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Emanuele Atturo

I corpi degli atleti stanno andando in pezzi

Siamo nell'epoca della medicalizzazione dello sport.

Jannik Sinner è infortunato all’anca, e nemmeno noi ci sentiamo tanto bene. Da quando ha iniziato a sentire male, durante il torneo di Madrid, o forse anche prima, abbiamo iniziato a star male anche noi, per lui. È iniziato uno strano fenomeno di psicosi collettiva. Una sensazione diffusa, sociale, di ansia, ipocondria e allerta medica su scala nazionale. La sua sofferenza è diventata la nostra, almeno sotto forma di dolore fantasma, di pensiero costante per quell’anca.

 

Si era già visto con Kotov che non stava bene. Dopo un primo set dominato aveva iniziato a muoversi verso il proprio lato destro con un ritardo sospetto. Ai microfoni ha ammesso di sentire dolore all’anca. Dopo la vittoria qualcuno ha iniziato a dirgli che avrebbe dovuto ritirarsi, che non avrebbe dovuto giocare gli ottavi con Khachanov. Lui ci stava pensando ma poi è sceso in campo e, dopo un primo set complicato, ha vinto anche quella partita. Quanto puoi essere infortunato se riesci comunque a battere il numero 16 del mondo?

 

 

Poi è arrivato il ritiro e lunedì Sinner si è dovuto presentare in conferenza stampa a Roma come per giustificare la sua assenza dagli Internazionali d’Italia. Accanto a lui un presidente Binaghi in lutto per non poter esibire nel torneo di casa – quello che lui vorrebbe trasformare in uno Slam – la più grande attrazione nazionale. La conferenza stampa ha assunto toni foschi, a metà tra il summit militare e il funerale. Sinner ha iniziato a descrivere le proprie condizioni mediche con aria seria e preoccupata. L’anca: una risonanza magnetica ha evidenziato che non è al 100%. Guardiamo il video, preceduto da una pubblicità con Sinner testimonial, e pesiamo ogni singola parola, calibrandone la gravità. «Ma esattamente che cos’hai?!», sbotta esasperato un giornalista. In quel momento arriva quella frase come un ferro rovente sul nostro cuore: «Pensavamo non fosse nulla di grave, ma la risonanza ha detto che non sono al 100%. E se non sono al 100% mi fermo un altro po’, perché non ho voglia di buttare tre anni di carriera. Non ho fretta». Nella sala cala un silenzio denso. Tre anni di carriera?! Prima aveva parlato di “obiettivo Torino”, cioè la qualificazione alle ATP Finals che, vista la classifica race attuale, non dovrebbe essere in discussione. A meno che. A meno che questo infortunio non sia veramente grave.

 

«Non voglio entrare nei dettagli», ha pregato Sinner ai microfoni, e allora abbiamo pensato di farlo noi per lui. Un articolo dietro l’altro, video su YouTube e TikTok cercano di decifrare la patologia di Sinner. Si diffonde il panico medico. Si parla di osteoporosi, ma attenzione: osteoporosi momentanea. Rimarrà comunque sulla sedia a rotelle? Cosa dice veramente la TAC? Ci stanno nascondendo qualcosa? Parla l’esperto: «È il conflitto femoro-acetabolare». È colpa del tennis moderno, che aumenta le rotazioni dell’anca per spingere sulla palla. «Con l’anca non si scherza. Ecco perché». «L’anca e quel precedente di Murray, ecco perché Sinner dovrebbe stare attenti». «Perché gli infortuni all’anca sono in aumento. Cosa dice il fisiatra». Si parla di edemi, rigonfiamenti ossei, terapie conservative. Il riposo come unica cura. Un ritiro momentaneo dal tennis? Tutti gli ortopedici d’Italia vengono radunati per dire la loro, attingere alla propria conoscenza, per spiegarci che cos’ha Sinner. Tutta Italia sembra ammalata all’anca, un unico corpo ipocondriaco che cerca su Google informazioni sull’anatomia dell’anca, arrangia una competenza medica utile per capirne di più. Stabilire i precisi confini della preoccupazione.

