Che senso avrebbe giocare a porte chiuse?
Da una parte è chiaro che nessuno ci stia capendo niente. Dall’altra, ed è altrettanto evidente, nessuno vorrebbe cambiare lo stato delle cose. Ci stanno provando in tutti i modi a non toglierci uno dei nostri intrattenimenti preferiti, da cui siamo più dipendenti, hanno cambiato idea più volte, hanno preso decisioni contraddittorie, hanno litigato, ma a quanto pare non ce la stanno facendo. Lentamente, contro ogni parere, stanno provando a tirare avanti ma sembra difficile che le cose vadano diversamente. Il calcio italiano si sta fermando e per quanto sia logico non siamo pronti. Se ci lamentiamo quando i club si fermano per due settimane per far giocare le Nazionali, come facciamo se le nostre squadre non giocano più a calcio per un periodo ancora più lungo?
Per il momento possiamo consolarci con la Premier, possiamo pensare che magari passerà velocemente, ma non possiamo essere certi che anche gli altri campionati non si fermino e che non si arrivi a far saltare anche gli Europei o i Giochi Olimpici. In fondo non lo sappiamo. Non sappiamo come continuerà la diffusione e la gestione globale del coronavirus né come cambierà lo stato delle cose. Non lo sappiamo neanche in altri ambiti più “seri”. Possiamo solo ragionarci sopra e magari, ragionandoci, combattere sia il desiderio irrazionale che le cose vadano avanti esattamente come prima, a qualsiasi costo, sia il panico di un’apocalisse imminente.
Ad esempio, una soluzione momentanea, per contenere il virus e al tempo stesso continuare a giocare, è giocare a porte chiuse. Ok, ma che facciamo quando si ammala un calciatore? O un dirigente, magari a rischio? Il coronavirus non sparirebbe del tutto dalla realtà del mondo calcistico. Le partite si possono anche giocare in una sfera di cristallo con la neve finta che cade dall’alto, ma una volta finite quelle persone torneranno nel mondo reale, con le stesse identiche probabilità di contrarlo che posso avere io.
A quel punto i casi sarebbero due. O si mette in quarantena l’intera squadra e, penso, anche l’ultima o le ultime due avversarie. E le loro avversarie. E gli arbitri. E le altre squadre che hanno arbitrato. E così via. Oppure si potrebbe continuare a fare finta di niente. Spacciare il tampone positivo per un problema muscolare.
Credo che in realtà non sarebbe possibile mascherare i casi di coronavirus all’interno dei club. Non a lungo, almeno. La notizia uscirebbe, come escono notizie più frivole, oppure in breve tempo i casi diventerebbero troppi per non prendere misure adeguate. Credo soprattutto che il sistema non sia così corrotto e criminale da mettere in pericolo la salute di tutti, comprese persone care a chi di quel sistema fa parte.
Ma se quest’idea mi è venuta in mente è perché, sempre in realtà, il calcio è un mondo che ha già l’abitudine di nascondere e negare le questioni problematiche. Lo fa con l’omosessualità, per non rompere un tabù praticamente inesistente in qualsiasi altro settore, ma lo fa anche con i disturbi mentali. E sono due cose che non minacciano direttamente lo svolgimento del campionato come invece fa il coronavirus.
2. È immaginabile uno sport senza pubblico?
Se c’è una cosa che ho capito dalle serie tv e dai film apocalittici che ho consumato in questi anni è che momenti del genere ci costringono a confrontarci con noi stessi. Proviamo allora a immaginare una soluzione ancora più fantascientifica.
Diciamo che si riesce a isolare tutti i calciatori e gli staff tecnici, gli arbitri e i dirigenti, per far giocare i principali campionati e le competizioni internazionali davvero a porte chiuse. Che problemi solleverebbe uno scenario del genere? Anzitutto, saremmo costretti a chiederci che senso ha uno sport senza spettatori presenti in carne e ossa. Se possiamo parlare ancora di sport e se non sarebbe più preciso parlare, una volta e per tutte, di uno spettacolo.
Foto di Derek Hudson / Getty Images.
Non ricordo in quale racconto di Raymond Carver (magari nei prossimi senza calcio avrò anche il tempo di rileggerli tutti e recuperare il titolo di quello di cui sto parlando) c’è una scena in cui un uomo si ferma a guardare una partita di calcio tra bambini, forse seduto su un muretto a bordo spiaggia, ammirando un bel passaggio. Forse ci dimentichiamo che quello che ha in comune il calcio d’élite con quello che giocano i bambini non è solo l’eventualità di un bel passaggio, appunto, ma anche il fatto che qualcuno si sia fermato, abbia interrotto il flusso della propria vita, per osservare.
