Mancano 35.8 secondi al termine dei tempi regolamentari di gara-3 tra Dinamo Sassari e Olimpia Milano. Dyshawn Pierre ha appena segnato il tiro libero del pareggio a quota 89 per la squadra sarda, a un passo da una clamorosa qualificazione alla finale Scudetto. Milano però ha la palla in mano e la possibilità di coronare una rimonta altrettanto clamorosa, visto che a 3 minuti dalla fine era sotto di 8 lunghezze, complice un fallo tecnico fischiato a Kaleb Tarczewski.
La palla è in mano a Mike James, che già tante volte nel corso di questa stagione si è ritrovato a prendersi le responsabilità nei momenti decisivi di una partita dell’Armani Exchange. Se Milano ha la possibilità di giocare per vincere, forzando una gara-4 e interrompendo l’incredibile imbattibilità sarda di 21 partite tra campionato e Europe Cup, è principalmente per merito del play di Portland, autore di 8 punti e un assist (per una tripla di James Nunnally) nel parziale di 11-2 che aveva portato l’Olimpia avanti nel punteggio da quel -8 citato in precedenza.
Nel momento in cui James inizia la sua azione offensiva ha alle spalle un eccellente 11/19 da 3 punti tra gara-2 e gara-3. È in striscia, è in fiducia: negli occhi ha probabilmente in testa canestri come il game-winner contro l’Efes o il rocambolesco gioco da 4 punti segnato contro l’Olympiacos, due delle istantanee più belle della stagione europea della squadra meneghina. Passa la metà campo con Stefano Gentile su di lui distante in marcatura e il cronometro della partita sotto i 27 secondi e quello dell’azione ancora a 15. Con Nunnally, Nedovic e Kuzminskas piazzati su tre angoli diversi di tiro, l’unico ad attivarsi è Jeff Brooks, che si libera della marcatura di Rashawn Thomas per salire e portare il blocco per un pick and roll centrale.
Quando però l’azzurro arriva in posizione, James si alza da nove petri per tirare senza nessun ritmo, nonostante il cronometro indichi - al momento del rilascio del pallone - poco più di 25 secondi alla fine e 13 a completare l’azione offensiva. Un tiro from the logo“alla Lillard”, indubbiamente affrettato e preso per un eccesso di fiducia nei propri mezzi. La palla si stampa sul ferro ed è Sassari a conquistare il rimbalzo, sbagliando il tiro della vittoria e mandando la partita al supplementare, poi dominato alla distanza.
La gara-3 che ha promosso Sassari e bocciato Milano.
Per descrivere però l’implosione su se stessa dell’Olimpia Milano, che per la terza volta consecutiva nell’era Armani manca la possibilità di vincere lo Scudetto per due stagioni di seguito, utilizzare il tiro di James può essere allo stesso tempo utile e superficiale. La sconfitta di domenica sera al PalaSerradimigni contro l’incredibile storia rappresentata dalla Dinamo di Gianmarco Pozzecco ha sancito un finale di stagione indubbiamente deludente e complesso, difficile da analizzare e comprendere, e sicuramente non riconducibile a una sola risposta a un'unica domanda.
È la maledizione dell’anno dispari?
Nelle ore immediatamente successive al ko di Sassari, si è più volte fatto riferimento - non per la prima volta in questa stagione - alla cosiddetta “maledizione” dell’anno dispari. Già dopo la vittoria dello scorso anno contro Trento, coach Simone Pianigiani aveva sottolineato come «vincere è difficile, rivincere è difficilissimo», mentre in estate il presidente Livio Proli ha posto come obiettivo quello del treble italiano, mai conquistato dall’Olimpia.
Tripletta che fu soltanto sfiorata nella precedente stagione “dispari”, la seconda di Jasmin Repesa. Dopo una Supercoppa dominata a settembre al Forum di Assago e una Coppa Italia vinta qualche mese dopo a Rimini, per quell’Olimpia il crollo arrivò al momento del redde rationem: dopo un quarto di finale sofferto contro Capo d’Orlando, infatti, Milano cadde in semifinale contro Trento, con 3 sconfitte in altrettante partite giocate al Forum di Assago e un durissimo 4-1 finale.
