Al ritorno dal servizio di guerra nell’Armata Rossa, Nikolai Bernstein venne selezionato dall’Istituto Centrale del Lavoro per partecipare a un progetto di ricerca sulla produttività. Bernstein era figlio di un rinomato medico moscovita e fu proiettato a sua volta nel mondo della medicina e della neurofisiologia dall’incombere della Guerra, cui partecipò come medico per l’esercito sovietico. Nonostante partisse da una base di studio filosofico, divenne una figura di riferimento nel mondo accademico russo formandosi da autodidatta nel campo del controllo motorio, forse proprio grazie al suo approccio differente alla materia.
I suoi studi arrivarono alla comunità scientifica occidentale solo una decina di anni dopo, ma il suo approccio unico stravolse il modo in cui studiamo il movimento. Uno dei suoi primi lavori di ricerca nell’Istituto, e probabilmente il più rilevante nella costruzione del suo pensiero, riguardava l’operazione di taglio della lamiera che i fabbri eseguivano con un martello e uno scalpello. Bernstein si domandò perché alcuni sembravano colpire con precisione esattamente lo stesso punto dello scalpello, tagliando il metallo in maniera più precisa e rapida, mentre altri erano più discontinui o irregolari. All’epoca la risposta era di tipo quantitativo: i fabbri più anziani avevano avuto più tempo per studiare e affinare la tecnica corretta, mentre i nuovi non l’avevano ancora interiorizzata. Per migliorare il lavoro bisognava estrarre il pattern di movimento più efficace e insegnare tutti lavoratori a eseguirlo. Bernstein pensò invece di approfondire la questione partendo dalla misurazione dell’oggetto della ricerca, e che bisognasse farlo in una situazione pratica, non in laboratorio. Lo strumento di cui si avvalse fu la tecnica della ciclografia (poi trasformata in ciclogrammetria), che consisteva nell’includere in un singolo fotogramma un movimento che avveniva durante una sequenza di frame. Per evidenziare i movimenti del corpo dei fabbri mentre battevano il ferro, vennero collegate delle piccole lampadine in alcuni punti ritenuti chiave per il movimento indagato, ottenendo risultati del genere:
Fu così possibile rappresentare e ricostruire il movimento del martello e di alcune parti del corpo, e attraverso una serie di complicati calcoli e analisi sulle curve e sulle forze che si concretizzavano, Bernstein constatò che i fabbri meno esperti erano molto variabili sia nel movimento che nel risultato: tanti movimenti diversi portavano a esiti non omogenei. Ciò che fece saltare il banco fu però lo studio dei fabbri più esperti (seconda foto sopra): anche loro avevano un’alta variabilità di movimento, pur mantenendo una straordinaria precisione finale. Questa scoperta fu la pietra angolare su cui si poggiò la formulazione del principio di Bernstein: l’essere umano non ripete mai lo stesso identico movimento due volte, può ripetere un risultato in base al suo livello di abilità, ma non il percorso per raggiungerlo. Ripetizione (del risultato) senza ripetizione (del processo).
Tutto ciò che è arrivato in questo filone scientifico durante il secolo successivo non ha fatto altro che rendere obsoleto il concetto di tecnica ideale per un qualsiasi movimento: non è possibile, cioè, identificare un pattern che vada bene per tutti e in ogni circostanza, anche se il gesto da ripetere può sembrare, a livello macroscopico, lo stesso per tutti. In realtà a essere comune è l’obiettivo del gesto e non il gesto in sé, e quello che ci rende più abili non è la riduzione delle variabilità, ma anzi l’aumento delle possibili combinazioni coordinative che riusciamo a esprimere arrivando velocemente allo stesso risultato, così come i fabbri esperti di Bernstein, che colpivano con grande precisione sullo stesso punto arrivando da percorsi motori di volta in volta differenti.
Non ho potuto fare a meno di pensare alla storia e agli studi di Bernstein quando su Twitter mi è capitato un video postato dall’utente @PassLikeThiago, contenente una serie di giocate di Thiago Alcantara che riceve il pallone e scappa sistematicamente da uno, due, tre avversari in circostanze differenti, usando quella che da qualche anno viene definita la Thiago Turn, un movimento a eludere la pressione e muoversi nello spazio talmente caratteristico del centrocampista del Liverpool da essere diventato, appunto, un marchio.
