
Fin dalla scelta del proprio nome, Riot Games ha voluto mettere in chiaro una cosa, e cioè che ogni volta che avrebbe lanciato un videogioco avrebbe rivoluzionato il settore del gaming, genere per genere. Quello che non tornava, nel suo nome, era più che altro la seconda parola che lo componeva, quel “Games”, insomma, che per anni non ha avuto riscontro nella realtà. L’unico gioco prodotto da Riot Games fino ad oggi era stato infatti il solo League of Legends, titolo che ha realmente rivoluzionato il settore del gaming e degli esports, puntando a un gioco totalmente free-to-play il cui modello di business si basa sulle microtransazioni relative alle vendite dei contenuti estetici acquistabili all’interno del gioco. Un modello seguito poi da molti altri dopo di loro, compreso quello che poi è forse diventato il titolo di maggiore successo, e cioè Fortnite.
Durante i festeggiamenti per il decimo anniversario di League of Legends, avvenuti nell’ottobre dello scorso anno, Riot aveva però presentato diversi nuovi progetti, oltre al già giocatissimo TeamFight Tactics, un cosiddetto autochess, una sorta di gioco da tavolo digitale su cui bisogna preparare la propria scacchiera con determinati personaggi che poi interagiscono in modo automatico con quelli dell’avversario. Quello che aveva più colpito il pubblico aveva però il nome in codice “Project A”, un progetto di cui allora si conoscevano appena un paio di immagini del gameplay e il genere. Project A sarebbe stato un cosiddetto first person shooter, che in italiano viene di solito tradotto con “sparatutto in prima persona”.
In realtà, però, la traduzione italiana era nata per riferirsi a giochi diversi, come i vecchi Doom, Quake, Half-Life, in cui bisogna spararare a qualsiasi avversario ci si muova davanti. Gli FPS, acronimo per first person shooter, sono invece un’evoluzione più intelligente dei semplici sparatutto in prima persona in cui non basta solo sparare ma in cui i colpi vanno calibrati, calcolati, mirati solo verso gli avversari e in particolare verso le loro teste per assicurarsi di eliminarli nel minor numero di colpi possibile. Titoli come Rainbow Six Siege, Counter-Strike, Apex Legends e Overwatch si sono sviluppati in questa direzione, aggiungendo, chi più chi meno, caratteri nuovi.
Da Project A a Valorant
Ma torniamo al nome. Project A, infatti, adesso si chiama Valorant. Nonostante per chiara assonanza derivi da Valoran - nome di una delle regioni di Runeterra, l’universo in cui è ambientato League of Legends - Valorant non avrà nulla da condividere con l’altro videogioco della Riot Games. L’ambientazione sarà invece una terra futura in cui si sfidano i vari personaggi, provenienti da diversi nazioni terrestri. Se su League of Legends avevamo i campioni, mentre su Overwatch e Rainbow Six Siege abbiamo rispettivamente Eroi e Operatori, su Valorant i personaggi si chiameranno Agenti, ognuno dotato di abilità specifiche.
Ogni Agente ha delle abilità peculiari che lo contraddistinguono in modo più o meno decisivo, proprio come Overwatch e Rainbow Six Siege, che in questo senso rappresentano due modelli diversi. Nel primo gli eroi vantano non solo abilità passive e attivabili ma anche una abilità potenziata che può essere utilizzata solo dopo aver inflitto un numero consistente di danni agli avversari. Nel secondo, invece, le abilità di ogni operatore sono definite meno dai danni che può infliggere agli avversari e più dall’utilità nel supportare la propria strategia, o quella dei propri alleati, o nello sfavorire quella degli avversari: potenziamento delle difese, barricate, filo spinato, droni d’osservazione, telecamere spia.
Valorant sembra propendere più verso questo secondo modello, almeno secondo quanto ha dichiarato la stessa Riot Games nella conferenza stampa a cui ho assistito in anteprima attraverso la voce di Alberto Delgado, Senior Brand Manager per la società statunitense: «Le abilità sono state pensate per accompagnare, e non soverchiare, l’azione». In altre parole: le abilità degli Agenti e il loro utilizzo coordinato tra i vari membri delle squadra saranno importanti ma non decisive per la vittoria finale.
Valorant sembra invece essersi ispirato a CS:GO per un’altra caratteristica, e cioè la differenza tra Difensori e Attaccanti. Entrambe le categorie devono piazzare la bomba in una zona ben precisa della mappa o evitare che ciò accada, oppure eliminare tutti i membri della squadra avversaria. Rispetto a CS:GO, però, i siti per l’esplosione della bomba sono tre, invece di due. Un aspetto non indifferente che amplia la variabilità delle strategie da utilizzare, sviluppato anche grazie alla collaborazione di diversi ex-pro player ed ex-sviluppatori di CS:GO, tra cui lo statunitense Salvatore “Volcano” Garozzo, designer della mappa Cache sul titolo Valve. L’obiettivo è proporre delle mappe che forzino i giocatori a utilizzare strategie e composizioni di agenti differenti per ognuna di esse. Un altro indizio che fa capire quanto l’obiettivo di Riot Games sia la creazione di un videogioco per i videogiocatori più esigenti.