 

E poi si stilano i programmi. Tutti esperti di programmazione. Si inforcano gli occhiali, si guarda il calendario ATP, si studiano le condizioni atmosferiche dei campi, il tempo di viaggio tra un torneo e l’altro, i cambi di superficie e le loro potenziali ripercussioni sul corpo. Ne discutiamo nei gruppi Facebook, nei thread su X, nei commenti su Instagram. Qual è il torneo che avrebbe dovuto saltare, su quale partita avrebbe dovuto alzare bandiera bianca? Su TikTok e YouTube dottorini bellocci e incamiciati fanno diagnosi, appena prima di un aperitivo.

 

 

Altri medici, o sedicenti tali, rispondono nei commenti: «Le faccio presente che il muscolo psoas cui lei fa riferimento, non origina dove lei sta indicando ma anteriormente e non si inserisce sulla testa del femore ma sul piccolo trocantere»; «A 22 anni ha praticamente finito la carriera!!» dicono i più allarmati; e poi ci sono i motivatori: «Jannik siamo tutti con te sei un ragazzo speciale l’orgoglio di tutti noi devi pensare solo alla tua salute. Con te sempre e comunque, forza ragazzo».

 

Si cerca di assecondare la nostra ansia di proteggere il corpo di Jannik Sinner, patrimonio nazionale. Un’ansia tenera, e certamente paranoica, ma che è il sintomo di un fenomeno più generale, quello della medicalizzazione dello sport e del tennis in generale. Del fatto che la medicina sta assumendo un’importanza sempre più vasta nel discorso sportivo.

 

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Al torneo di Madrid un misterioso virus gastro-intestinale ha decimato i partecipanti. Il torneo si è trasformato in un grosso Hunger games sanitario in cui ha vinto chi ha resistito meglio agli attacchi virali: Auger-Aliassime, che ha sconfitto il virus durante il torneo, pur andando vicino al ritiro, e Andrey Rublev, che ha giocato imbottito di anti-dolorifici per placare i dolori di una possibile angina e i piedi gonfi. Dopo il torneo è stato ricoverato in ospedale per due giorni.

 

 

A Roma, dopo il ritiro di Sinner, è arrivato quello di Matteo Berrettini, che da almeno due anni lotta per rimettere insieme i cocci del proprio corpo. Musetti è sceso in campo sciancato, e dopo un set ha alzato bandiera bianca. Il quadro generale è inquietante.

 

I due migliori giovani giocatori al mondo, Carlo Alcaraz e Jannik Sinner, sono infortunati e alle prese con problemi che non sembrano di poco conto. Rafael Nadal ha descritto la loro situazione non come una sfortuna ma come una conseguenza della natura di questo sport: «Quando il gioco è veloce, e diventa sempre più veloce, ti fai male… Quando giochi per la maggior parte dell’anno su campi duri e su superfici provanti per il corpo, ti infortuni». Nadal ne sa qualcosa. Per mostrarci il suo tennis fantascientifico – quelle impugnature assurde, quello sforzo epico – ha accettato di massacrare il proprio corpo. Lo ha spinto fino a mettere a rischio la possibilità di una vita normale. Durante la straziante stagione 2022, l’ultima fiammata della sua carriera, Nadal ha giocato accompagnato dal dolore costante, imbottito di anti-dolorifici; ha giocato partite zoppicando ed è uscito dai tornei in stampelle. Era difficile non ammirare la sua perseveranza, il suo desiderio. Eppure avevamo anche la sensazione, guardandolo, che ci fosse qualcosa di innaturale.

 

Ai quarti di finale di Wimbledon, contro Taylor Fritz, il corpo di Nadal è piegato dai dolori agli addominali, dopo aver perso un brutto set. Contro Fritz, pochi mesi prima, a Indian Wells, Nadal aveva perso una finale con una costola rotta. Quel giorno, sul centrale dell’All England Club, il padre di Nadal gli fa segni plateali di ritrarsi. Basta. “Fammi giocare un altro po’ ancora, papà” sembra dire Nadal.

