Il primo a lamentarsi è stato Draymond Green: «Mi volete onesto al 100%? Combattere per un posto nel play-in non mi motiva. Ma proprio per niente». Poi si è aggiunto Luka Doncic: «Non capisco l’idea del play-in: giochi 72 partite per arrivare ai playoff, poi magari ne perdi due in fila e sei fuori. Non ne capisco il senso». Infine LeBron James ha aggiunto il carico da 90, come sempre quando si muove con le sue opinioni: «Chi ha pensato il torneo play-in dovrebbe essere licenziato».
Se ci fermassimo solamente alle opinioni dei giocatori, almeno tra quelli più rappresentativi che rischiano di doverli giocare, l’accoglienza del nuovo torneo play-in non è stata delle migliori, per usare un eufemismo. La novità più importante di questa stagione — quattro partite da disputare tra il 18 e il 21 maggio per decidere le ultime quattro partecipanti ai playoff nelle due conference — è stata accolta con un bel po’ di scetticismo da parte dei protagonisti in campo, complice anche un calendario che li ha costretti a un numero di partite enorme in pochissimo tempo.
Ma è evidente che l’istituzione del mini-torneo per andare ai playoff abbia avuto un grosso impatto sulla competitività delle partite nell’ultimo mese di regular season, o quantomeno sull’interesse che hanno suscitato nel tran-tran quotidiano della lega, in cui buona parte delle squadre si è ritrovata a giocare per qualcosa. E in un periodo del calendario solitamente dominato da argomenti come “Si gioca troppo, bisogna ridurre le partite” oppure “Il tanking è una sciagura, la NBA deve farci qualcosa”, avere una novità su cui dibattere, discutere e arrovellarsi è stata una ventata di aria fresca al termine di una stagione che, paradossalmente, è stata sia velocissima che infinitamente lunga.
Perché la NBA è arrivata al torneo play-in
Già lo scorso anno la NBA nella bolla di Orlando aveva istituito una sorta di spareggio “chi vince piglia tutto” tra l’ottava e la nona squadra delle rispettive conference, che poi si è concretizzato solo nella sfida tra Portland e Memphis a Ferragosto visto che la distanza tra ottava e nona a Est era troppo ampia. Un esperimento che era stato giustificato dalla natura pandemica della bolla, ma che arrivava al termine di un lungo percorso in cui la NBA aveva cercato di inserire un po’ di varianza nel suo monolitico schema da 82-partite-più-quattro-serie-di-playoff su cui si basa l’intero modello di business.
Prima che la pandemia spazzasse via ogni progetto a lungo termine, la NBA tra la stagione 2018-19 e la 2019-20 aveva già cominciato a far trapelare alcuni dei suoi progetti per tastare le reazioni del pubblico. Come detto espressamente dal commissioner Adam Silver, la NBA aspirava e guardava con ammirazione (e un filo di invidia) l’esempio del calcio europeo e della Premier League, cercando di prenderne gli aspetti migliori che solitamente sono anche quelli più redditizi. (Curioso che, al contrario, il calcio europeo abbia inseguito invece il modello americano con tutto quello che è successo con la Superlega, ma questa è un’altra storia).
In un mondo in cui la paura di perdersi qualcosa (“The fear of missing out”) è indicata come una delle motivazioni che spingono le persone a sintonizzarsi, informarsi e interessarsi per non rimanere tagliati fuori, la NBA sentiva il bisogno di rimanere al passo coi tempi, di creare un nuovo evento che anticipasse i playoff e le Finals. Il mantra di Silver era, ed è ancora, che «le organizzazioni devono avere la forza di generare nuove tradizioni», ossia nel concreto che il formato del campionato non deve essere sempre uguale solo “perché si è sempre fatto così”, ma debba essere cambiato per produrre sempre nuovi spunti di interesse, che poi si traducono in soldi — perché, fuori di retorica, pur sempre di business stiamo parlando.
Uno degli aspetti su cui vuole puntare Silver è quello della partita secca come “evento”, una netta inversione di tendenza in un mondo professionistico sportivo come quello statunitense in cui tradizionalmente la serialità degli incontri è un aspetto fondamentale. Basti pensare alle serie al meglio delle sette partite nei playoff NBA o anche agli scontri in fila tra due squadre visti in questa regular season, mutuati dal baseball per minimizzare gli spostamenti in un mondo pandemico ma anche per produrre mini-contenuti all’interno del contenitore più ampio della regular season. La NBA però guarda con interesse sempre più famelico agli scontri in cui chi vince avanza e chi perde va a casa: alla fine dei conti, è quello che rende così interessante il torneo NCAA o i playoff della NFL e che la NBA — per come era pensata prima di questa stagione — non prevedeva nel suo modus operandi.
