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Cosa è mancato all'Italia Under-21
25 giu 2019
E cosa ci portiamo dietro.
(articolo)
11 min
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Una delle rappresentative Under-21 più talentuose della nostra storia si è incagliata su un formato bizzarro, tale per cui le prospettive di qualificazione ci apparivano incredibilmente floride dopo la vittoria all’esordio contro la Spagna, e incredibilmente fragili dopo la successiva sconfitta contro la Polonia.

E alla fine, dopo aver sperato invano che la squadra che avevamo già sconfitto vincesse, ma che lo facesse anche con uno scarto abbastanza contenuto da non superare la nostra differenza reti, abbiamo dovuto attendere 48 ore per scoprire se avremmo strappato il quarto posto valido per l’accesso alle semifinali, e soprattutto alle Olimpiadi del 2020.

Sono state ore di delusione e di silenzio: i giornali non riportavano aggiornamenti, così come i calciatori non pubblicavano nuove stories, e si godevano le prime ore in famiglia nel dubbio di poter essere richiamati da un momento all’altro. Soltanto il pareggio tra Francia e Romania di ieri sera ha sancito definitivamente il nostro destino. Potevamo ancora confidare nella vittoria più o meno larga di una delle due squadre, ma come spesso accade, specialmente a livello giovanile, ha prevalso la paura.

Ricorderemo così questi Europei Under-21 organizzati in casa, con questo incastro di emozioni contrastanti, con le addizioni, le sottrazioni, e un generale senso di confusione che si è sostituito al calcio giocato e non ci ha permesso di apprezzare due vittorie piene nel punteggio, contro due dei movimenti calcistici più evoluti del continente come Spagna e Belgio.

E allo stesso tempo li ricorderemo con lo spettro dell’obiettivo fallito, con il rimpianto della terza Olimpiade consecutiva senza calcio italiano (a meno di grosse sorprese nei Mondiali femminili…), con il timore di aver sprecato una generazione forte come non ne vedevamo da tempo, o addirittura gli ultimi sei anni di gestione Di Biagio.

Cosa ci è mancato per vincere

L’ossatura tattica su cui Di Biagio ha costruito questa selezione e le precedenti è formata da quattro difensori e tre centrocampisti in linea, così come quella della Nazionale maggiore. Purtroppo le due squadre condividono meno di quanto avremmo voluto, in tempi di progetti federali e di integrazione dei programmi. Se Mancini sta cercando di avvicinare la Nazionale al controllo del pallone in spazi stretti, sulla scia del lavoro impostato da Sarri al Napoli, l’Under-21 è sembrata ancora una squadra costretta a controllare il pallone suo malgrado.

Di Biagio non si trovava in una posizione semplice rispetto alle aspettative dei tifosi. Da una parte c’era l’ansia del risultato, di raggiungere l’obiettivo fissato a qualunque costo, che ci ha schiacciato contro la Polonia e ha finito per mettere in cattiva luce questa spedizione; dall’altra la naturale curiosità di scoprire qualcosa di più della generazione di calciatori che stiamo vedendo crescere, di cogliere un elemento di sorpresa, di vedere nuove sfumature del talento di Chiesa, nuove collocazioni tattiche per sfruttare quello di Zaniolo, nuovi elementi a sostegno della leadership di Pellegrini. L’impressione è che alla fine siano rimasti delusi tutti.

A Di Biagio si può rimproverare di essere stato selezionatore fino in fondo: ha scelto i migliori talenti a disposizione, ha trovato un modo per farli coesistere in campo e ne ha fatto emergere le caratteristiche migliori. Non è detto che sia legittimo chiedere qualcosa di più al calcio giovanile, considerando che questo gruppo di 23 ventenni è stato assortito in questo modo per la prima volta a fine maggio, e che ha avuto poco più di due settimane di ritiro a disposizione per prepararsi alla manifestazione.

Se guardiamo alle altre Nazionali in gara, al modo in cui sono state costruite e al modo in cui sono scese in campo, diventa più semplice accettare questa competizione per quella che è: una grande vetrina di talenti che lascia poco spazio all’intervento degli allenatori.

Di sicuro, questa Italia non aveva le idee chiarissime. Non si spiega altrimenti come una squadra dalla circolazione della palla traballante, costruita per giocare un calcio di transizione, nelle ultime due partite abbia fatto registrare un possesso palla medio del 62%, arrivando a piantare le tende nella metà campo offensiva. Di Biagio ha intuito il grande potenziale di questa squadra, ovvero la possibilità di disporre di calciatori molto intensi, che hanno bisogno di accendersi, di mordere le caviglie degli avversari a ogni possesso perso, di riconquistare il pallone nel minor tempo possibile, e lo ha assecondato pienamente.