 

Pratichiamo lo sport per stare bene, in teoria, e allora perché uno dei più grandi sportivi al mondo si stava facendo a pezzi per giocare a tennis?

 

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Il caso di Andy Murray è ancora più estremo. Nel 2017 comincia a soffrire di problemi cronici che avrebbero dovuto teoricamente interrompere la sua carriera. Murray in fondo ha 30 anni e ha alle spalle un percorso ricco di soddisfazioni. Invece decide di non mollare: ricopre l’anca con un rivestimento metallico. Un’operazione chirurgica complessa chiamata “resurfacing”, che evita la sostituzione completa dell’arto. Murray documenta il suo recupero in un documentario uscito su Amazon Prime. Racconta dell’acutizzarsi dei suoi problemi in una partita con Querrey a Wimbledon: «Per un atleta di 29 anni so di non essere giovane, quindi mi aspetto acciacchi e dolori per il mio corpo, ma era diverso. In quel momento ero il numero uno del mondo, e non riuscivo a camminare. Non riuscivo a mettermi le scarpe e i calzini».

 

I documentari sugli sportivi che recuperano dagli infortuni stanno diventando un genere. Offrono un arco narrativo semplice e una morale classica: la resistenza di fronte ai limiti del corpo e alle difficoltà oggettive. Sono stati documentati i recuperi dagli infortuni di Breece-Hall, Troy Deeney, Federico Chiesa e persino Rob Holding. Esiste anche una serie tutta dedicata al tema: From pain to victory.

 

Il caso di Resurfacing: Andy Murray è diverso, però. Il documentario scende in particolari medici davvero minuti, con dovizia di immagini gore di organi interni, muscoli sfibrati e infiammati, ossa rotte, cartilagini sbrindellate. Come se il racconto ci tenesse a dire quanto a fondo fosse compromesso il corpo di Andy Murray. Il suo dolore viene esibito come una medaglia: “no pain, no gain” dicono i motivatori masochisti.

 

Da quando è rientrato stabilmente nel circuito le sue partite sono diventate uno spettacolo perturbante. Con incistata un’anca metallica, da robot rattoppato, Murray cerca affannosamente di ritrovare un sé stesso ormai distrutto, fallendo puntualmente. Sa che non potrà mai tornare quello di una volta, e sa che giocare a tennis agonisticamente è masochismo. Continua a infortunarsi e a stare male dopo partite intense. Allora la sua sublimazione in campo, il suo scopo, sembra diventato il dolore stesso, il competere attraverso la sofferenza. Dimostrare di poter rinunciare alla cosa più preziosa, la salute, pur di giocare. Una vocazione da martire medievale.

 

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Lo sport contemporaneo, con la sua velocità estrema e i suoi calendari affollati, è diventato nemico del corpo. Si gioca sempre di più, in ogni sport, e soprattutto in quelli che vedono sé stessi come un’azienda, e che hanno abbracciato il modello capitalistico della crescita infinita. Per fatturare di più bisogna giocare di più, e il gioco deve essere più spettacolare. Quindi più forte, più veloce, estremo. Deve competere nel mercato dell’attenzione, e quindi avere la rapidità adrenalinica dei migliori videogiochi, le storyline delle migliori serie tv. I corpi degli atleti vanno in pezzi.