In questi due minuti e venti secondi ci sono cinquantatré azioni differenti. Non è importante nell’arco di quante partite o stagioni queste giocate siano state collezionate e, anzi, è probabile che, data l’influenza di Thiago nel possesso di tutte le squadre per cui ha giocato, sia possibile montare una versione anche tre o quattro volte più estesa. Ciò che è davvero interessante è l’ampia variabilità del contesto: vediamo Thiago ricevere palla nei contesti più diversi - nella sua metà campo o in quella degli altri, a ridosso della sua trequarti o davanti all’area avversaria, con distanze mutevoli tra sé, avversari, compagni, passaggi di velocità e angoli differenti, posture più chiuse o aperte, pause leggermente più lunghe dopo aver fermato il pallone con la suola, o controlli immediati di prima a seguire, ora con l’interno dopo aver fintato l’esterno, ora con l’esterno dopo aver fintato l’interno – eppure il risultato è sempre lo stesso.
Dopo aver visto questo video si potrebbe pensare a Thiago come una specie di entità superiore, capace di piegare ogni circostanza alla sua volontà, di manipolare ogni azione a suo piacimento, spingendo in maniera quasi magica gli avversari a cadere nel suo movimento per creare vantaggi alla sua squadra. A me, però, piace più pensare a Thiago come a un artista dell’adattamento attivo alla circostanza, un mostro di percezione di ciò che gli sta intorno. Il centrocampista del Liverpool sembra captare a una velocità irreale ogni microscopio cambiamento di contesto e, di conseguenza, è in grado di raggiungere il suo scopo (in questo caso eludere la pressione) con una frequenza impressionante.
La manipolazione dell’avversario attraverso quei movimenti-esca che mascherano l’intenzionalità direzionale non è tanto una dimostrazione di autorità tecnica cieca rispetto al contesto, quanto un’esplosione di potere percettivo-dinamico; nello specifico, di percezione delle affordances (possibilità, inviti all’azione, secondo la definizione di James Gibson) di gioco che possono aprirsi e chiudersi in attimi, centimetri, effimere sfumature spazio-temporali. Queste affordances sono tanto connotate nell’ambiente quanto legate alle peculiarità dell’individuo che le percepisce secondo l’obiettivo che ha bisogno di raggiungere attraverso un gesto motorio, un rapporto trivalente pressoché impossibile da quantificare e codificare, che si basa sull’imprevedibilità dell’auto organizzazione del singolo, in questo caso di Thiago Alcantara e del suo gigantesco bagaglio di esperienza nella gestione delle pressioni dalle giovanili del Barcellona a oggi. Non si tratta però fisicamente di un contenitore da cui pescare, di volta in volta, la combinazione motoria ideale per la specifica situazione, no: sarebbe un processo forse troppo complicato per la nostra natura, e probabilmente non efficiente.
È piuttosto l’esperienza all’adattamento che ha reso Thiago efficace negli anni, portandolo a raggiungere il suo scopo con una continuità e una varietà di soluzioni impressionante anche all’interno di un gesto che potrebbe apparire a uno sguardo superficiale “sempre uguale”. Così come il fabbro esperto di Bernstein colpiva il suo scalpello con un’alta variabilità coordinativa anche all’interno di traiettorie macroscopicamente simili, Thiago sguscia via dal pressing non solo incanalando l’alta variabilità dei gradi di libertà del suo corpo, ma governando contemporaneamente anche tutti i restanti componenti della scena, avversari, pallone, traiettorie, posizione, e così via.
Il torto più grande che si potrebbe fare a una tale espressione di creatività sarebbe volerla standardizzare, estrapolare e innestare altrove. L’efficacia coordinativa non è una componente da trapiantare attraverso dei movimenti ideali da ricostruire, ma il risultato emergente di processi irregolari di adattamento personali e unici: la funzionalità non è solo nella specificità del contesto, ma anche nell’individuo stesso. Andando contro questo principio si rischia di ritardare, o peggio, cancellare le possibilità che nascano gesti peculiari e adattamenti dinamici come quelli di Thiago Alcantara.
Per fare un esempio concreto: mi è capitato di vivere in prima persona, e poi di assistere da spettatore, a qualche allenamento di giovani calciatori in cui si voleva lavorare sulla cosiddetta tecnica individuale, nello specifico sulla ricezione orientata. Di solito, in questi casi, si vede l’allenatore insistere in maniera molto forte su concetti come la ricezione col piede più lontano, l’orientamento preventivo verso lo spazio che si vuole attaccare successivamente, la giocata a muro se si ha l’uomo alle spalle (rigorosamente chiamato dai compagni, magari) e così via. Indicazioni che nella specificità di alcune situazioni hanno un senso, ma che se rese schematiche, prescrittive, rischiano di spogliare dell’interpretazione soggettiva il gioco (e inibire lo sviluppo creativo) dal momento in cui si standardizzano e si privilegia il “come” sul “cosa” e il “perché”. Un percorso che diviene oltremodo meccanico se poi dentro il “come” si tenta di ricostruire dei pattern coordinativi predefiniti, portando il giocatore a porre molta più attenzione sul grado di inclinazione della sua spalla o di rotazione della sua caviglia anziché concentrarsi sull’obiettivo.
