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Cosa c’è dietro le parole di James Harden su Daryl Morey
16 ago 2023
La frase pronunciata in Cina è solo l’ultimo atto di una lunga storia.
(articolo)
12 min
(copertina)
IMAGO / VCG
(copertina) IMAGO / VCG
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James Harden non è mai stato particolarmente bravo con le parole. Basta e avanza la sua immagine, con la barba folta che ormai da oltre un decennio lo ha reso un’icona capace di trascendere i confini della NBA, rendendosi riconoscibile anche per chi non sa nulla di pallacanestro. Ma le parole, almeno per lui, sono un’altra cosa: quando deve parlare in pubblico solitamente è impacciato, non riesce ad articolare pensieri profondi, non è capace di esercitare quel tipo di carisma che la sua immagine invece dovrebbe consentirgli di fare.

È evidentemente a disagio anche al termine di un evento che sta tenendo con il suo brand in Cina. Ci sono diverse decine di persone attorno a lui e svariate telecamere, in mezzo a una metà campo improvvisata con un canestro, uno sfondo a led con il suo volto e il logo del suo brand a tappezzare l’area ai suoi piedi. Ha un microfono alla guancia incastrato nella barba e sembra aver ormai finito il suo discorso, o qualsiasi cosa sia stato chiamato a dire per l’evento promozionale di cui è evidentemente protagonista, eppure è a disagio e lo dimostra muovendosi avanti e indietro, spostando il peso da un piede all’altro, tradendo un’evidente ansia. Poi rivela il motivo della sua apprensione nell’unico spezzone che ci è dato di vedere, presentato così come se fosse uno di quegli account Out Of Context: «Daryl Morey è un bugiardo e non farò mai parte di un’organizzazione in cui c’è anche lui» dice in maniera quasi robotica. Poi lo ripete un’altra volta, come un attore che prova a ripetere la battuta perché non gli è piaciuta come è venuta la prima volta: «Lasciate che lo ripeta: Daryl Morey è un bugiardo e non farò mai parte di un’organizzazione in cui c’è anche lui».

Poi muove le mani come a dire “Ho finito”, tipo Vince Carter nel 2000 a Oakland, e dal pubblico si alza un applauso che si spegne in pochi secondi. Harden continua a essere evidentemente a disagio, si muove avanti e indietro guardandosi in giro e cercando rassicurazioni, cercando di capire se ha finito con il suo impegno (“We good?” chiede con un mezzo sorriso) mentre intanto continuano a scattargli foto. Sa di aver detto qualcosa di forte che sicuramente farà parlare quando arriverà in America: era il suo obiettivo fin dall’inizio, specie a pochi giorni dalla notizia che i Sixers avevano interrotto tutte le trattative per cederlo, avviandosi quindi a ricominciare la stagione con lui come point guard titolare.

Tutto sommato, una scena che non si era mai vista pur nel variegato mondo delle “trade request” della NBA, di cui Harden è cintura nera.

Come interpretare le parole di Harden in Cina

Ci sono vari livelli di lettura che rendono le parole di Harden particolarmente interessanti. Il primo riguarda il fatto di aver detto quelle parole su Morey proprio in Cina, dove il capo della dirigenza dei Philadelphia 76ers è un nemico pubblico tale da aver mandato in crisi i rapporti commerciali strettissimi che la NBA aveva creato per decenni con il principale Paese del mercato asiatico, con quel famigerato tweet di ormai quattro anni fa a favore di Hong Kong che Adam Silver, se avesse tre desideri da chiedere al genio della lampada, vorrebbe non fosse mai esistito. Se Harden avesse detto le stesse parole a un giornalista statunitense o sui suoi social, non avrebbe avuto lo stesso effetto rispetto a dirlo in un tour promozionale proprio a quel pubblico in Cina, dove peraltro era sicuro di non avere contraddittorio.

