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Il Coronavirus ci ha costretti a ripensare lo sport
04 mar 2020
E a riflettere sul suo significato nelle nostre vite.
(articolo)
12 min
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Michael Morkov è un ciclista danese di 34 anni. Lo scorso giovedì è arrivato a Berlino per partecipare al Mondiale di ciclismo su pista di ritorno da Abu Dhabi, dove si stava tenendo il Tour degli Emirati Arabi Uniti. È andato al velodromo di Berlino a vedere i suoi compagni di Nazionale battere il record del mondo dell’inseguimento a squadre e poi è tornato in albergo. Il giorno dopo gli organizzatori del Tour degli Emirati Arabi Uniti hanno deciso di sospendere la corsa per via di due sospetti casi positivi al Covid-19 nella carovana che seguiva gli atleti (su cui ancora oggi non c'è grande chiarezza). Tutti i 167 partecipanti all’evento sono stati messi in quarantena, compresi ciclisti come Chris Froome e Adam Yates, e anche i giornalisti al seguito sono stati chiusi nei rispettivi alberghi, in attesa di capire come sarebbe stata risolta questa emergenza invisibile. Solo chi fosse risultato negativo al Covid-19 sarebbe potuto uscire dagli Emirati Arabi Uniti, ma Morkov se n’era andato un giorno prima che scoppiasse l’emergenza.

Quando ha saputo la notizia, Morkov ha dichiarato di aver immediatamente pensato alle «centinaia di volte» in cui si è abbracciato con qualcun altro negli Emirati Arabi Uniti, nei quattro giorni in cui è rimasto là. Con il suo allenatore ha deciso quindi di rimanere chiuso nella sua camera d’albergo, mentre l’UCI (l’Unione Ciclistica Internazionale) organizzava i test per capire se fosse stato contagiato o meno. Quando hanno dato esito negativo per Morkov ovviamente è stato un sollievo: «Mi sentivo molto in colpa di aver potuto passare il virus ad altre persone, ai miei compagni di squadra». Il giorno dopo aver ricevuto il via libera per gareggiare, dopo 34 ore di isolamento, Morkov è sceso regolarmente in pista e insieme al compagno di squadra Lasse Norman Hansen ha vinto l’oro nella Madison maschile. «Due giorni fa non sapevo nemmeno se potessi gareggiare o meno», ha dichiarato dopo la corsa «Adesso mi sento il padrone del mondo».

In condizioni normali quella di Markov sarebbe una storia che si inserisce perfettamente nella narrazione dominante dello sport come superamento dei limiti, una “storia da film” com’è stata già chiamata, tanto più perché realizzata nello sport che forse più di qualunque altro sembra in grado davvero di dare all’uomo gli strumenti per superare i propri limiti. All’interno di una delle più gravi emergenze sanitarie degli ultimi anni, però, la storia di Morkov è inevitabilmente passata in secondo piano e tutta la sua aura mitologica, quello splendido incantesimo che lo sport esercita su noi appassionati apparendo ai nostri occhi come qualcosa di davvero importante nell’economia delle nostre vite, e che noi scrittori contribuiamo ad alimentare, si è dissolto. D’altra parte, l’emergenza legata al coronavirus è talmente critica ed estesa, soprattutto per il mondo dello sport, che ci ha costretto ad allargare lo sguardo, fino al punto di farci riflettere sulla sopravvivenza stessa dello sport, sulla sua importanza all’interno del nostro mondo. Ci ha costretto cioè a pensarci in una realtà in cui lo sport è ciò che è davvero senza quell’incantesimo, e cioè solo un gioco, che passa in secondo piano se comparato alla nostra salute e al nostro lavoro.

Per le persone per cui lo sport è un lavoro, che siano atleti, giornalisti, medici o altri professionisti, i due piani però coincidono e l’emergenza del Covid-19 diventa una minaccia esistenziale alla fine poi non così diversa da quella che stanno vivendo in altri settori, come quelli del turismo o della ristorazione. Un buon esempio ci arriva proprio dal ciclismo su strada che, come ha già fatto notare il Post, è probabilmente lo sport più esposto nei confronti di questa emergenza.