Valorant è a metà strada tra Rainbow Six Siege e CS:GO anche per quanto riguarda il numero di round, che nel videogioco della Riot saranno 24 - 12 in più del primo e 6 in meno del secondo. Un numero che permette di trovare il giusto equilibrio tra le esigenze dei giocatori casual, più avvezzi a partite rapide, e quelli più competitivi che desiderano match più longevi. Immutato, invece, il numero di giocatori per squadra, cinque, come gli altri FPS attualmente esistenti, a parte Overwatch che ne prevede sei.
Da un punto di vista strategico, Valorant ha optato per un sistema misto, in cui le abilità dei singoli agenti vengono bilanciate da ciò che si può guadagnare round dopo round. Ogni agente avrà infatti un’abilità passiva e un’abilità suprema a propria disposizione e differenti da quelle degli altri, ma oltre a questo potrà comprare tra un round e l’altro altre abilità o armi accessibili in base a quanto l’agente e la propria squadra avranno guadagnato nel round precedente. È una dinamica non nuova, in realtà, essendo già presente su CS:GO, forse il titolo più vicino a Valorant in questo senso. Su Counter-Strike, ad esempio, eliminare gli avversari, piazzare la bomba o disinnescarla, colpire alla testa sono tutti elementi che incrementano il guadagno in valuta virtuale del singolo giocatore durante il match. E all’inizio di ogni round è possibile spendere l’intera cifra o una parte di essa per comprare le diverse tipologie di armi, il cui costo varia in base alla potenza, o anche granate, fumogeni e molotov. Più round consecutivi una squadra perde, maggiore sarà la cifra che potrà spendere. Non è chiaro se su Valorant l’economia funzionerà allo stesso identico modo, non avendo Riot Games rivelato nulla in merito, ma da più parti arrivano voci che sembrano poter confermare tale ipotesi.

Il paragone con CS:GO, in realtà, non è casuale perché l’obiettivo principale di Riot, nemmeno così implicito, è proprio quello di fargli concorrenza. Arrivato oggi alla versione Global Offensive, il titolo Valve è attualmente il massimo che il genere possa offrire. Nella sua semplicità è l’essenza del gaming competitivo: non per nulla è il titolo esports più longevo insieme a Starcraft II e dopo vent’anni di vita è ancora uno dei videogiochi più seguiti e più giocati con l’incredibile picco record di 924,045 giocatori contemporanei, il massimo che CS:GO abbia mai ottenuto nella sua storia, raggiunto l’1 marzo 2020.
La massima fruibilità per lo spettatore e la semplicità degli obiettivi di gioco per player e spettatori rappresentano per Counter-Strike il segreto del successo come esports ma nascondono al tempo stesso quanto sia difficile competere ai massimi livelli. Il titolo Valve possiede una delle curve di apprendimento più ripide tra i titoli esports: è necessario un grosso ammontare di ore di gioco per imparare anche solo le basi, spingendo molti giovani wanna-be-proplayer a optare per videogiochi più immediati dove la distanza temporale tra l’approccio sul gioco e i primi successi non sia eccessiva. Un aspetto che ha sfavorito il ricambio generazionale dei giocatori di CS:GO, con un’età media più alta e l’incapacità di attirare la massa di giovanissimi che preferiscono tentare la fortuna su Fortnite o su Rainbow Six Siege o, considerando le console, anche su Call of Duty.

I tre pilastri fondanti di Valorant
Nonostante i tanti pregi ci sono difetti e problematiche che Counter-Strike non è ancora riuscita a risolvere. E che invece Valorant ha annunciato come pilastri fondanti del proprio gioco, rendendolo di fatto la terra promessa degli amanti degli FPS. Il primo riguarda la lotta ai cheaters, ovvero coloro che barano all’interno del gioco attraverso l’utilizzo di programmi esterni che permettono di sparare automaticamente alla testa degli avversari, vedere oltre i muri e le strutture, rendersi invincibili, curarsi e via discorrendo. Barare non sarà impossibile, ovviamente, ma il sistema anti-cheat appositamente sviluppato da Riot Games negli ultimi anni, chiamato Vanguard, promette di essere talmente preciso e immediato che ogni tentativo dovrebbe nelle migliori delle ipotesi essere scoperto istantaneamente con la conseguente sospensione del giocatore incriminato e l’annullamento del match in corso.
Se questo tipo di previsioni dovesse essere confermato Valorant acquisterebbe in breve tempo grande autorità all’interno del mondo del gaming: si avrebbe infatti la garanzia che i giocatori che scaleranno le classifiche lo abbiano fatto con merito e solo ed esclusivamente grazie alla loro abilità. Un aspetto che su CS:GO rappresenta invece una piaga ancora insoluta, nonostante i periodici ban di massa.