Purtroppo non è sempre stato un vantaggio. Un calcio poco organizzato come quello delle selezioni U21 conduce a una sequenza di fasi di gioco statiche, non particolarmente divertenti, giocate a ridosso della trequarti con una squadra disposta a protezione dell’area di rigore e l’altra che prova a ritagliarsi un varco verso la porta. In questo contesto, l’Italia non è apparsa particolarmente a suo agio. Ha sofferto la carenza di giocatori con istinto per il dribbling, o per le triangolazioni nello stretto, che riuscissero a generare superiorità numerica con poco spazio a disposizione.

Pezzella lancia un campanile verso l’area, Barella raccoglie il pallone vagante, lo calcia con forza, gli ritorna addosso, lo calcia con più forza: la sintesi perfetta dei nostri attacchi nel primo gol segnato al Belgio.

Per battere la Polonia, impresa che la Spagna ha fatto sembrare una banale formalità, non ci sono bastati 51 cross e 31 tiri verso la porta, con una precisione complessiva del 16%. Abbiamo lottato su ogni pallone, bloccato sul nascere ogni tentativo di transizione, ma ci siamo liquefatti nell’ultimo terzo di campo in assenza di una strategia migliore per arrivare verso la porta che non fossero i cross di Dimarco per Cutrone e Kean. È l’unico vero rimpianto di questi Europei, ed è stato sufficiente a dichiararli un fallimento.

C’erano grandi aspettative intorno a questa selezione, giustificate dal talento a disposizione, dagli scarsi risultati ottenuti negli ultimi anni, dal privilegio di ospitare la manifestazione. L’Italia però non ha ceduto di fronte alle pressioni, anzi le ha utilizzate per alimentare questa voglia di rivalsa visibile in tutti i calciatori in campo, fino ad affidarsi ciecamente a questo senso di predestinazione. Abbiamo giocato sul puro agonismo, e questo è stato il più grande merito e il più grande limite del lavoro di Di Biagio: nel momento in cui quelle certezze sono venute a mancare di fronte al muro della Polonia, l’Italia ha continuato a correre fino a schiantarcisi contro.

Quali lezioni abbiamo imparato

Forse l’aspetto più confortante ricavato da queste tre partite è la consapevolezza di aver cresciuto calciatori che si capiscono. Barella, Chiesa e Cutrone, per citare tre dei nomi più noti di questa selezione, vivono il calcio allo stesso modo, ogni pallone come se fosse l’ultimo, hanno la voglia e la frenesia di decidere le partite da soli, il prima possibile, con tutti i vantaggi e gli svantaggi che ne derivano.

Questo non significa che non siano giocatori tecnici: Barella può servire a testa bassa un compagno in corsa a 50 metri di distanza, Chiesa può accompagnare docilmente con il collo del piede anche un pianoforte caduto dal settimo piano (d’accordo, forse Cutrone un po’ meno, ma anche Zaniolo, per allargare la prospettiva, ha quel tipo di eleganza che riesce ad esprimersi solo attraverso l’esercizio della potenza ‒ e quindi di rado in questi Europei, in cui è apparso fuori forma). Ma è un tipo di tecnica che emerge solo in determinati contesti, contro avversari meno fisici, in campo aperto piuttosto che in spazi chiusi, sulle seconde palle piuttosto che in fase di azione manovrata.

Quando ha dovuto fare a meno, rispettivamente per squalifica e infortunio, sia di Zaniolo che di Orsolini nell’ultima partita contro il Belgio, Di Biagio ha preferito inserire un centrocampista in più, Locatelli, per avanzare stabilmente Pellegrini sulla linea di trequarti, alle spalle dell’inedito duo d’attacco Chiesa e Cutrone. Alla fine ci siamo divertiti, pur al cospetto di un avversario modesto e rinunciatario, perché oltre a non avere mai smesso di attaccare, così come nelle precedenti partite, abbiamo trovato più soluzioni per farlo.

Il centrocampo dell’Italia circonda con un rombo il portatore di palla del Belgio, che non fa neanche in tempo a girarsi. Bastoni vince il contrasto, portandoci ad attaccare in parità numerica la linea difensiva.

Dal punto di vista dell’intrattenimento, è stata un’esperienza vicina a quel senso di angoscia che provocano i documentari sui predatori della savana, perché non abbiamo veramente mai lasciato respiro al Belgio, anche quando poi non siamo riusciti a finalizzare, e per arrivare al tiro ci siamo affidati alle rivedibili conclusioni da fuori area di Mancini e Pezzella. È stata la nostra versione incompiuta del calcio totale: avevamo attaccanti fortissimi a difendere, ma ci mancavano i difensori fortissimi ad attaccare.