La pervasività del calcio televisivo ha reso più sottile la questione, la nostra presenza non è più richiesta, non è neanche necessario fermarsi in quel preciso momento in cui l’evento si sta svolgendo, possiamo viverlo facendo altro (cenando, chiacchierando con gli amici, scrollando lo schermo del cellulare) o recuperarlo più tardi. Ma fino a che punto possiamo spingerci, quanto possiamo astrarre il calcio dalla sua natura? Mio nonno, negli ultimi anni di vita, si addormentava davanti alle partite della Roma e toccava a me raccontargliele meglio il lunedì seguente a colazione. Però ogni domenica mattina usciva di casa e andava a vedere non ricordo quale squadra della Spes Artiglio, forse addirittura un campionato giovanile.
3. Quanto può allontanarsi lo sport dalla realtà prima che diventi fantascienza?
La seconda questione che tira in ballo lo scenario sci-fi descritto sopra è: i calciatori sarebbero disposti ad accettare di vivere ancora di meno nel mondo reale, a non frequentare più le proprie compagne, le proprie famiglie, a isolarsi in una teca di vetro sempre meno metaforica pur di continuare a giocare e a tenere alti i propri stipendi? E noi saremmo disposti a vivere in un mondo in cui i calciatori di massimo livello sono ancora più distanti da un essere umano normale?
Gli sportivi d’élite sono già meglio nutriti, meglio pagati, meglio curati di qualsiasi altra categoria sociale. E se diventassero anche gli unici sani? Per nostra fortuna il Coronavirus non è come la peste polmonare del ‘300, o come il virus di The Walking Dead, ma a scopo puramente speculativo proviamo a immaginare un mondo in cui noi ce ne andiamo in giro con la mascherina e il disinfettante in tasca, con parenti e conoscenti malati, in terapia intensiva, alcuni in pericolo di vita o persino morti, mentre in uno stadio vuoto e protetto da un cordone sanitario si sfidano superuomini tipo Haaland e Mbappé.
Un mondo in cui le scuole e le università sono chiuse ma in cui dei bambini con guanti e mascherina agitano il tappeto con le stelle mentre parte l’inno The Champiooooons oppure, peggio, O Generosa.
Fino a quale categoria riuscirebbero a proteggere i calciatori in questo modo? Solo i campionati nazionali e le coppe internazionali o anche la Serie B? Di certo sparirebbero i campionati dilettantistici. Saremmo disposti allora ad accettare che il calcio di prima fascia sia l’unico calcio che resta? Per non passare un periodo senza Champions League (e solo le persone che mi stanno vicine sanno quanto mi piaccia la Champiooooooons) saremmo disposti ad accettare che le categorie inferiori spariscano, che club di provincia con una storia e un pubblico muoiano?
Ma non è quello che sta già succedendo, da prima che si iniziasse a diffondere il nuovo Coronavirus?
4. Riusciremo a cambiare il nostro sguardo?
Ovviamente queste riflessioni lasciano il tempo che trovano. La realtà andava per conto proprio anche prima e ragionamenti del genere non sono certo nuovi. Semmai un’epidemia che ci costringa a fare per un po’ a meno del calcio può mettere in una prospettiva diversa alcune cose che diamo per scontate.
Foto di Stu Forster / Getty Images.
Il discorso sportivo negli ultimi anni si è fatto sempre più tossico e polarizzato, tutti i giocatori sono scarsi, o sono scarsi i loro avversari, o lo diventeranno a breve. Tutti gli allenatori sono fortunati e prima o poi dimostreranno la loro incompetenza. Tutti i giornalisti sono di parte e non capiscono niente delle squadre o dei giocatori di cui parlano. Così come gli altri tifosi, quelli delle altre squadre soprattutto, ma anche alcuni di quelli della “nostra” squadra.
Perché se il calcio non è solo quello dei superuomini e dovremmo tornare ad interessarci e sostenere anche quello delle categorie inferiori, a maggior ragione dovremmo riuscire ad apprezzare quello di élite. Non c’è contraddizione, o almeno non ci dovrebbe essere, tra questi due livelli.
Un periodo senza tutto questo, magari, ci farà godere maggiormente di cosa sono capaci di fare i calciatori migliori cercando di essere più flessibili e sfumati nei nostri giudizi, cercando di prenderla meno come una questione di vita o di morte.
Il punto è che il calcio a cui una parte di noi non vorrebbe rinunciare anche, letteralmente, a costo di ammalarsi, ha già di suo dei problemi che dovremmo affrontare. Nelle serie apocalittiche di cui parlavo il vero nemico non sono mai gli zombie o i vampiri, ma gli altri esseri umani. In questo caso non è il Coronavirus ma il nostro modo di affrontare una crisi sanitaria.
Abbiamo iniziato litigando, andando nella confusione più totale nel tentativo di difendere interessi egoistici e corporativi. Possiamo continuare, però, mettendoci d’accordo su un’idea di calcio diversa.
Non è detto che stare senza calcio per un po' non possa essere (scusate il gioco di parole) salutare.