 

In NBA il problema è diventato inquietante. Dieci giocatori All-Star hanno avuto infortuni che gli hanno fatto saltare tutti o almeno parte dei playoff 2021: il doppio di quelli del 2000. Le squadre sono quindi costrette a gestire con prudenza i propri migliori giocatori. L’esempio virtuoso è stato quello dei Toronto Raptors con Kawhi Leonard nel 2019, tenuto a riposo per permettergli di arrivare al meglio della condizione ai playoff. Ma se tutte quelle partite ficcate in calendario si giocano senza le stelle protagoniste che senso ha? Allora da quest’anno è stata introdotta la “Player Participation Policy”, una stretta sulla gestione dei carichi dei migliori giocatori (intesi come quelli che hanno ricevuto almeno una convocazione all’all-star game negli ultimi tre anni). Le squadre non possono rinunciare a più di una “star” contemporaneamente in un match; devono assicurare la presenza delle “star” nelle partite in diretta televisiva nazionale; divieto di “shutdown”, cioè di escludere dalla rosa un’atleta per permettergli di riposare; assenze equilibrate tra casa e trasferta. Se le star non giocano devono almeno farsi vedere in panchina, anche in borghese va bene. L’importante è che il loro corpo sia a favore di telecamera.

 

Insomma, in NBA esiste un braccio di ferro tra le esigenze delle squadre e dei giocatori, che cercano di proteggere la propria salute e la propria brillantezza, e la lega, che invece ha interesse economici nel fatto che questi giocatori giochino sempre. O comunque il più possibile. Accettando il rischio che i corpi di quegli atleti si consumino al punto di essere fuori uso nelle partite più importanti – e quindi più seguite e più remunerative. Un equilibrio quindi potenzialmente auto-distruttivo per la NBA.

 

Nel calcio si discute ogni anno di più del problema degli infortuni. Secondo uno studio di Isokinetic del 2022 – con dati dalla Champions League – gli infortuni al legamento crociato del ginocchio sono aumentati del 6% negli ultimi vent’anni. I problemi sembrano da una parte un effetto dell’accelerazione dei ritmi di gioco. Un calcio sempre più basato sull’intensità e i duelli. Dall’altra c’entra, come sempre, il fatto che si gioca troppo. Da anni Jurgen Klopp si lancia in accuse sempre meno ascoltate contro il calendario del calcio inglese. Qualche giorno fa ha fatto notare che la programmazione della Premier League finisce per stancare le squadre al punto da sottrargli poi la competitività nelle coppe europee. Non si tratta solo del calendario, ovviamente, ma anche di un ritmo di gioco particolarmente usurante nel calcio-centrifuga della Premier. Da qui il fatto che nessuna squadra inglese partecipa a una finale europea, e l’Aston Villa ha perso in semifinale contro l’Olympiakos. Quello che è, secondo un’opinione condivisa, il campionato migliore al mondo, si mangia la sua stessa capacità di competere – sacrificata sull’altare degli accordi commerciali e di marketing. L’importante è giocare il più possibile, così da aumentare la qualità teorica del prodotto, anche a costo di comprometterla seriamente.

 

Non è un problema solo del calcio inglese. Pochi giorni fa il sindacato dei calciatori, FIFPro, ha mandato una lettera alla FIFA, intimandogli di fermare il nuovo Mondiale per club, che dovrebbe partire nel 2025 portando con sé nuove partite estive. Dal prossimo anno il nuovo formato della Champions League introdurrà ancora più partite e il calendario diventerà sempre più congestionato. Si arriva insomma a un paradosso: si giocano tante partite per aumentare il livello di spettacolo, col rischio concreto di produrre l’effetto opposto per gli infortuni provocati proprio dalle tante partite. Una classica tendenza auto-distruttiva del capitalismo. Un sistema che per assicurare un presunto benessere globale sta distruggendo il pianeta che rende possibile la vita stessa. Per aumentare l’intensità dello spettacolo sportivo stiamo mettendo a rischio la possibilità dello spettacolo stesso.

 

Si gioca troppo, si dice sempre più spesso, eppure si gioca sempre di più. Sentiamo sempre entrambe le cose, come se questi discorsi non fossero davvero incoerenti tra loro; come se non fossimo disposti a portare in superficie accettare la contraddizione su cui si regge lo sport oggi. Aumentare il numero di partite, allargare il giro d’affari, entrare in mercati freschi, convertire nuovi appassionati in nuovi consumatori. La crescita infinita sembra l’unica strada percorribile per sostenere costi sempre più esagerati; anche se su questa crescita bisogna sacrificare il corpo e le menti degli atleti, e cioè il prodotto principale dello spettacolo.

