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«Che dire: molto semplicemente più di così non avremmo potuto fare». Toto Forray parlava così dopo aver aiutato Trento a cucirsi uno Scudetto sul petto, quello dei Campioni d’Italia in Serie B1. Più di così, a una squadra che aveva iniziato a pensare in grande dall’inizio della presidenza di Luigi Longhi, giornalista professionista e leader dei bianconeri dal gennaio 2012, proprio non si poteva chiedere. Chissà se in questi anni l’ha pensato altre volte.
Avrà ragionato su cosa potessero migliorare quando, alla terza stagione in Serie A, dopo un’altra storica promozione in A2, si erano arresi solo alla Reyer Venezia in una serie per lo Scudetto tra outsider. Oppure l’anno successivo, nel 2018, quando questa volta era stata Milano a infrangere un sogno tutto sommato insperato: scrivere la storia della pallacanestro italiana all’ombra delle Dolomiti. In quella finale, in bianconero c’era anche Shavon Shields.
Toto Forray avrà pensato a cosa potessero migliorare anche quando, a circa tre minuti dalla fine della semifinale di Final Eight contro Trieste, erano spalle al muro, con un paio di possessi da recuperare e la tensione che iniziava a farsi sentire. In fin dei conti, in una competizione in cui il passo falso è dietro l’angolo, nessuno avrebbe recriminato loro un’eliminazione di questo tipo. Ma si sono concessi un giorno in più a Torino.
Il playmaker argentino, che quest’anno è diventato anche il giocatore con più presenze all-time nella storia dell’EuroCup, ha sempre accompagnato le sue memorie ultradecennali in bianconero con un iconico codino. Ieri sera, negli spogliatoi dell’Inalpi Arena ravvivati da un gradevole aroma di spumante, quello che scorre a fiumi per festeggiare le vittorie, un taglio del tuttofare - anche barbiere, a questo punto - Andrea Pecchia l’ha fatto spuntare.
«Nuovo taglio, nuova vita», si sente dire spesso. Nessuna nuova vita per Toto Forray, destinato a ritirarsi da leggenda trentina con la 10 sulle spalle, ma un’occasione speciale che mette la candelina sulla torta a un amore che continua da 14 anni tra la guardia di Buenos Aires e l’Aquila. Perché Trento, con un inavvertito ma da alcuni atteso exploit, si è portata a casa la Coppa Italia. E più di così non avrebbero potuto fare.
UN CAPOLAVORO CHE ARRIVA DA LONTANO
Trento si è qualificata alla Final Eight, la terza consecutiva organizzata a Torino, come terza forza del campionato al termine del girone d’andata, per poi conquistare la testa grazie a una crescita evidente nelle ultime settimane, culminata con le vittorie contro Treviso, Venezia, Trapani e Varese.
Ma in una competizione così ravvicinata e intensa la regular season tende a contare poco. L’hanno dimostrato, nel recente passato, anche Brescia e Napoli riuscendo a vincere da sfavorite nelle edizioni 2023 e 2024. Effettivamente Trento ha incontrato delle difficoltà nel percorso, sia nei quarti contro Reggio Emilia che in semifinale contro Trieste, tuttavia ha sempre trovato il modo di rimanere stoica e al contempo coerente con se stessa, centrando la prima finale di Coppa Italia nella storia della società, una delle più solide non solo in campo ma anche nei bilanci, nella sostenibilità e nello sviluppo del proprio talento a livello giovanile.
La finale con Milano, descritta da Ettore Messina in conferenza stampa come autrice di una «partita dalla povertà preoccupante», in cui i suoi giocatori sono stati «surclassati in ogni aspetto del gioco», ha avuto storia a sè. Tutti gli spettatori presenti sugli spalti dell’ex Palasport Olimpico non hanno mai avuto il benché minimo dubbio sull’esito della finale. Dalla metà del terzo quarto in poi, Milano ha smarrito i favori del pronostico in un amen.
Il 12-4 di parziale con cui Trento ha aperto il quarto quarto ha iniziato a far illuminare gli occhi ai membri di una dirigenza capace di lavorare con pacatezza, equilibrio e raziocinio in un contesto fin troppo spesso rumoroso. Lo stesso vale per lo staff tecnico di Paolo Galbiati, a cui è stata affidata la squadra all’inizio della scorsa stagione e che ha raccolto la più saporita delle mele Golden. La sua seconda Coppa Italia, dopo quella vinta con Torino nel 2018.
Una vittoria, quella che vale il primo trofeo in “alta quota” per la società trentina, che non può non arrivare da lontano. Il motivo sta tutto nella programmazione di un roster fatto su misura con il basket messo in scena dal tecnico quarantenne di Vimercate, fatto di fluidità offensiva, ritmo nel coinvolgersi a vicenda e una miriade di movimenti off-screen. Non c’è un singolo protagonista di questo gruppo che non sia messo a suo agio nel sistema di Trento.
