Pubblichiamo un estratto da "De arte gymnastica. Da Maratona ad Atene con le ali ai piedi" scritto da Andrea Marcolongo e uscito per Editori Laterza.
“Per coloro che si accingono a compiere una grande impresa, è già di grande aiuto, io credo, non rifiutargli un briciolo di fiducia”, scrive a un certo punto Filostrato in un breve capitolo dove affronta quello che, da sempre, pare essere l’unico requisito per correre: la motivazione. E possibilmente qualcuno intorno disposto a crederci.
Non i muscoli, non il fiato, non la falcata né un paio di ginocchia resistenti: in ogni manuale di running a partire dal primo della storia, sta scritto a chiare lettere che tutto ciò che serve per arrivare in fondo a una competizione, o anche a un più banale allenamento – corsetta della domenica compresa –, è una buona ragione. Un motivo per correre così solido da compensare la fatica, la frustrazione, le suppliche dei polpacci che non chiedono altro che smettere – oltre a quel sottile ma perverso senso del ridicolo che sempre, da qualche parte, punge il corridore non agonista costringendolo a chiedersi, almeno una volta in ogni sessione: chi me lo fa fare?
Un obiettivo tanto indelebile che non rischia di essere lavato via dal primo sudore che cola sulla fronte né dalle mille alternative più confortevoli che il menù della vita offre rispetto alla corsa – impegno che, per i comuni mortali, si colloca nell’agenda quotidiana al mattino, nemmeno il tempo di uscire dal letto, o la sera, poco prima d’infilarcisi; nel mezzo, una sfiancante giornata di lavoro e famiglia. In sintesi, per correre, e per continuare a farlo, serve una motivazione più ferrea di qualunque tendine teso, una volontà incrollabile di darsi senza riserve e senza misure, fino alla fine – proprio come quella che spinse il primo maratoneta della storia a correre fino allo stremo e oltre.
Bisogna riconoscere – non senza sgomento – che le motivazioni che obbligavano gli Antichi ad allenarsi erano ben più convincenti e persuasive delle notifiche delle app di corsa che ogni runner utilizza (a ognuno la sua, secondo i gusti), o dei messaggi degli amici (se mai si sceglie di condividere con altri il fardello della routine obbligatoria per preparare una maratona), o delle minacce dei diversi, ma tutti un po’ alienanti, smartwatch (che iniziano ad allarmarsi allo scoccare delle ore 18 non sono stati ancora coperti i canonici 10.000 passi quotidiani).
I Greci furono schietti e sintetici – e pure assai crudeli – nel canonizzare la migliore delle motivazioni per mettersi a correre e non smettere più: vita o morte.
Già presso gli Egizi esisteva una legge secondo la quale colui che, in una gara, sarebbe arrivato secondo dopo essere già stato proclamato vincitore la volta precedente, meritava la pena di morte.
Una pressione letteralmente letale gravava dunque sugli atleti in Egitto – forse l’unico caso nella storia in cui valeva la pena di rallegrarsi, e tirare il fiato, di arrivare sempre ultimi. L’atleta aveva comunque la possibilità di offrire come garanzia la vita di altri, forse per correre con lo spirito un poco più leggero – ma i volontari, evidentemente, scarseggiavano. Si narra però che nel caso di Attalo l’Egizio, coronato una prima volta vincitore, fu il suo allenatore a offrire la vita in pegno in occasione di una nuova gara: questo gesto d’incondizionata fiducia, anche a rischio della morte, motivò l’atleta e lo aiutò a ottenere una seconda vittoria ancora più eclatante.
Ma l’antica motivazione nello sport era tanto incrollabile che una volta, in Grecia, le Olimpiadi furono vinte addirittura da un morto.