 

In questo contesto gli atleti devono pensare a sviluppare strategie di auto-protezione: curare la propria routine fisica e mentale in modo da non diventare pazzi o da non infortunarsi. Mantenere un equilibrio miracoloso tra esigenze commerciali, performance e salute. Il tennis, in quanto sport individuale più mediatizzato, è alla frontiera in questo delicato conflitto.

 

Il più celebre e venduto libro sportivo della storia riguarda la vita di un tennista. Open è stato un testo rivoluzionario per molte cose, ma dal mio punto di vista soprattutto per una: ha presentato lo sport d’alto livello non come una fonte di gioia, epica e soddisfazione, ma come un produttore di angoscia e malessere fisico e mentale. Un rovesciamento non da poco. Le prime pagine di Open, quelle più iconiche, raccontano di un corpo umano ridotto in macerie dallo sport d’alto livello. Il corpo di un trentaseienne che non può stare sdraiato troppe ore su una superficie morbida. Nel tennis le discussioni sul calendario sono cominciate prima che altrove, per una ragione semplice: se nello sport di squadra un calciatore può essere sostituito, sul corpo del tennista si regge l’intero spettacolo. Un circo itinerante lungo tutto il globo, tra fusi orari e stravolgimenti climatici. Più vinci, più giochi, quasi sempre un giorno dietro l’altro. Si cammina su una lastra di ghiaccio sottile: giocare senza sentire qualche acciacco è raro, ma giocarci troppo sopra rischia di causare problemi gravi.

 

Da anni si discute di come ridurre il calendario, o addirittura di come asciugare le partite, abbassando la durata delle partite negli Slam, da 3 set su 5 a 2 su 3. Discussioni che non sono mai arrivate da nessuna parte. Da un anno, invece, è nato il formato dei Supermille, che prolunga di una settimana la durata di alcuni Master, come Madrid e Roma, che abbiamo visto in queste settimane. Due tornei lunghissimi, appiccicati tra loro, che dovrebbero servire da teorica preparazione al Roland Garros, lungo altre due settimane con partite tre set su cinque. Insomma: un massacro. Non ci vuole molto a capire le ragioni alla base di questa scelta: raddoppiare le entrate con due settimane invece che una. Le fette di torta del calendario tennistico sono tutte già distribuite (Binaghi parla spesso risentito di “monopolio” o di “posizione di rendita” degli Slam) e bisogna invertarne altre per accontentare investitori o attori influenti del sistema. Stefanos Tsitsipas in questi giorni ha parlato apertamente degli effetti di questo calendario sul corpo dei tennisti: «La programmazione ha un grande impatto sui nostri corpi. Comincia dalla parte mentale e arriva a quella fisica. L’allungamento dei Master 1000 gioca un grosso ruolo e contribuisce molto al fatto che i giocatori si infortunano. (…) Devi essere una specie di supereroe per essere in forma per 10 giorni di fila in ogni evento e arrivare sempre in fondo». Dopodiché ha lanciato uno di quei moniti su cui, credo, possiamo essere tutti d’accordo, ma che accogliamo con la stessa rassegnazione sulle previsioni sul cambiamento climatico: «Se non si prenderanno provvedimenti, e se non si prenderanno decisioni sulla base delle esigenze dei giocatori, è facile che queste situazioni possono ripetersi in futuro».