Nel video di cui stiamo parlando ci sono alcune situazioni in cui Thiago riceve in condizioni potenzialmente non ottimali, con una postura “troppo chiusa”, distogliendo lo sguardo nel momento “sbagliato”, controllando verso la direzione “sbagliata”. Nell’azione qui sopra (minuto 1:19) per esempio, la palla gli rimane sotto e Thiago la fa sbattere sul piede d’appoggio. Se volessimo attenerci agli insegnamenti base, potremmo definirlo un controllo errato per postura ed esecuzione, ma a vedere lo sviluppo è proprio quel tipo di postura a fungere da esca verso l’avversario, che anziché proiettarsi verso la direzione che avrebbe preso Thiago con il “giusto” controllo orientato rimane in una posizione più neutra per una frazione di secondo di più, aprendo una brevissima finestra per Thiago, che si adatta immediatamente, finta e via. In questo specifico caso, Thiago non è riuscito a eseguire al primo tentativo la sua giocata e poi è stato bravo, e fortunato, nel processo inconscio di riadattamento. Ma in generale sono tante le sue ricezioni a postura chiusa, il suo giocare con i tempi di scarico, le danze solo apparentemente controintuitive in zone intasate; è il suo modo di proporsi al compagno che spesso “chiama” una traiettoria di passaggio più addosso che nello spazio, anche quando potrebbe non essercene motivo. Thiago è come un magnete che prima attrae, ma poi cambia all’improvviso il suo polo, respingendo gli avversari con il minimo della forza che basta per tenerli distanti e muoversi altrove. Questo processo ha ben poco di schematico.
Abbiamo bisogno della variabilità per far emergere la creatività, per essere efficaci con continuità trovando soluzioni anche non convenzionali quando è necessario. Un giocatore come Thiago può essere largamente riconosciuto come “forte tecnicamente”, ma è davvero una definizione precisa, per lui e per gli altri? Thiago non è forte perché riproduce degli ipotetici pattern motori, dei gesti tecnici standard, Thiago è forte nella sua abilità a trovare delle soluzioni con frequenza ed efficacia, adattandosi all’imprevedibilità degli eventi con una moltitudine di variazioni, che ci sono anche quando sono impercettibili. Gli esseri umani sono fatti per produrre e rilevare le variabilità. Il tributo più grande che possiamo fare al talento è riconoscerne la naturalezza non tanto nell’ipotetica predisposizione genetica, quanto nel processo di adattamento che lo fa fiorire, che produce una forma di auto determinazione che fugge dalle rigide imposizioni dall’alto e trae la sua linfa dalla raccolta delle informazioni presenti nell’ambiente circostante.
Non abbiamo bisogno, da spettatori, tifosi, allenatori o dirigenti, di vedere più giocatori eseguire (verbo orrendo) la Thiago Turn: avremmo bisogno, piuttosto, che sempre più giocatori possano creare il loro marchio, il loro stile di efficacia. Periodicamente arriverà sempre qualcuno a stupirci, a cambiare le regole del gioco con un’intuizione non convenzionale, a imprimere il suo nome su un gesto.
È questa forse la vera ricchezza, la strada perché il talento non smetta di prosperare. Quanta naturalezza e poesia ci sono in un ragazzino o una ragazzina che guardano con incanto questo video di Thiago sullo smartphone e poi si precipitano in strada o in campo provando in maniera imperfetta l’emulazione, magari senza riuscirci, ma esplorando e trovando magari il loro personalissimo modo di risolvere il problema di muoversi nello spazio e relazionarsi con pallone e compagni per eludere la pressione avversaria? Ispirazione ed esplorazione, forse, sono le vere basi di partenza necessarie per fomentare la creatività senza superflue sovrastrutture formalistiche. Thiago può aver creato un nuovo modello estetico, ma l’estetica, il bello, nel calcio ci sembrano emozionanti perché producono un effetto tangibile su uno sfondo intangibile, non perché ci arrivano da una fredda riproduzione coreografica di movimenti.