È la Coppa Davis di Matteo Berrettini, e lo è stata nonostante Jannik Sinner, che ormai sembra semplicemente appartenere a un'altra realtà: illegale.
È la Coppa Davis di Matteo Berrettini, capo-ultrà a bordo campo, con la manica tirata su a mostrare il tatuaggio della rosa dei venti, o di una spada che infila un cuore da guappo di Notre-Dame de Fleurs, fare un tifo esaltato, entusiasta anche solo di essere lì; la felicità di chi forse credeva che non ce l’avrebbe fatta, a giocare ancora sfide sportive con quel peso: sentirsi importante, poter scrivere la storia.
È la Coppa Davis di Matteo Berrettini che anche quando è in affanno non si lascia trascinare giù, cerca di stare nella partita, in attesa della sua occasione. Berrettini che trova piacere nei problemi, si esalta nelle difficoltà. Berrettini che sembra in affanno contro avversari più leggeri e più in forma, ma che poi si tira fuori - un ace alla volta, un lungolinea di dritto alla volta. Berrettini che poi mostra il pugno, lancia un urlo, fa sentire la sua presenza. Comunica all’avversario che quando il tennis scenderà nei suoi territori più abissali, quando la differenza tra vittoria e sconfitta è un colpo di vento, lui sarà lì e non si lascerà battere.
È la Coppa Davis di Matteo Berrettini: migliore in campo nel doppio decisivo contro l’Argentina, vincitore del singolare che ci ha permesso di non giocare lo spinoso doppio contro l’Australia; vincitore della prima partita della finale, che ha spedito in campo Jannik Sinner col match point nelle mani - e Jannik Sinner i match point non li sbaglia.
Sono trascorsi tre anni da quando Matteo Berrettini annunciava il proprio ritiro dalle ATP Finals 2021 per un infortunio agli addominali sofferto nel primo incontro con Zverev. Al suo posto entrerà Jannik Sinner, che ci offrirà uno dei primi assaggi della sua grandezza. Berrettini, invece, non tornerà più quello di prima. Il suo corpo comincerà ad andare in pezzi, la sua classifica si sfalderà; si parlerà di lui sui rotocalchi e si guarderanno le sue partite - sempre meno importanti - con occhi sempre più tristi. Lo sguardo malinconico verso chi sarebbe potuto essere e non è stato. Il suo corpo, così potente e così fragile, con le spalle grosse e le gambe fini, è stata la sua risorsa e la sua condanna. «La prima volta che mi sono bloccato con la schiena avevo 9 anni. Gli infortuni avrebbero fatto parte di me e dello sport».
Dentro gli infortuni lui ci ha sempre visto una possibile rinascita, un’occasione per fortificarsi. Finché, per un paio d’anni, ha raggiunto un equilibrio miracoloso in cui ci ha potuto mostrare il suo tennis: così potente ma così fragile. Un equilibrio che si è spezzato presto, nel corpo e nella mente.
Proprio quando ha raggiunto il suo apice, Berrettini ha cominciato ad avvertire il vuoto. «Com’è possibile, nella vita ero uno che ce l’aveva fatta. Com’è possibile che mi sentivo così a terra?! Ma è proprio nel momento migliore che ti prende, perché c’è qualcosa di più profondo che sta mancando». Fatica ad alzarsi dal letto, si sente svuotato e non sa come riempiersi. Nel frattempo il collasso del corpo segue quello della mente, e a un certo punto subentra il timore di non potersi più rialzare. Scende in campo con la paura che possa succedere qualcosa, qualunque cosa. Vede il se stesso competitivo scivolare piano piano, un infortunio alla volta. Si ritrova alla posizione numero 92 della classifica mondiale. Finisce impaludato in un tennis minore, lotta dentro partite meno belle in tornei meno importanti. Gioca un bel Wimbledon, un Wimbledon incoraggiante, in cui perde solo da Alcaraz in rimonta. Poi si rompe d nuovo la caviglia e sembra che il cielo possa cadergli sopra la testa. Si ritrova alla posizione 154 della classifica mondiale e a quel punto sente davvero il precipizio. Gioca a Phoenix, gioca a Marrakesh, gioca in tornei che i migliori non frequentano. Va alla ricerca del nocciolo più duro dell’agonismo e della competizione, e spera di ritrovarci sé stesso.