 

Questa progressiva fragilità dei corpi dei tennisti sembra essere in contraddizione con la sempre maggiore longevità degli atleti. L’età media dei giocatori nelle prime cento posizioni del ranking si è alzata, rispetto a qualche anno fa. È una contraddizione che però esiste solo in parte. La medicina sportiva è abbastanza avanzata da contenere la possibilità di infortuni invalidanti, e le carriera possono protrarsi più a lungo rispetto al passato – anche grazie alle racchette più leggere. L’effetto, però, sono corpi sempre più rotti, incerottati, medicalizzati. Giocatori che giocano attraverso il dolore, o che cercano di re-inventare il proprio stile di gioco per adattarlo a grossi problemi fisici. Di seguito un breve elenco di giocatori ancora relativamente giovani, o del passato recente, i cui problemi fisici sono diventati parte della loro storia e della loro identità. Giocatori vincitori o potenziali vincitori Slam:

 

Stefanos Tsitsipas ha passato l’inizio della sua carriera a giocare ogni settimana. Nel 2021 si è dovuto operare al gomito e da quel momento il suo rovescio ha smarrito efficacia.

 

Juan Martin Del Potro si è ritirato due anni fa dopo una carriera da martire del tennis. Scriveva Fabio Severo che per mostrarci un tennis teoricamente impossibile per il corpo umano, Del Potro si è fatto a pezzi. A ogni ritorno dagli infortuni modificava un po’ i movimenti dei suoi colpi, per renderli meno traumatici, ma non tornando mai quello che era stato. È più giovane di Djokovic e Nadal.

 

Dominic Thiem ha annunciato da pochi giorni il suo ritiro dal tennis. Dopo l’infortunio del 2021 al polso è tornato in campo in una versione spettrale. L’immutata combattività ha aumentato il tono malinconico nella sua storia. La velocità dei suoi colpi ha decelerato fino a una lentezza straziante. Qualche mese fa si era ancora dato un anno per provare a tornare al livello che pensava per sé stesso. Il tempo è scaduto.

 

Alexander Zverev ha rimediato un terrificante infortunio alla caviglia in una semifinale al Roland Garros che avrebbe potenzialmente potuto consacrarlo tra i migliori. È tornato a grandi livelli, ma non ha ancora toccato le punte d’eccellenza precedenti al trauma.

 

Nella saga dei big-3 la variabile medica è diventata sempre più presente, e nella corsa ai record Slam alla fine l’ha spuntata il tennista rimasto sano più a lungo fra i tre, ovvero Novak Djokovic. Un punto di vista espresso di recente anche da Nadal, che ha sottolineato che il non infortunarsi è un merito indiscutibile del tennista serbo.

 

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Non siamo più tanto nell’epoca sportiva degli infortuni fatali; degli eventi traumatici che mettono un punto, drammatico, a carriere brillanti. In un romanzo uscito per SUR, L’infortunio, Chris Bachelder racconta di ventidue uomini che si riuniscono ogni anno per rievocare l’infortunio di Joe Theismann nel 1985. Un giocatore ritenuto in quegli anni fenomenale. Un fatto rimasto nella memoria collettiva per la violenza trasmessa in diretta televisiva, e per il contatto diretto con la fragilità celata dei corpi d’élite degli atleti. L’infortunio che ha spezzato la carriera di Theismann: l’incidente ha interrotto il corso degli eventi.

 

Il racconto della fragilità di oggi non ha più tanto a che fare con una spezzatura, ma con una medicalizzazione dei corpi. Non con il loro collasso, ma col loro progressivo indebolimento. Un racconto simile a quello di Philip Roth in Everyman: la storia della vita di un uomo attraverso le sue malattie. Scrive Roth una frase che andrebbe bene per alcuni dei migliori tennisti al mondo: “Le loro biografie personali erano diventate identiche alle loro cartelle cliniche”. Qualche anno fa un direttore di un giornale mi disse che il futuro del giornalismo sportivo sarebbe stato il ramo finanziario, siamo sicuri che il futuro non sia invece il giornalismo medico?