La tomba del tuffatore / Foto di Fine Art Images / Getty.

Il ciclismo su strada non può disputarsi a porte chiuse perché attraversa letteralmente le strade di un Paese, portando centinaia di persone (non solo i ciclisti, ma anche i giornalisti, i membri dello staff tecnico e medico, e gli stessi tifosi) a spostarsi su grandi distanze in brevi lassi di tempo. Nei casi dei grandi giri ad attraversare interi Paesi da parte a parte, per l’appunto. È la stessa natura del ciclismo su strada, insomma, ad essere incompatibile con le norme con cui si sta cercando di arginare la diffusione del Covid-19, che cercano di impedire il più possibile i grandi assembramenti di persone e gli spostamenti incontrollati. E la grossa sfortuna per il ciclismo è che le prossime settimane, probabilmente le più critiche nella gestione di questa emergenza, saranno anche quelle in cui la stagione dovrebbe entrare nel vivo. Prima con la Strade Bianche (prevista per il 7 marzo), poi con la Tirreno-Adriatico (11 marzo), poi con la Milano-Sanremo (21 marzo), e infine con i grandi giri, il Giro d’Italia (9 maggio) e il Tour de France (27 giugno) – solo per citare le corse più importanti. La squadra americana EF Pro Cycling, ad esempio, ha già chiesto all'UCI e a RCS, che organizza molte di queste corse, di essere esonerata dal dover partecipare alla Strade Bianche, alla Tirreno-Adriatico e alla Milano-Sanremo.

Se l’emergenza dovesse prolungarsi fino alle porte di maggio, o semplicemente assumere negli altri paesi europei la stessa dimensione che ha già preso in Italia, sarebbe sostenibile far correre queste gare o il ciclismo sarebbe costretto a un anno di pausa? E il ciclismo, come sport nel suo complesso, può permettersi un anno di pausa o anche solo l’annullamento di un grande giro? Quanti sponsor, il vero motore economico dietro alle squadre e alle corse, decideranno in base a quanto sta succedendo in questi giorni di investire in altri sport, o in altri settori, se il ciclismo quest’anno dovesse dimostrare in maniera così eclatante la sua fragilità?

Il ciclismo, comunque, non è l’unico sport a vivere questo momento come una minaccia alla sua stessa esistenza. Con la Serie A abbiamo già visto in Italia come il calcio, stretto tra la necessità di contribuire alla gestione della salute pubblica e quella di contenere i danni economici, sia stato portato in fin dei conti facilmente molto vicino a una situazione di crisi che non viveva dai tempi delle due guerre mondiali, l’unico momento in cui la nostra quotidianità è stata privata dello sport nella storia contemporanea dell’Occidente. Proprio ieri il comitato scientifico predisposto dal governo italiano ha consigliato di interrompere qualsiasi evento sportivo che comporti un forte affollamento di persone per almeno un mese, mandando in fumo la prospettiva che Juventus-Inter (la partita più importante di questo nostro campionato) si potesse giocare con il pubblico. In questi giorni ci siamo appassionati a seguire i contrasti all’interno della Lega Serie A, divisa tra le squadre che mettono le salute dei tifosi e dei propri giocatori davanti a tutto (come l'Inter, che attraverso le parole del proprio presidente, Steven Zhang, è sembrata prendersela con il presidente della Lega Serie A, Paolo dal Pino, proprio per questa ragione) e chi invece vorrebbe preservare l'immagine di "successo" del calcio italiano. È possibile, però, che, se questa emergenza dovesse assumere queste stesse dimensioni anche nel resto d’Europa, presto queste discussioni non ci sembreranno nient’altro che scaramucce rispetto all’ombra che allungherebbe sul normale svolgimento delle grandi manifestazioni previste nell’estate di quest’anno, e cioè gli Europei prima e le Olimpiadi in Giappone poi.