Sabato Matteo Berrettini è stato vicino a perdere una partita che non poteva perdere. Tanasi Kokkinakis era in una di quelle giornate in cui dalla sua racchetta escono solo vincenti di grazia. Lui aveva servito per il primo set, aveva avuto dei set point e svariate occasioni non colte. All’inizio del secondo Berrettini avrebbe potuto mollare, sotto quel peso; restituire tutta la responsabilità del tennis italiano a Jannik Sinner, com'era già successo contro l'Argentina dopo la sconfitta di Lorenzo Musetti. Ma è restato lì facendo quello che sa fare meglio: servire bene, bombardare il campo di ace, essere impenetrabile nei propri turni di servizio. Far sentire all’avversario la pressione di non poter sbagliare nulla. Kokkinakis ha mollato qualcosa e Berrettini ha vinto il secondo set. «Il terzo poi è stata una guerra».
Questa guerra si è poi decisa col colpo manifesto di questa Coppa Davis, quello che forse ricorderemo anche tra dieci anni, quando ripenseremo all’epoca d’oro del tennis italiano. Il momento in cui Berrettini ce l’ha fatta vincere. In uno scambio durissimo Kokkinakis spara in anticipo sempre sul lato aperto del campo; Berrettini è costretto al suo peggio: a correre di qua e di là; i suoi cento chili da portare in giro non sono uno scherzo. Nella sua carriera però Berrettini ha sempre avuto uno dei talenti più pericolosi dei big-server: la capacità di trovare il vincente estemporaneo da qualsiasi posizione del campo. Ha inventiva, ha manualità. Questi colpi arrivano soprattutto nell’angolo destro, quello dove c’è il suo dritto, e dove spesso deve rincorrere il campo che ha aperto a forza di girare attorno al dritto. Kokkinakis sembra tirare una sbracciata lungolinea definitiva, accompagnata da un urlo; Berrettini ci può arrivare solo con un colpo di polso che è tipico dei campi in terra o dello squash. Un colpo che Federer ha perfezionato e reinterpretato in chiave offensiva: non un semplice recupero, ma un modo per ribaltare lo scambio in modo imprevisto. Con un recupero sul lato destro Berrettini aveva tenuto in piedi lo scambio del break nel secondo set, ma stavolta gioca sul lato aperto, nell’angolo più stretto. Kokkinakis si paralizza, sente il pubblico italiano far vibrare il palazzetto e sente Berrettini caricarsi e crescere. Ci mette un po’ a rimettersi a fuoco, e nel frattempo ha perso il servizio e la partita. «Dopo quel punto ho sentito un’energia speciale»
Domenica Matteo Berrettini aveva di fronte una partita complicata, nonostante avesse battuto Botic van de Zandschulp già 4 volte in carriera. Nella partita del girone ci aveva perso un set, e magari poteva ancora soffrire della stanchezza. Van de Zandschulp qualche mese fa ha eliminato Carlos Alcaraz dagli US Open. Van de Zandschulp sembra non avere punti di forza, ma nelle migliori giornate sembra assorbire i colpi migliori dell’avversario - una specie di giocatore Mr. Mime, il pokémon del riflesso. Con questo tennis mellifluo ha battuto Alcaraz, e ha messo in grande difficoltà Berrettini nel primo set. Matteo sembrava troppo scarico sulle gambe per stare al ritmo da fondo dell’olandese. Non riusciva a leggere il suo servizio a uscire da destra e soffriva tremendamente sulla diagonale di rovescio.