Il secondo livello di lettura è lo stato a cui è arrivato il suo rapporto con i Philadelphia 76ers in generale e il punto a cui è la sua cessione. Che Harden voglia andarsene non è più un mistero da mesi ormai, forse addirittura dallo scorso Natale quando Adrian Wojnarowski per primo inaugurò la giornata del Christmas Day in diretta nazionale riportando l’interesse di Harden a tornare a Houston a fine stagione. Già lì si poteva intuire che qualcosa tra il Barba e i Sixers si fosse rotto: il matrimonio di convenienza che era stato ratificato l’estate precedente — con Harden che aveva accettato di rinunciare a 15 milioni di dollari per permettere alla squadra di firmare PJ Tucker e Danuel House e puntare a vincere subito — aveva già le prime crepe. Il modo rocambolesco con cui si sono conclusi i playoff non ha fatto altro che peggiorarle: Harden ha alternato (poche) partite fenomenali a (molte) disastrose durante la post-season, in particolare le ultime contro Boston sprecando un vantaggio di 3-2 nella serie, soprattutto in una gara-7 in cui è stato senza mezzi termini dannoso.

Neanche l’allontanamento di Doc Rivers, con cui Harden pare non andasse esattamente d’accordo, ha cambiato una situazione ormai evidentemente irrecuperabile. Ma mentre tutti si aspettavano che Harden uscisse dal suo contratto con i Sixers per diventare free agent e trovarsi una nuova destinazione — o quantomeno mettere pressione a Philadelphia per rifirmarlo, non avendo un modo di sostituirlo sul mercato —, Harden ha deciso a sorpresa di “rimanere” nel suo contratto, esercitando la player option da 35.6 milioni prevista dal suo accordo. Quello è stato solo l’ultimo di una lunga serie di valutazioni sbagliate da parte di Harden sul suo valore di mercato e sui suoi contratti: già quando era a Brooklyn nell’estate del 2021 ha rifiutato di estendere il suo contratto nonostante l’offerta al massimo salariale messa sul tavolo dai Nets, forzando poi la mano per essere ceduto nel febbraio del 2022 proprio ai Sixers. Quindi Harden ha sbagliato clamorosamente la scelta per due estati in fila: nel 2022 ha accettato quell’accordo al ribasso per fare un favore alla squadra (su cui torniamo dopo), e quest’anno qualcuno deve averlo convinto che rimanere nel contratto fosse il modo più semplice per cambiare squadra, permettendo a squadre senza spazio salariale di scambiare per lui invece di firmarlo attraverso lo spazio salariale (che le contender notoriamente non hanno) o una sign-and-trade (che limita fortemente le possibilità di manovra delle squadre che acquisiscono un giocatore con quel meccanismo).

O forse, più semplicemente, Harden si era reso conto che presentandosi sul mercato dei free agent nessuno gli avrebbe offerto neanche lontanamente il massimo salariale che lui pensa di meritare dopo una regular season in cui è stato il miglior assitman della lega (10.7 assist a partita, nessun altro in doppia cifra in tutta la NBA) continuando a segnare 21 punti in media con il 53% effettivo e il 38.5% da tre punti, cifre tutto sommato ancora da All-Star (pur mancando la convocazione per la prima volta dopo 11 presenze consecutive). La sua idea era quella di riuscire a prendere i due classici piccioni con una fava: prendere il massimo dei soldi possibili e contemporaneamente essere ceduto a una squadra di suo gradimento, in particolare i Clippers della sua nativa Los Angeles indicati fin dal primo momento come la destinazione preferita.