Nel corso di una finale di pancrazio – parola che, alla lettera, significa “tutta forza”, da πᾶν (pān), “tutto”, e κράτος (krátos), “forza”, e che univa il pugilato alla lotta, rigorosamente da praticarsi nella polvere nel momento più caldo della giornata – Aristione, che aveva già vinto due volte, sentì le forze venirgli meno. Allora il suo allenatore suscitò in lui “l’amore della morte”, come scrive Filostrato – in greco ἔρωτα θάνατου (érota tánatu) – pronunciando la frase: “È un bel sudario non aver mollato a Olimpia!”.
Secondo le fonti, Aristione sarebbe morto strangolato mentre, allo stesso tempo, costringeva l’avversario a rinunciare alla lotta bloccandogli i piedi. Comunque sia andata, l’alloro della vittoria arrivò a cingere la sua testa quando era ormai un cadavere – una statua nel mercato di Figalia, sua cittadina natale, ne avrebbe ricordato ai posteri l’impresa.
Filostrato narra poi altre due storie esemplari in cui la motivazione per continuare a dare il massimo nella pratica sportiva fu attinta non più dal dominio della morte ma da quello della vita, anzi dell’amore – che in fondo sono la stessa cosa.
Si narra che tal Mandrogene di Magnesia, orfano di padre, non perse nemmeno per un istante la determinazione a vincere quando il suo allenatore scrisse le seguenti parole in una lettera indirizzata a sua madre: “Se vi diranno che vostro figlio è morto, credeteci; ma se vi diranno che è stato sconfitto, non credeteci mai”.
Più romantica è infine la storia di Promaco di Pella, un lottatore coronato per ben tre volte ai giochi istmici, due alle Nemee e una alle Olimpiadi, noto per le sue mani crudeli – pare avesse ucciso molti avversari durante le competizioni di pugilato – e il suo cuore gentile. Un giorno il suo allenatore si accorse che era innamorato perché durante gli allenamenti non faceva altro che sospirare e arrossire. Decise dunque di risolvere la faccenda dicendo al ragazzo che la sua amante sarebbe stata lieta di concedergli un appuntamento solo se prima avesse vinto le Olimpiadi, e questi prontamente lo fece – non limitandosi ad arrivare primo, ma sconfiggendo un avversario noto per essere in grado, tra l’altro, di domare i leoni a mani nude.
Negli anni ho chiesto a tutti i corridori che conosco, dai più tenaci ai meno disciplinati, perché davvero si corre ma nessuno è riuscito a darmi una risposta precisa – tutti adducono un generico “benessere”, certo, fisico o mentale che sia, ma la motivazione della corsa non può essere circoscritta a questo effimero pugno di endorfine, poiché sono moltissime, oltre al running, le attività umane che spingono il nostro cervello a secernere questi neurotrasmettitori del buonumore e dell’appagamento: non è obbligatorio correre come dei disperati per sentirsi un poco felici.
Da quando ho preso la decisione di scrivere questo libro, anzi di viverlo – poiché una parte dell’attività di scrivere è indissolubilmente legata a quella di correre per prepararmi alla maratona – non faccio che osservare ogni runner che incrocio lungo la Senna chiedendomi: cosa ci spinge? Quale motivazione profonda ci sostiene, ci guida – in qualche modo ci obbliga a correre, come se da quest’urgenza fossimo stati fatti a un certo punto schiavi e allora eccoci intenti a falciare piste ciclabili e marciapiedi alle 10 di sera, quando gli altri sono seduti beati al ristorante, o alle 6 del mattino, quando la città ancora riposa? Poi un giorno di gennaio ho fatto un passo avanti nel mio sforzo di tentare d’intuire perché, da duemilacinquecento anni e più, l’essere umano soffre di una specie di febbre che lo costringe a correre.
Mi trovavo in spiaggia, in uno di quegli inverni orgogliosi e poetici come sanno esserlo di fronte alle maree della Bretagna. Il litorale era deserto, il tipico struggimento del mare d’inverno; c’eravamo solo io, il mio compagno, una signora in là con gli anni insieme a due bambini, che ho immaginato essere i suoi nipoti, e un cane. Quando uno dei due ragazzini biondi, impegnato in chissà quale caccia di conchiglie, ha udito la nonna chiamarlo, ha alzato lo sguardo, ha sorriso e si è messo a correre verso di lei, il cagnetto fedele incollato alle caviglie.