 

E allora un altro racconto efficace per la contemporaneità dello sport è quello di Darren Aronofsky in The Wrestler: la storia della devastazione del corpo di un atleta. Il fisico di Mickey Rourke, che interpreta una vecchia gloria del wrestling, è pieno di ferite, cicatrici, lesioni. Un corpo infetto e dolorante come quelli dei dipinti di Francis Bacon. Un corpo fasciato, impasticcato, suturato, anestetizzato, sanguinante. A rendere malinconico il suo personaggio, però, è che i marchi di dolore sul suo corpo sono stati fatti per il nostro intrattenimento. Ram, il protagonista, si taglia di nascosto la fronte con una lametta per far sgorgare il sangue dalla testa, un suo avversario gli pinza l’addome con una spillatrice, è quasi sordo, una spogliarellista gli fa notare che ha gli stessi capelli della Passione di Cristo. I vecchi colleghi si muovono col bastone, o direttamente in sedia a rotelle, i nuovi prendono accordi per farsi meno male possibile durante gli incontri. Si auto-definisce “un pezzo di carne decomposto”.

 

Questo compromesso tra violenza e intrattenimento negli sport di combattimento è esplicito. Nella boxe, nelle arti marziali miste, nel wrestling il nostro intrattenimento si produce sulla pelle degli atleti, sull’uso violento del loro corpo. È un patto trasparente e accettato. In sport come il calcio o il basket gli infortuni sono invece difficili da accettare; quando un calciatore si rompe il legamento crociato del ginocchio i messaggi pubblici di sostegno hanno i toni delle condoglianze. Nel tennis, dove non esiste il contatto, la dimensione del logoramento è acclarata. Non c’è spesso trauma ma piuttosto usura. Il corpo porta in superficie, col tempo, la violenza implicita di questo sport.

 

I corpi degli atleti sono il mezzo del nostro intrattenimento ed è chiaro: lo sono sempre stati, nella storia dello sport. Negli ultimi anni, però, le possibilità di questi corpi sono collegate sempre più direttamente con le loro potenzialità economiche. C’è un presunto rapporto di proporzionalità: più questi corpi verranno consumati, più ricavi possono generare. E allora le loro possibilità vengono stirate oltre i loro limiti per mostrarci uno spettacolo estremo. Gli infortuni in aumento, i corpi sofferenti degli atleti, sono il sintomo che forse abbiamo superato un confine.

 

Nel processo di desacralizzazione dello sport, la violazione della salute degli atleti è forse l’ultima frontiera.

 

Fin dove possiamo ancora spremere e spingere i corpi degli sportivi finché non diventa semplicemente immorale? Retribuirli così tanto giustifica ogni eccesso? Ma soprattutto: vogliamo davvero, da spettatori, che l’intrattenimento sportivo sia perennemente a disposizione nel tempo della nostra vita? Non c’è il rischio di togliergli senso e importanza? Non c’è in tutto questo processo una spinta autolesionista?

 

L’impressione è che questa dilatazione del tempo sportivo venga fatta soprattutto a favore di una visione aziendale. La spremitura dei corpi degli atleti viene normalizzata per rincorrere solo un ideale di crescita economica. Come pubblico ci limitiamo ad accettarlo come si fa con gli stati di cose irreversibili, con un realismo allucinato. Pochi giorni fa l’amministratore delegato della Lega Serie A, Luigi De Siervo, ha detto che non si possono giocare gli scontri salvezza in simultanea. Garantire il regolare svolgimento del campionato è meno importante di spacchettare le partite a favore delle pay-tv. Lo stesso concetto di cui stiamo parlando: la crescita economica è più importante di una migliore competizione sportiva. De Siervo ha definito la contemporaneità di partite “superata” e la non contemporaneità come “fisiologica”. Ancora una volta, ci viene presentato come naturale e irreversibile uno stato di cose che invece ci siamo scelti.

 

Scrive Badiou: “Ci viene presentato come ideale uno stato delle cose brutale e profondamente ingiusto, dove ogni esistenza viene valutata in soli termini monetari”.

 

Alla fine resta da chiedersi: ma chi ci guadagna?

 

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Emanuele Atturo è nato a Roma (1988). Laureato in Semiotica, è caporedattore de l'Ultimo Uomo. Ha scritto "Roger Federer è esistito davvero" (66thand2nd, 2021) e "Visionari, la percezione alterata degli sportivi" (Einaudi, 2024).