Ancora una volta però Harden ha sottovalutato quanto sia importante essere circondati da persone che conoscono i meccanismi del mercato e le vie intricate della NBA. Per anni il Barba ha ritenuto di non avere bisogno di un’agente, convinto che tanto avrebbe continuato a firmare contratti al massimo salariale per l’eternità e che gli accordi di sponsorizzazione sarebbero arrivati da soli, e solo recentemente si è appoggiato a dei professionisti che però evidentemente non lo hanno consigliato bene, facendolo finire nella situazione scomoda in cui si trova adesso. Questo perché c’è un problema fondamentale: Harden — a quasi 34 anni, con una lunga serie di delusioni ai playoff alle spalle e una vita fuori dal campo tutt’altro che esemplare, come dimostrano anche i continui problemi muscolari con cui deve convivere — è ancora un “borderline All-Star”, ma non è più una superstar. E la differenza è che per le superstar le squadre sono disposte a fare di tutto, mentre gli All-Star sono spendibili — soprattutto quelli che hanno scollinato la parte migliore della loro carriera. Basta farsi una semplice domanda: se Harden fosse free agent oggi, che tipo di contratto riuscirebbe a prendere e, soprattutto, da chi?

C’eravamo tanto amati

Il terzo livello di lettura è il modo in cui Harden ha deciso di attaccare Daryl Morey — non i Philadelphia 76ers: esclusivamente Daryl Morey — chiamandolo per nome e cognome. È la conferma più esplicita di un rapporto che si è rotto da tempo, e che fa particolarmente rumore perché raramente in passato si è vista una comunione di intenti così stretta tra un dirigente e un giocatore. Siamo stati abituati a vedere allenatori e giocatori che legano le loro carriere a doppio filo (Michael Jordan e poi Kobe Bryant con Phil Jackson, Tim Duncan e Gregg Popovich, Dwyane Wade e Erik Spoelstra), ma raramente lo si è visto accadere tra un general manager e una superstar. Morey ha trovato in Harden il compimento della sua idea di pallacanestro “sabermetrica”, una macchina di canestri per sé e per gli altri che rifuggeva i tiri dalla media distanza in favore di layup e triple senza neanche bisogno di doverlo “riprogrammare”; e allo stesso modo Harden ha trovato in Morey un tipo di dirigente capace di chiudere più di un occhio sulle sue attività extra-cestistiche, dandogli un livello di libertà inimmaginabile da altre parti e di assecondare il suo talento costruendogli le squadre attorno.

Sono passati meno di tre anni da quando, lasciando Houston, Morey comprò una pagina intera sul quotidiano locale per pubblicare una lettera nella quale si legge “James Harden changed my life” scritto in grassetto. “Una pagina intera potrebbe essere dedicata solo a James. Non solo ha trasformato la mia vita ma ha rivoluzionato il gioco del basket — e continua a farlo — come quasi nessun altro prima. Esiste un basket diverso per via di James e in tutti i playground del mondo la prossima generazione di talenti studia e imita il suo gioco. Continuerò a tifare affinché James vinca un titolo a Houston: è così che dovrebbe concludersi la storia”. Parole che a leggerle oggi fanno un po’ effetto, anche più dell’abbraccio con cui Morey accolse Harden al suo sbarco a Philadelphia.

Il quarto livello di lettura è il significato della parola “bugiardo” usata da Harden per descrivere Morey, implicando quindi che in qualche modo il dirigente a capo dei 76ers gli abbia mentito o sia venuto meno a una promessa. È fin troppo semplice fare 2+2, anche se nessuno degli interessati può ammetterlo: quando un anno fa Harden ha accettato un contratto di 15 milioni inferiore al suo massimo salariale, lo ha fatto nella convinzione di ricevere indietro tutti i soldi che aveva lasciato sul tavolo in questa estate, indipendentemente da come sarebbero andate le cose in campo. Cosa che poi evidentemente non è successa, visto che i Sixers — consapevoli che il suo valore di mercato è crollato da un anno all’altro e che nessuna delle altre 29 squadre sarebbe davvero stata una minaccia, specie dopo che i Rockets hanno assunto Ime Udoka, che secondo Yaron Weitzman di Fox Sports non vuole vedere Harden neanche in cartolina dopo averlo allenato come assistente ai tempi dei Nets — hanno offerto cifre al ribasso, sfruttando il loro leverage. Harden però con quelle parole si è messo nei guai da solo: se davvero c’è stato un accordo “wink wink” a cui Morey è venuto meno, è inevitabile che la NBA voglia vederci chiaro, specialmente dopo aver già investigato e punito i Sixers per le firme anzitempo di Tucker e House, privandoli di una seconda scelta al Draft.

