primo pranzo con il nuovo corpo tecnico, prima di lasciare l’Arabia Saudita (dove guidava l’Al-Hilal) e partire per il Brasile, disse «si va per vincere la Libertadores».
L’ha vinta, ma non da eroe. O almeno, non da dominatore. Da condottiero silente, piuttosto, da stratega consumato. L’ha vinta con la forza di chi crede che anche l’esperienza si possa allenare, con chi ha creduto in un progetto ambizioso ma anche fagocitante, perché concentrato sul breve raggio.
Ha apportato una maniacalità che stride con il sentimento comunemente associato al calcio brasiliano: ha rinfocolato la tradizione passatista, certo, la nostalgia, appendendo nello spogliatoio foto di Zico e Junior con la Libertadores tra le mani. Ma ha anche costruito una squadra tagliata per il suo gioco, piena di giocatori da rigenerare, reinventare, lanciare.
Ha pescato dal Deportivo La Coruña retrocesso un difensore come Pablo Marí e ne ha fatto un leader della sua difesa. Ha rivitalizzato un De Arrascaeta demoralizzato dall’esperienza non esaltante con la Celeste al Mondiale di Russia. Ha creato un gruppo così disomogeneo in termini di esperienza da farne uno massimamente coeso in termini di ambizione.
Una squadra capace di mantenere costantemente il pallino del gioco (in media, nel Brasileirao, tiene il possesso del pallone per il 60% del tempo e finalizza il 15% delle transizioni offensive, segnando 2 reti a partita).
Foto di Daniel Apuy/Getty Images
Prima di arrivare alla finale, il Flamengo ha inanellato una serie di 26 partite senza perdere (ultima sconfitta il 4 agosto), 21 vittorie e 5 pareggi, con 14 clean sheet e 58 gol segnati.
Un’egemonia che era destinata, secondo la narrazione classica di Jorge Jesus, ad arenarsi in finale di Libertadores, perché se c’è una costante, nella carriera del DT portoghese, è proprio questa malinconica predisposizione a perdere quando meno lo merita.
Invece, per una volta, il destino si è capovolto, e Jorge Jesus ha vinto la sua seconda finale (la prima era in Intertoto, con il Braga) giocando, fondamentalmente, male.
Oggi Jorge Jesus può fregiarsi del vanto di essere il secondo allenatore europeo ad aver trionfato dall’altra parte dell’Oceano Atlantico. Prima di lui c’è riuscito solo Mirko Jozic, campione nel 91 con il Colo Colo, che era giunto in Cile in fuga dalla Yugoslavia in disfacimento.
Il nocciolo sta tutto nella volontà di mettersi alla prova vagliando nuove rotte: c’è chi sostiene che quando Pedro Cabral, nel 1500, cambiò volontariamente rotta durante il viaggio che l’avrebbe portato a scoprire il Brasile lo fece soltanto perché, in fin dei conti, l’esistenza del Brasile era già nota: serviva soltanto corroborare una nuova narrazione della scoperta.
Allo stesso modo, Jorge Jesus ha portato il Flamengo sul tetto del Sudamerica a quasi quarant’anni di distanza percorrendo una strada nuova, ma non inedita. Quella di chi crede nell’ossessione, nella costanza, nell’applicazione delle proprie idee. Anche se per 89 minuti sembrano non portarti da nessuna parte.
Con la sana, e un po’ pazza, fiducia nel sentimento di locura del Sudamerica, dove nessun finale è mai davvero scontato.