La sconfitta del 2017 che sancì la fine dell’era Repesa.
Se lo 0-3 subito dalla Sassari di Pozzecco può ricordare per dimensioni quella serie, molto differente da questa stagione è l’anno dispari “originale”, quello che seguì la splendida annata 2013-14. Dopo una stagione regolare dominata e un primo turno senza storia (77 punti di scarto complessivo sulla Virtus Bologna in tre partite), l’Olimpia cadde in semifinale proprio contro Sassari in una serie molto strana: Milano andò sotto 3-1, rimontò fino al 3-3 per poi perdere gara-7 in casa al supplementare.
Per avversarie ricorrenti o dimensione delle sconfitte il 2019 può senz’altro avere delle similitudini con il 2015 e il 2017, ma esiste più d’un punto di discontinuità che rende questa stagione completamente diversa dalle altre due. E, allo stesso tempo, consentono di guardare con relativo ottimismo allo stesso tempo all’annata appena conclusa.
Una prima differenza tra le due stagioni è rappresentata dal rendimento in Eurolega. Nel 2014-15 Milano “rispose” alle Final Four sfiorate l’anno prima con una top 16 da 4 vittorie e 10 sconfitte, mancando quindi la possibilità di tornare ai playoff europei. Due stagioni dopo andò anche peggio: nel primo anno della nuova Eurolega, dopo un buon inizio da 4-3 l’Olimpia chiuse l’anno europeo con altrettante vittorie nelle ultime 23 giornate, con in mezzo anche una striscia di 10 sconfitte consecutive.
Il momento più alto di quella stagione europea: l’incredibile rimonta sul Darussafaka di David Blatt.
Quest’anno, invece, Milano ha disputato una stagione europea da protagonista, mancando l’accesso ai playoff all’ultimo quarto dell’ultima partita, sprecando le opportunità di una stagione in cui l’Armani Exchange è stata a lungo tra le prime otto della competizione. Un finale di stagione da una sola vittoria nelle ultime sei giornate che ha lasciato l’amaro in bocca.
Rispetto al recente passato una discontinuità la si trova in un roster attuale, che dovrebbe essere confermato in larga parte rispetto alla scorsa stagione - soprattutto nei giocatori stranieri - contrariamente a quanto accaduto nelle estati 2015 e 2017. Tra gli stranieri, infatti, solo due (Curtis Jerrells e Mindaugas Kuzminskas) hanno contratto in scadenza in questo mese, mentre su Alen Omic c’è la possibilità di uscire dall’accordo sottoscritto in inverno, quando il nazionale sloveno arrivò come polizza assicurativa per l’infortunio alla mano di Kaleb Tarczewski, prima della rottura del legamento crociato che ha chiuso l’annata di Arturas Gudaitis.
Ma se il crollo in semifinale contro Sassari non è ascrivibile alla famigerata “maledizione dell’anno dispari”, esistono cause tattiche che possono aiutarci a comprendere le ragioni di questa stagione biancorossa?
È la difesa inadeguata?
Guardando le tre partite di semifinale contro la squadra di Pozzecco, c'è un dato che salta immediatamente agli occhi: i 306 punti subiti in tre partite dalla squadra di Pianigiani, un'emorragia difficile da accettare per una squadra di livello come l’Olimpia, al netto dei due supplementari giocati. La serie contro i sardi ha messo in luce una serie di problemi legati all’assetto difensivo più volte emersi nel corso della stagione.
Sempre eclatante e utile come primo spunto di riflessione è il dato relativo ai rimbalzi: dopo una gara-1 equilibrata in questo senso (37-32 per i sardi) la vera differenza sotto i tabelloni si è vista in gara-2 (58-38 per la Dinamo, con ben 20 rimbalzi offensivi) e gara-3 (43-30, sempre per Sassari). Con Tarczewski più volte limitato da problemi di falli, Milano ha trovato un valido contributo a rimbalzo soltanto da parte di Jeff Brooks: non utilizzato Omic per turnover negli stranieri, è stato sicuramente insufficiente sotto questo aspetto l’apporto degli altri due lunghi di rotazione (Mindaugas Kuzminskas e Christian Burns) e non c'è stato un contributo sopra le “aspettative” fisiche da parte degli esterni.