Che l’Italia non riesca più a produrre terzini degni della scuole portoghesi, brasiliane, francesi e spagnole è un problema ormai noto. La campagna di qualificazione ai Mondiali di Russia della Nazionale maggiore porterà per sempre il marchio dei cross sbilenchi di Darmian e Candreva contro la Svezia, nella stessa misura in cui questo piccolo torneo è stato segnato dagli errori tecnici e dalle incertezze in progressione di Dimarco, Calabresi, Adjapong e Pezzella. In generale abbiamo manifestato problemi di controllo, inteso come dominio tecnico sul pallone, laddove i centrocampisti spagnoli riuscivano ad orientare le giocate successive con la sola disposizione del corpo, prima ancora di riceverlo effettivamente.

E anche nel ruolo di centravanti, come spesso ci capita, ci è mancato un riferimento tecnico, tanto che abbiamo dato il meglio nel momento in cui abbiamo allargato i giocatori offensivi, dilatando lo spazio in cui attaccare, e affidandoci totalmente a Pellegrini per l’organizzazione della manovra. In particolare Cutrone si è scontrato più volte sui suoi limiti per poi emergere attraverso i suoi pregi. Sempre contro il Belgio, nel primo tempo per due volte lanciato a rete ha sbagliato il primo controllo e si è fatto recuperare dai difensori, poi nel secondo ha firmato il doppio vantaggio contorcendosi per spedire di testa il pallone sul palo più lontano.

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Nel giro di pochi secondi: tacco volante di Pellegrini, controllo elegante e verticalizzazione di Locatelli, sombrero in corsa di Barella. L’Italia che si diverte.

«So di avere una squadra forte e quali saranno le problematiche, come la formula del cavolo di questo Europeo», aveva detto Di Biagio alla vigilia della manifestazione, rivelandosi tristemente profetico. Dal punto di vista dell’identità di gioco e delle prestazioni offerte, abbiamo visto più o meno sempre la stessa Italia, aggressiva, combattiva, corta sul campo, pronta a difendere in avanti, ma anche confusionaria, imprecisa, meccanica, poco lucida negli ultimi trenta metri.

Dal punto di vista dei risultati, invece, abbiamo ottenuto due vittorie di prestigio ma ci siamo fermati davanti al gioco solido e statico della Polonia, che a sua volta ha ceduto di fronte alla manovra morbida e avvolgente della Spagna, che a sua volta aveva sofferto moltissimo il nostro approccio ruvido e tagliente (le metafore sulla morra cinese sembrano sempre le più adatte a descrivere un girone con tre squadre a punteggio pari deciso dalla classifica avulsa).

Per valutare il percorso con una prospettiva più ampia delle ultime due settimane, conviene fare ancora ricorso alle parole spese da Di Biagio prima che il torneo iniziasse: «Nel biennio di amichevoli ci è mancata qualche vittoria ma le prestazioni sono state fatte e abbiamo anche portato 8-10 giocatori in Nazionale A: questa è la vittoria più grande perché ci hanno chiesto di rilanciare il calcio giovanile e noi stiamo facendo molto di più di quello che potevamo. Manca la ciliegina sulla torta, l'ultimo pezzettino: speriamo di vincere con Under-21, Under-20 e Under-19, ma il percorso fatto è la cosa più importante».

La ciliegina non è arrivata, ma in effetti questo torneo serviva ed è servito soprattutto ai calciatori, per mettersi in vetrina, per abituarsi a giocare partite decisive e a far parte di un gruppo di campioni. Purtroppo è servito anche ai giornali, per scrivere che «forse non è stata una buona idea» tenere Kean e Zaniolo nella stessa camera d’albergo (ai calciatori chiediamo di decidere le partite, mica i coinquilini). Lezioni che ci serviranno per il futuro, quando gli stessi calciatori occuperanno stabilmente le convocazioni della Nazionale maggiore, ora che finalmente appaiono già pronti per salire quel gradino.

Questa selezione è stata costruita con criterio, e questo è forse l’aspetto più importante da sottolineare ‒ lo ha fatto anche Di Biagio. Non si è scelto di pescare solo tra i giocatori più esperti, prossimi ad abbandonare le giovanili al termine di questo biennio, ma si è arrivati a costruire una squadra composta dai migliori giocatori di ciascuna annata, per una rosa che ne comprendeva cinque diverse, tra il 1996 e il 2000.

Oggi possiamo rammaricarci per l’occasione sprecata, oppure sorridere per la testardaggine con cui Di Biagio ha affrontato la sconfitta («Metterei la firma per ripetere la prestazione vista contro la Polonia»), ma possiamo anche aggrapparci alle parole immediatamente successive pronunciate dal tecnico in conferenza stampa, che sono il riflesso dello spirito con cui abbiamo affrontato la partita contro il Belgio, ormai a un passo dall’eliminazione: «Il morale è buono, a me basta poco per risollevarmi e devo trasmettere anche questo ai ragazzi. Ma dagli sguardi vedo che loro vorrebbero giocare già oggi».

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