Allora ho compreso: naturalmente, cioè fuori da ogni pretesa di allenamento, corriamo quando siamo felici.
Così da sempre fanno i bambini, impossibili da costringere all’immobilità di una sedia se sono lasciati liberi di giocare e di vivere la stagione allegra dell’infanzia. Una volta adulti, ci mettiamo naturalmente a correre senza vergognarci della nostra goffaggine quando tra la folla scorgiamo qualcuno di caro, che sia all’aeroporto o ad un appuntamento, che ci richiama al miracolo di esistere – e allora gli corriamo letteralmente incontro.
Il contrario di questo slancio verso l’altro, e ancora più naturale, è la fuga. Se si corre per raggiungere qualcuno, si corre ancora più velocemente per scappargli.
Proprio per quest’unica motivazione dev’essere avvenuta la prima corsa dell’essere umano, il giorno zero della bomba atomica evolutiva che ci ha costretti ad abitare questo pianeta. Forse le gambe, in una sintesi estrema, solo a questo servono, a fuggire da un ipotetico pericolo al primo segnale d’allarme; di certo per questa funzione, captare i pericoli e trasmettere l’impulso di fuga ai muscoli, è programmato il nostro cervello che, nonostante tutte le lauree e i progressi contemporanei, è ancora identico, in termini di paure e di bisogni primari, a quello del tremante Homo Sapiens.
È sempre per questa ragione che il corridore più celebre della storia del cinema, l’ingenuo, struggente Forrest Gump, inizia da bambino la falcata che lo porterà ad attraversare un giorno l’America, quando la compagna Jenny lo incita a fuggire dai bulli che lo perseguitano con la frase ormai diventata proverbiale: “Corri, Forrest, corri!”.
Naturalmente, cioè senza fini sportivi di sorta, l’essere umano corre per due ragioni speculari: perché è felice o perché è impaurito. Per raggiungere l’altro o per fuggirlo. Tutto il resto, ogni forma di accanimento agonistico, non è che un tentativo di fare pace con uno di questi due impulsi, felicità o paura. O entrambi.
Inseguire, fuggire. Mi sembra dunque che sia questo il nocciolo della motivazione che ogni giorno spinge miliardi di uomini e donne a correre senza una necessità apparente.
Da tempo, per le nostre strade non si aggirano più predatori naturali (sempre ammesso che l’essere umano ne abbia mai avuto uno imposto dalle leggi di natura, il dibattito è ancora in corso). Eppure quell’impressione di fuga, prima, e di conquista poi che ogni corridore prova dopo una corsa è rimasta inalterata da millenni – e lo stato d’animo di quiete apparente dopo aver macinato qualche chilometro è sempre l’immutato trofeo.
Ricordo una frase, ascoltata per caso in uno dei tanti podcast dedicati alla corsa che mi sono messa ad ascoltare per addomesticare la noia della ripetizione degli allenamenti, e che suonava più o meno così: “Non esiste runner che, dopo una corsa, rientri a casa sentendosi peggio di quando è uscito”.
In effetti, è proprio questo il punto che ogni corridore al mondo ammette con sconcertante chiarezza: si esce a correre per scappare, più o meno consciamente, dal carico quotidiano di stress, di fatica, di frustrazioni, di aspettative e di pressioni. E, dopo una corsa – lunga o breve che sia, al top oppure sottotono, non importa –, è una versione se non migliore almeno sgravata di sé a tornare a casa e infilarsi sotto la doccia.
Una versione che, se non sempre alleggerita, è perlomeno un po’ più compassionevole – e, in quella lotta atavica per l’equilibrio tra felicità e paura, è già molto, se non la chiave di tutto.