A partire da Quinn Ellis, a 21 anni già il volto più incoraggiante e la speranza cestistica della Gran Bretagna. Metronomo capace di dettare i tempi ad un’orchestra che talvolta svogliava in fretta lo spartito, costretta a rallentare dalla fisicità dei corpi di Milano, ha infilato tre partite da leader tecnico senza concorrenza: 14 assist contro Reggio Emilia, vicinissimo a una tripla doppia (11 punti, 10 rimbalzi, 8 assist) con Trieste, e glaciale con 14 punti in finale.
L’MVP della Final Eight 2025, passato con coraggio dalla grigia Sheffield al sole di Capo d’Orlando nel 2019, è stato ingaggiato e lasciato subito in prestito da Trento nel 2022, prima di inserirlo con merito come ingranaggio chiave del meccanismo di coach Galbiati nell’estate successiva. Quest’anno, con al fianco un tiratore eccezionale come Jordan Ford - ex campione nazionale di scacchi al college, che vede il campo «come una scacchiera» - si sta esaltando, raccogliendo le attenzioni di tanti scout di squadre europee e NBA.
Una vittoria che pone le proprie basi anche nella fiducia in alcuni singoli, senza farsi condizionare da problemi fisici raccolti in passato. Non è un caso se questa Trento si fonda sul rendimento di Anthony Lamb, che poco più di un anno fa aveva subito la rottura del tendine d’Achille; o su Andrea Pecchia, già allenato da Galbiati a Cremona e suo malgrado protagonista di una rottura del crociato nel 2022.
Il trionfo di Trento, inoltre, ha anche il volto di Saliou Niang. L’anno scorso, alla Next Gen Cup, aveva infilato tra le altre anche una prestazione da 41 punti, 11 rimbalzi e 11 assist. A Torino, l’ala classe 2004 di origine senegalese ha giocato una Final Eight dall’eccelsa efficienza sui due lati del campo, senza il benché minimo timore reverenziale anche contro stelle assolute nel firmamento europeo come Nikola Mirotic e Shavon Shields.
La fiducia nel futuro che si fa presente non è una novità per i bianconeri, che avevano già puntato su Matteo Spagnolo un paio d’anni fa dopo averlo visto confermare le attese riposte nei suoi confronti a Cremona, con lo stesso Paolo Galbiati. A pochi giorni dal suo primo trofeo da protagonista, inoltre, potremmo vedere Saliou Niang debuttare con la maglia azzurra, chiamato da Gianmarco Pozzecco. Bene così, benissimo.
E LE ALTRE?
La sosta di febbraio per le coppe nazionali, ancora una volta, si è dimostrata ricca di sorprese in tutta Europa. Se in Italia ha trionfato Trento - sì, prima in classifica, ma indubbiamente meno favorita alla vigilia della finale rispetto a una Milano che si è sciolta su se stessa -, in Francia è toccato a Le Mans, in Spagna a una Malaga sempre più in crescita. In Germania, persino alla decima in classifica: il Syntainics MBC.
Ritornando con lo sguardo in Italia, questa Final Eight ha restituito dal campo anche la sensazione - già assaporata nella prima parte di stagione 2024-25 - che la medio-piccola borghesia della pallacanestro italiana si stia facendo sempre più ingombrante nei confronti delle due big, una Virtus Bologna che non riesce a risolvere i propri problemi strutturali e una Milano di cui non ci si può fidare per incostanza e inconsistenza.
Da Torino sorride anche Brescia, allenata da quel Peppe Poeta che nel 2018 festeggiava proprio insieme a Paolo Galbiati la Coppa Italia con Torino, caduta solo contro Milano in semifinale dopo una tragica prova al tiro (2/19 dall’arco), la stessa che ha condannato anche i biancorossi all’atto conclusivo: l’Olimpia ha infatti tirato 1/21 da tre punti contro Trento.
Non può che sorridere anche Trieste, che ha vissuto mille emozioni tra quarti di finale e semifinale. La squadra di Jamion Christian, unico allenatore americano del campionato, ha prima sconfitto Trapani sulla sirena dopo quaranta minuti al cardiopalma, e si è poi arresa solo alla solidità complessiva di Trento, nonostante un eroico Michele Ruzzier, figlio dei biancorossi giuliani. Vederli al posto dei bianconeri, l’anno prossimo, sarebbe plausibile.
Ma il presente dice Trento, con la certezza delle proprie consapevolezze e di un talento giovane, diffuso, fresco, con la fiducia di un signor allenatore come Paolo Galbiati. L’Aquila che ha volato studiando le prede per quasi quindici anni si è calata all’attacco in una giornata di sole, con le Alpi sullo sfondo a Torino. I progetti a lungo termine, a volte, hanno un bel lieto fine. E capitan Toto Forray può festeggiare in pace: il codino ricrescerà.