Proprio nella prima metà di questa settimana il calcio europeo si è riunito ad Amsterdam, dove si è tenuto prima il Comitato Esecutivo della UEFA e poi il Congresso Ordinario per il sorteggio della fase a leghe della Nations League 2020/21, per iniziare a discutere tra le altre cose anche delle varie possibilità in vista dell’inizio degli Europei, che si terranno tra 100 giorni esatti. L’organo che dirige il calcio europeo ha dichiarato ufficialmente di essere in contatto con le autorità locali e internazionali riguardo allo sviluppo dell’emergenza e che «per il momento» non c’è bisogno di cambiare la programmazione in vista di questa estate. Il vicepresidente della UEFA Michele Uva ha poi precisato che «il percorso sportivo verrà bloccato solo se la situazione dovesse precipitare». Il punto, in un contesto in cui le autorità sportive sembrano non avere chiaro nemmeno se sia opportuno o meno far giocare le partite a porte aperte, è cosa significhi esattamente “precipitare”.

Il grosso problema con gli Europei è innanzitutto la sua natura itinerante, decisa per festeggiare i 60 anni della competizione. Quest’estate il torneo era stato pensato per tenersi non in unico paese, ma in ben 12 diversi con una stima di circa 2,5 milioni di persone che si sposteranno all’interno dell’Europa per assistere alle partite. Una natura che lo rende chiaramente incompatibile con le misure prese dai governi europei per arginare la diffusione del virus, tanto più che la partita inaugurale (Turchia-Italia) si terrà a Roma, nella capitale del paese che al momento rappresenta l’epicentro europeo dell’emergenza. È realistico pensare che tra appena 100 giorni la situazione si sarà normalizzata al punto da permettere il normale svolgimento di questi Europei o le autorità sportive saranno costrette a misure straordinarie? Se questa emergenza ci mettesse un periodo molto più lungo a risolversi di quanto ci immaginiamo oggi, com’è possibile, sarebbe davvero possibile posticiparlo? Il presidente della FIFA, Gianni Infantino, ha dichiarato che non è possibile escludere nulla, compreso il rinvio.

La situazione è talmente incerta e dare delle risposte a queste domande talmente difficile al momento che queste riflessioni allungano le loro ombre anche su eventi che si terranno dopo gli Europei, come le Olimpiadi, che teoricamente dovrebbero aprirsi il 24 luglio allo Stadio Olimpico di Tokyo. Proprio martedì l’ufficio stampa del comitato organizzatore delle Olimpiadi giapponesi ha ribadito molto nettamente all’ABC che «non è mai stata presa in considerazione la possibilità di cancellare i Giochi» e che non avrebbe risposto a domande ipotetiche su cosa sarebbe successo nella possibilità in cui l’emergenza fosse peggiorata. In realtà, però, di questa possibilità già se n’è parlato molto, anche dentro al Giappone, a dimostrazione di quanto questo timore sia molto più concreto di quanto forse ci piace pensare.

Il primo a paventare la possibilità di una cancellazione delle Olimpiadi è stato Dick Pound, membro di lungo corso del Comitato Olimpico Internazionale (di cui è stato anche vice-presidente), nonché ex presidente della WADA (l’agenzia internazionale anti-doping) e del Comitato Olimpico Canadese. In una recente intervista esclusiva all’agenzia di stampa AP, Pound ha ipotizzato che ci sarebbe tempo fino a maggio per decidere cosa fare con le Olimpiadi giapponesi. «In quel periodo dovremmo chiederci: “Questa situazione è sufficientemente sotto controllo da essere sicuri di poter andare a Tokyo o no?”», ha dichiarato Pound, secondo cui in caso di risposta negativa si dovrebbe pensare direttamente all’annullamento, mentre il rinvio sarebbe logisticamente impossibile. «È impossibile rinviare qualcosa della grandezza delle Olimpiadi. […] Non puoi dire: “Allora le faremo a ottobre”». Il dirigente canadese, poi, ha provato a spegnere il fuoco che aveva appena acceso («Tutte le indicazioni finora ci dicono che andrà tutto come programmato») ma ormai la tempesta era uscita fuori dal vaso di Pandora. Il giorno successivo il segretario generale di gabinetto del governo giapponese, Yoshihide Suga, è stato costretto a dichiarare ufficialmente di essersi sentito con il Comitato Olimpico Internazionale, che gli aveva assicurato che le dichiarazioni di Pound non combaciassero con la posizione ufficiale dell’organizzazione, mentre il ministro preposto all’organizzazione delle Olimpiadi, Seiko Hashimoto, riferiva al parlamento che «il Comitato Olimpico Internazionale si sta preparando per i Giochi di Tokyo come programmato».