Il tennis è però anche un gioco interiore, uno scontro di caratteri. È una dimensione su cui si cade spesso nella retorica, persino nel cinema, come abbiamo visto in Challengers. A volte però le partite ci mostrano questo livello come qualcosa di reale tangibile.
Difficile trovare due esseri umani più diversi. Van de Zandschulp in campo ha una strana energia deprimente. Mai un sorriso, solo mal di vivere. Una certa angoscia a dover stare in campo, a giocare a tennis, e la telecamera che impietosa pesca ogni sua smorfia di dolore - dopo gli scambi persi ma pure dopo quelli vinti. Qualche mese fa è stato vicino al ritiro, non sembra troppo tagliato per la vita del tennista d’alto livello.
Berrettini dall’altra parte mostra i muscoli, sbraccia, cerca il calore dei compagni. Quando il punto è importante lancia un urlo baritonale con cui vuole mandare un messaggio esterno, che è molto chiaro: non lascerà vincere all’avversario i punti importanti. Il suo tennis è ancora lontano dai giorni migliori, e forse non tornerà più davvero, ma riesce a nascondere i suoi problemi col servizio e il temperamento. Sta peggio nello scambio da fondo, non riesce a manovrare bene; quando prova a girare attorno al dritto, nell’angolo sinistro, la coperta si accorcia troppo.
Eppure quando il primo set è entrato nei momenti caldi abbiamo avuto la sensazione che Berrettini non potesse mai perdere quella partita. Ce l’abbiamo avuto sempre, questa fiducia incondizionata verso Berrettini. Forse perché abbiamo ancora vivo il ricordo del livello vertiginoso toccato dal suo tennis, o forse solamente perché abbiamo fiducia del suo carisma e del suo carattere. Abbiamo fiducia in lui come essere umano. Quando Musetti ha perso il suo singolare su Cerundolo, avvitandosi attorno ai suoi limiti, abbiamo tutti invocato Berrettini. C’era un po’ di pensiero magico in questo, visto che oggi Berrettini è diventato un giocatore poco costante e potenzialmente sempre in difficoltà. Però non potevamo credere che ci avrebbe tradito, e questo pensiero sembra aver contagiato lui stesso, che ha giocato con una fiducia speciale, esaltandosi nella tensione delle partite importanti.
Sapere che poi c’è Sinner nel secondo singolare aiuta. Per l’Italia è stato come partire sempre 1-0. Non ha mai tremato, nemmeno di fronte a una delle migliori prestazioni della vita di Tallon Griekspoor - giocatore pericoloso che ha tirato a massimo volume dal primo all’ultimo punto, finendo schiantato per qualche errore qua e là. Chiude la stagione con solo 6 sconfitte: nessuna senza aver vinto almeno 1 set. Solo a Federer era riuscito nella storia.
È la la Davis di Berrettini, e ovviamente della sua bromance con Sinner: i loro sorrisi, i loro abbracci, i buffetti affettuosi. Il loro doppio tenero e ultra-violento, con dritti che esplodevano sfruttando tutta l’ampiezza del campo, o trapassavano i corpi. E le dichiarazioni in cui la stima sfocia direttamente nell'amore; e i siparietti davanti ai microfoni, e nelle interviste.
Tre anni e mezzo fa, mentre aspettavamo Sinner e Musetti, è arrivato, inatteso, Matteo Berrettini. Ci ha introdotto a dei palcoscenici che non avevamo mai frequentato. Ci ha permesso di tifare un italiano in una finale di Wimbledon. Sarebbero arrivati Slam e medaglie olimpiche, e due coppe Davis. Nella foto di gruppo Angelo Binaghi è al centro che alza l’insalatiera, gran pascià del tennis italiano. Con 3 Davis in bacheca l'Italia raggiunge Paesi dal grande pedigree tennistico come Germania, Repubblica Ceca e Russia. Non pensavamo di poter appartenere a quel gruppo.
La squadra è giovane e pare avere ancora qualche margine di miglioramento, altri sorrisi e altre coppe sembrano all'orizzonte. Dicono che ci si abitui, prima o poi.