L’idee al vaglio già due anni fa erano due: una coppa a metà stagione (idealmente da intitolare alla memoria di David Stern) con partite a eliminazione diretta tra le migliori squadre delle due conference riunite in un unico luogo, magari in un weekend solo come si fa per l’All-Star Game; e un torneo play-in che coinvolgesse le squadre tra la settima e la decima posizione per allargare il numero di possibili pretendenti ai playoff, diminuendo quelle interessate al tanking (di cui sono già state modificate le percentuali alla Lottery con un effetto abbastanza mitigante, visto che non si può esacerbare del tutto) e aggiungendo un po’ di pepe ai finali di stagione. La prima idea è stata per il momento accantonata (ma di sicuro appena il mondo si sarà normalizzato verrà riproposta, statene certi), mentre la seconda — dopo l’incoraggiante successo della versione light nella bolla — è stata implementata in fase sperimentale con voto unanime del Board of Governors, l’assemblea che decide tutto sulla NBA.
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Il funzionamento del torneo play-in è più semplice a vedersi che a spiegarsi. In entrambe le conference, settima e ottava si affrontano in uno scontro diretto: chi vince avanza ai playoff e chi perde deve affrontare la vincente tra nona e decima per conquistare l’ultimo posto disponibile. Chi ha il posizionamento più alto ha il fattore campo a favore nello scontro diretto.
Che effetto ha avuto il play-in sulla regular season
Ora che siamo arrivati alle battute finali di questa regular season, possiamo ragionevolmente dire che l’introduzione del torneo play-in ha raggiunto quello che si era prefissata: creare interesse prima ancora che si giochino effettivamente le partite. L’effetto più evidente, e forse nemmeno messo in conto dalla NBA, è che molto del discorso attorno al play-in non ha coinvolto solo chi ha lottato per entrarci o per procurarsi la posizione migliore con il fattore campo, ma chi sta cercando in tutti i modi di evitarlo — cioè le squadre tra la quarta, quinta e sesta posizione, che normalmente coinvolgono anche nomi di un certo rilievo nel discorso NBA, e che hanno avuto più interesse del solito a schierare le proprie stelle invece che farle riposare nelle ultime settimane di regular season a seed già acquisito (anche perché chiudere con uno dei primi sei record equivale a quasi una settimana di riposo in più mentre le altre squadre si azzuffano).
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Prima delle gare di questa notte, a quattro giorni dalla fine della regular season, nessuna squadra conosceva già la propria testa di serie ai playoff e tutte le 9 partite in programma avevano qualche implicazione di classifica. Una irripetibile coincidenza o la nuova normalità con il torneo play-in?
Per quanto la recente esplosione di triple doppie di Russell Westbrook — una delle storie più importanti di questa regular season, forse quella che maggiormente ci ricorderemo nei prossimi anni — sia a tutti gli effetti conseguenza della possibilità di agguantare il play-in da parte degli Washington Wizards, è stato molto più interessante vedere come le squadre dell’Ovest abbiano cercato in tutti i modi di evitare quel settimo posto che rappresenta una variabile impazzita per franchigie con legittime ambizioni di secondo turno, finali di conference e — soprattutto in un caso — titolo NBA.
È indubbio che la presenza dei Los Angeles Lakers abbia acceso i riflettori sulla novità più importante di questa stagione. In stagioni normali i campioni in carica non dovrebbero trovarsi invischiati tra quinta, sesta e settima posizione nella propria conference, ma i ben noti problemi di infortuni di Anthony Davis e LeBron James hanno avuto l’effetto di far naufragare il record dei gialloviola, che storicamente spostano il discorso in una certa direzione con la loro solo presenza — figuriamoci da campioni in carica. Per la NBA la tempesta perfetta si è consumata con la presenza in quel discorso della seconda franchigia più seguita quantomeno della Western Conference, i Golden State Warriors, con uno scontro tra 7 e 8 che — se dovesse concretizzarsi dopo gli incontri nel weekend — rappresenterebbe il miglior spot possibile per confermare la bontà dell’esperimento. Chi mai si perderebbe una sfida tra LeBron James e Steph Curry in cui ci si gioca la stagione?
La presenza di un’altra franchigia storica come i Boston Celtics nella Eastern Conference (e degli altri finalisti Miami Heat, che si sono tirati fuori dal settimo posto solo recentemente) ha un effetto simile, per quanto i biancoverdi — anche alla luce dell’infortunio di Jaylen Brown — abbiano meno “championship equity” nel discorso globale di questa stagione. L’aggiunta di questo “star power” ha portato molti più tifosi del solito a interessarsi del play-in, che se si fosse consumato anche solo tre anni fa avrebbe coinvolto Bucks-Wizards e Pistons-Hornets a Est e Spurs-Timberwolves e Denver-Clippers a Ovest. E normalmente le teste di serie numero 7 e 8 del tabellone sono carne da macello per le due migliori squadre della conference, visto che nessuna squadra nella storia ha mai vinto il titolo partendo da quel seed nel formato dei playoff a 16 squadre. Solo che quest’anno ci potrebbero essere James e Curry.