In particolare Riot Games ha studiato come evitare in modo intelligente i wallhack, ovvero i trucchi per poter “vedere” attraverso i muri dove si trovano gli avversari, conferendo un vantaggio enorme sulla visione e sulle strategie. In modo molto simile a quanto succede su League of Legends, su ogni mappa sarà presente quella che è comunemente chiamata fog of war, letteralmente nebbia di guerra. Quella che, per chi è abitué del classico Age of Empires II, impediva alle unità di vedere e di essere visto oltre una certa distanza. Un escamotage che, introdotto in un FPS, permette di poter vedere realmente un avversario solo ed esclusivamente nel momento del contatto visivo. Eliminando in questo modo anche un fastidioso aspetto di Counter-Strike: la possibilità in determinate e specifiche situazioni di vedere parte del corpo di un avversario quando si trova rasente a un muro o vicino a un’apertura senza che in realtà sia possibile osservarlo.

Il secondo aspetto fondante è invece legato alle linee internet, altra grande piaga degli FPS. Tutti i videogiochi online necessitano di una connessione il più possibile vicina alla perfezione nell’invio e ricezione di pacchetti tra il proprio PC e i server di gioco. Per gli shooter è un’esigenza ancora più urgente, essendo un genere in cui anche un millisecondo o un singolo pixel possono fare la differenza tra eliminare un avversario ed essere eliminati. Riot Games ha lavorato alacremente negli anni con diverse aziende a un progetto denominato Riot Direct: una rete globale che sarà interamente dedicata ai giocatori di Valorant, presente in 35 città in tutto il mondo, che ha come obiettivo consegnare al 70% dei giocatori un ping, ovvero il tempo di risposta tra modem e server, inferiore a 35 millisecondi. Un risultato probabilmente impossibile fino a qualche anno fa sotto il profilo strutturale e che potrebbe spiegare come mai solo oggi Riot abbia deciso di lanciarsi anche nel mondo degli shooter, aspettando di avere le tecnologie per proporre un videogioco online realmente competitivo.
Valorant promette anche di garantire 128 tickrate a tutti gli utenti: i server, in caso di problemi di connessione, portano automaticamente tutti i movimenti dei giocatori a 128 fps, ovvero a 128 frame al secondo, eliminando del tutto le problematiche legate a scatti, interruzioni o immobilizzazioni dei personaggi. È un aspetto che combatte anche il cosiddetto “vantaggio dell’attaccante”, spesso riscontrato negli FPS, per cui un giocatore in attacco riesce a scorgere, e di conseguenza colpire, un difensore prima che riesca a farlo quest’ultimo, diventando impossibilitato a reagire in tempistiche ottimali.
Il terzo e fondamentale pilastro su cui si reggono gli FPS è l’importanza dei gunfight, ovvero gli scontri a fuoco. In particolare quanto incide l’abilità nel mirare e nello sparare, sia da fermi che in movimento. Un aspetto che su alcuni titoli è sottodimensionato, preferendo piuttosto dare priorità alla costruzione di strutture o all’utilizzo simultaneo e coordinato delle abilità potenziate.
In questo senso, ogni arma su Valorant avrà una propria curva di apprendimento, basata sull’utilizzo necessario o meno per la strategia adottata in partita. Ma anche su aspetti più tecnici: come il rinculo o la velocità di ricarica. Grande importanza, quindi, alla mira: «Un giocatore con una buona mira riuscirà sempre a battere un tiratore impreciso, anche se la sua potenza di fuoco è inferiore», ha dichiarato ancora Alberto Delgado di Riot Games nell’incontro di anteprima con la stampa. L’idea progettuale che contraddistingue Valorant è di proporre scontri a fuoco rapidi, della durata anche di pochi secondi, in cui i colpi alla testa sono quasi sempre fatali e la maggior parte delle armi elimina gli avversari con appena tre, quattro colpi ben assestati.

Insomma, Valorant sembra avere le carte in regola per fare concorrenza in maniera sostanziale a CS:GO, la cui supremazia nel genere potrebbe essere messa a rischio. In realtà, però, non sarà così semplice. La comunità di videogiocatori del titolo Valve è infatti tra le più affezionate, in particolare coloro che hanno speso tante ore di gioco, spesso migliaia, per migliorare. Probabilmente solo una ristretta porzione di giocatori avrà interesse a migrare verso un nuovo titolo, peraltro simile. In questi termini la relazione tra CS:GO e Valorant sarà più improntata alla coesistenza: i due titoli si affiancheranno con i giocatori del primo che daranno indubbiamente una chance a Riot Games ma senza, nella maggior parte dei casi, abbandonare mai del tutto Counter-Strike. Proprio perché sono due giochi con meccaniche simili che richiedono abilità di pari livello. Motivo per cui, seppur Valorant non sia ancora uscito, molti giocatori professionisti hanno cominciato, e in alcuni casi ricominciato, a giocare su Counter-Strike per allenarsi e farsi trovare pronti per l’estate 2020, periodo in cui Valorant sarà ufficialmente disponibile per tutti.
A rischiare di più, quindi, sembrano i titoli che non hanno ancora raggiunto l’olimpo del gaming competitivo nel genere degli FPS. I delusi di Fortnite, Overwatch, Apex Legends e Rainbow Six Siege avranno l’occasione di partire da zero come tutti su un nuovo gioco in cui conta quasi esclusivamente la tecnica, ovvero la prontezza di riflessi unita al saper mirare e sparare con mouse e tastiera.