Il quinto livello di lettura è che Harden non è nella condizione di poter cominciare un braccio di ferro con i Sixers perché, semplicemente, non ha il coltello dalla parte del manico. Avendo un solo anno di contratto rimanente, il contratto collettivo stipulato tra NBA e giocatori esplicita chiaramente che “negare i propri servizi per più di 30 giorni dopo l’inizio della sua ultima stagione coperta dal contratto può essere giudicata come una violazione del contratto, proibendo quindi al giocatore di diventare free agent e di firmare con qualsiasi squadra di basket professionista a meno che la squadra con cui il giocatore ha giocato per l’ultima volta acconsenta al contrario”. Detto in altri termini: se Harden decide di non presentarsi al training camp e di non giocare più con i Sixers, come sembra essere la sua volontà, non solo rischia di essere multato per ogni partita non giocata, ma anche di precludersi la possibilità di diventare free agent. Una situazione molto più pesante rispetto a quella di Ben Simmons di due anni fa, visto che l’australiano aveva ancora quattro stagioni di contratto, permettendogli quindi di prolungare lo stallo con la franchigia fino ad arrivare alla cessione (proprio per Harden, peraltro).

Il vero protagonista in questa storia è Joel Embiid

È anche per questo che, secondo quanto scritto da Jason Dumas, Morey è “indifferente” ai commenti di Harden, mantenendo ferma la sua posizione secondo la quale non scambierà Harden a meno che i Sixers non ne escano rinforzati. Già, perché in tutta questa storia Harden non è neanche lontanamente la preoccupazione principale di Morey, che invece si chiama Joel Embiid: l’MVP in carica della lega ormai da qualche tempo lancia segnali di insofferenza (non più tardi di un mese fa aveva detto «Voglio vincere ad ogni costo, non so se sarà a Philadelphia o altrove») e si aspetta di avere una squadra da titolo attorno a sé per non cominciare a guardarsi attorno. E scambiare Harden per uno o più giocatori in grado di permettergli di competere subito è l’unica strada percorribile per Morey: non c’è altra scelta, a meno di perdere Embiid e quindi andare tutti a casa.

A Harden, di fatto, dopo essersi giocato male tutte le altre carte sono rimasti solo questi aspetti da poter sfruttare. Il primo: continuare a peggiorare il suo valore di mercato e diventare attivamente dannoso tanto da rendersi ingiocabile per i Sixers e costringerli a cederlo. Niente di nuovo, peraltro: lo ha già fatto a Houston, fino ad arrivare al leggendario “fat suit” che secondo alcuni ha indossato prima della sua ultima partita con i Rockets per sembrare più fuori forma di quello che realmente era. Il secondo: sfruttare l’ascendente che comunque sembra ancora avere nei confronti di Embiid (che non più tardi di un mese fa diceva «Sono contento di essere suo amico: ci siamo avvicinati molto da quando è arrivato e rimarremo amici per il resto delle nostre vite») come arma contro Morey, convincendolo che a Philadelphia con lui non può vincere.

Un piano piuttosto machiavellico che comporta una grossa dose di energie mentali da spendere fuori dal campo pur di arrivare a dama, cioè andarsene da Philadelphia con i propri 35.6 milioni intatti: Morey è famoso per la sua disponibilità ad affrontare qualsiasi ostacolo e a vivere ogni situazione, anche se non soprattutto quelle più scomode e sgradevoli, ma Harden — essendo una sua creatura — ha già dimostrato di non essere da meno. Da come si risolverà il loro scontro passa una buona fetta della NBA che verrà.

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