L’idea del play-in nasce proprio da quanto accaduto al termine della stagione 2017-18 tra Denver e Minnesota, che per uno strano concatenamento di eventi sono arrivate a giocarsi tutto in uno scontro diretto finito all’overtime. La NBA ha notato come la curva di interesse fosse cresciuta per una sfida tra due mercati di medie-piccole dimensioni arrivate ad una sfida da dentro o fuori e ha cercato di replicarla “in vitro”, creando artificiosamente le condizioni affinché si presentasse e facendo in modo che anche il percorso per arrivare fino a lì contasse qualcosa. Per usare le parole di Mark Cuban, che ha fatto eco delle parole della sua stella pur avendo votato a favore del torneo come membro del Board of Governors: «Invece di far riposare le nostre stelle, abbiamo dovuto trattare ogni partita come una sfida da playoff». Beh, è esattamente quello che la NBA voleva.
È la conclusione a cui è arrivata anche Rachel Nichols in un suo recente monologo, sottolineando come la “Rest-o-rama” normalmente riservata a questa parte di regular season NBA non si sia vista.
Una stagione particolare o la nuova normalità?
Quindi, insomma, cosa ne dobbiamo pensare del nuovo torneo play-in che debutterà la prossima settimana? È stato un bene o un male? Siamo a favore o siamo contro? Abbiamo ancora un campione troppo ristretto per capire se le condizioni che si sono create quest’anno con il coinvolgimento di Warriors e Lakers siano eccezionali oppure se ogni anno una squadra dal grosso seguito finirà per essere invischiata in questi discorsi. E soprattutto, per valutarlo complessivamente, non abbiamo ancora visto che effetti avrà sul main event della stagione, cioè i playoff.
Il fatto che così tante squadre si siano dovute impegnare alla morte nelle ultime settimane della regular season porterà a vedere giocatori più stanchi nei primi turni della post-season, e quindi un livello di gioco più basso rispetto a quello a cui ci hanno abituati? Il fatto che Anthony Davis si sia procurato un problema all’inguine nella sfida col coltello coi denti con i New York Knicks gli creerà ripercussioni al play-in o all’eventuale primo turno? Sarà lo stesso per Bradley Beal che ha accusato un infortunio muscolare al bicipite femorale dopo averne segnati 50 contro Indiana e non tornerà in campo in regular season? In definitiva: siamo disposti a vedere dei playoff depotenziati con giocatori in condizioni sotto al 100% pur di avere sfide più significative al termine della regular season?
Sono effetti collaterali che possono essere valutati solo sul lungo termine e a cui la NBA sicuramente darà attenzione nelle prossime settimane e nei prossimi anni. Di sicuro il torneo play-in ha rimesso il risultato e lo sforzo al centro del discorso: vuoi evitare di andare al torneo play-in, o al contrario vuoi rientrarci pur avendo avuto tanti problemi in stagione per Covid, infortuni o altre motivazioni? Bene, vinci le partite che ti rimangono e avrai la possibilità di controllare il tuo destino. E se non sei capace di vincere almeno una partita in casa su due per difendere il tuo settimo od ottavo posto in classifica, allora forse davvero non meriti di andare ai playoff.
In un certo senso, il torneo play-in è più meritocratico rispetto al sistema precedente in cui ottime squadre come i Phoenix Suns del 2013-14 o i Golden State Warriors del 2007-08 potevano rimanere fuori dalle prime otto pur con un record di 48-34, pagando la “colpa” di essere finiti in conference dal livello altissimo mentre dall’altra parte ci si giocava un primo turno anche stando di parecchio sotto il 50%. Allo stesso tempo, potrebbe capitare nei prossimi anni una testa di serie numero 7 o 8 con un vantaggio consistente nei confronti delle inseguitrici (l’anno scorso Dallas settima aveva 6.5 partite di vantaggio rispetto all’ottava e 7 nei confronti di nona e decima) costretta a rimettere tutto in discussione in una o più sfide secche, vanificando quanto fatto lungo tutta la regular season.
Può darsi che la NBA rimetta mano all’esperimento smussandone degli angoli per renderlo più equo o per dare ancora qualche vantaggio in più a chi ha una classifica migliore, anche se il fattore campo — seppur mitigato in questa stagione con pochi spettatori sugli spalti — è tutt’altro che da sottovalutare. Però la strada sembra tracciata e difficilmente, visto l’interesse suscitato e gli effetti sul finale di regular season, la NBA potrà tornare indietro. Come detto da Evan Wasch, cioè l’uomo della NBA responsabile del torneo play-in (anche se ha rifiutato l’etichetta di “creatore”): «Se i giocatori hanno delle idee, sono sicuramente incoraggiati a condividerle con noi, anche in termini critici perché è quello che di aiuta a migliorare. Possiamo parlare di tutto. Ma crediamo che i pregi di questo torneo superino di gran lunga i rischi». E gli obiettivi collettivi della NBA, solitamente, prevalgono sempre su quelli individuali delle parti che la compongono.