L’opzione di spostare le Olimpiadi in un periodo dell’anno in cui la situazione sarà maggiormente sotto controllo, però, rimane sul tavolo. È stata la stessa Seiko Hashimoto a parlarne, proprio ieri, sempre parlando al Parlamento giapponese, dichiarando che da un punto di vista esclusivamente contrattuale «il Comitato Olimpico Internazionale ha diritto di cancellare i Giochi solo se non vengono svolti nel 2020». «Questo significa che i Giochi possono essere posticipati, a patto che si tengano entro la fine dell’anno civile».

Pittura Etrusca VI sec. A.C.

Questo, ovviamente, non significa che i Giochi Olimpici verranno effettivamente spostati. Anzi, c’è da essere sicuri che sia il governo giapponese che il Comitato Olimpico Internazionale faranno di tutto pur di non spostare le Olimpiadi, non solo per gli squilibri che comporterebbe nei calendari sportivi di quasi ogni disciplina sportiva ad alti livelli nel mondo, ma anche per il loro valore economico. Non bisogna dimenticare che il Comitato Olimpico Internazionale deve poco meno dei tre quarti delle sue entrate dalla vendita dei diritti TV delle Olimpiadi, di cui la metà circa deriva solo dall’emittente statunitense NBC, che ha già ricavato oltre un miliardo di dollari di spazi pubblicitari. E uno spostamento delle Olimpiadi a settembre o a ottobre porterebbe a una loro sovrapposizione con le stagioni del football americano e del baseball, senza contare l’inizio delle stagioni calcistiche europee e quindi il conflitto che si verrebbe creare anche con le emittenti del nostro continente.

La sorte dello sport quest’anno verrà decisa proprio dall’equilibrio tra la preservazione del suo valore economico e l’esigenza di venire incontro alle misure di salute pubblica per arginare la diffusione del Covid-19, come d’altra parte abbiamo avuto modo già da imparare dai dibattiti sul prosieguo della Serie A. Un equilibrio forse illusorio e irraggiungibile perché se lo sport ha un valore economico non è solo per lo spettacolo che offre ma anche e forse soprattutto per l’importanza che gli conferiscono le persone che lo seguono. Quella percezione che poi porta effettivamente le persone a comprare i biglietti di una partita o di una corsa, o un abbonamento alla pay-tv. Un’importanza che deriva tra le altre cose anche dalla continuità che lo sport ha avuto e ha nel tempo, dall’impressione che ci dà di poter scandire la vita di ognuno di noi e di tutti, contemporaneamente.

È per questo che l’opzione di far giocare le competizioni a porte chiuse, come ha fatto pochi giorni fa anche la maratona di Tokyo (che sarebbe anche l’evento simbolicamente più importante delle Olimpiadi giapponesi), ci sembra sempre così aliena, per quanto spesso necessaria per ragioni di salute pubblica. Non tanto per il valore estetico degli spalti pieni, utili contenuti sempre per quelle televisioni che spendono centinaia di milioni di euro per trasmetterli, ma soprattutto per l’energia che emanano, per il senso di importanza che lo sport, nelle sue occasioni migliori, trasmette. Senza pubblico, lo sport è uno spettacolo desolante che rivela un paradosso: se è vero che nelle situazioni di emergenza lo sport è la cosa meno importante, quello a cui più facilmente possiamo fare a meno, è anche vero che è solo nel momento in cui si ferma lo sport che ci accorgiamo che la situazione è davvero grave.

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