Un esempio dell’importanza dei rimbalzi di questa serie è dato anche dagli ultimi 4 minuti del quarto periodo di gara-2, in cui Milano non ha segnato nemmeno un punto e subìto un parziale di 6-0 che ha portato la partita al supplementare, poi dominato da Sassari. A dire la verità, la Dinamo in quella frazione di gara è stata tutt’altro che irresistibile, trovando la via del canestro con Polonara (prima con un libero poi con un tiro da due) in mezzo a una lunga sequenza di errori, ma sui quali l’Olimpia non è mai stata in grado di conquistare un rimbalzo d’attacco.
Gli highlights di gara-2.
Problemi a rimbalzo che si erano già visti in alcune partite precedenti alla serie con Sassari, costati anche alcune partite che avrebbero aperto la porta dei playoff di Eurolega (ad esempio nei ko di Mosca con il CSKA o di Desio contro il Panathinaikos). Deficit a rimbalzo che spesso nascono sia da una scarsa predisposizione al tagliafuori che da un posizionamento difensivo generale non sempre all’altezza.
Come di quasi tutte le squadre che spiccano principalmente per talento offensivo, è difficile affermare che Milano abbia un roster di buoni difensori. Individualmente i suoi giocatori - soprattutto gli esterni, visto che i lunghi danno generalmente più sicurezze sotto questo punto di vista - sono capaci di performance difensive di prim'ordine in un match-up diretto: basti pensare, ad esempio, alla marcatura di Curtis Jerrells su Keifer Sykes nella serie contro Avellino, una delle chiavi per la rimonta biancorossa al primo turno.
Anche Nemanja Nedovic e James Nunnally nelle loro precedenti esperienze hanno mostrato istinti difensivi interessanti, e lo stesso si può dire di un Andrea Cinciarini decisivo nel match-up diretto su Jorge Gutierrez nella scorsa finale contro Trento, o di Mike James nelle esperienze con Baskonia e Panathinaikos. In squadre di questo tipo la differenza la fa sempre il piano partita e la capacità di adattare lo stesso allo svolgimento della gara e a eventuali imprevisti.
La versione al completo dell’Olimpia 2018-19 - quella ammirata ad inizio stagione, prima dei ripetuti guai fisici di Nemanja Nedovic e dei già menzionati infortuni occorsi a Tarczewski e Gudaitis - prevedeva un piano speciale per limitare il principale riferimento offensivo avversario, “accettando” le contromisure avversarie (comunque difficili). Un piano riuscito più volte in Eurolega e messo in atto anche nel corso di questi playoff. Nelle due gare del Forum, infatti, l’Olimpia è più volte riuscita a limitare l’apporto di Smith e di almeno uno tra Cooley e Thomas, non trovando però contromisure alle sfuriate offensive di Gentile e Polonara, limitati poi nella partita di domenica sera a discapito del ritorno ad alti livelli dei tre giocatori americani.
In entrambi i casi (rimbalzo e assetto difensivo) l’infortunio di Gudaitis è stato decisivo, per motivi “simili” e principalmente riconducibili a Kaleb Tarczewski. Il lungo d’origine polacca, infatti, è stato colui che nelle ultime stagioni ha maggiormente beneficiato della presenza del lituano, migliorandosi continuamente in allenamento e avendo maggiore sicurezza sul parquet nello spendersi in una difesa più aggressiva senza paura di condizionare la partita di Milano con dei falli prematuri. Con Gudaitis l’Olimpia era una delle migliori squadre d’Europa a rimbalzo ed è lecito pensare come con la sua presenza il piano partita in una serie con Sassari sarebbe stato più solido da eseguire. È altrettanto vero, però, che l’infortunio del nazionale lituano non può fungere da alibi univoco per l’insufficiente rendimento difensivo in semifinale, ad esempio visto che senza Gudaitis Milano è comunque stata in grado di mantenersi intorno al 50% di vittorie in Europa.
È il sovrautilizzo degli stranieri (ignorando gli italiani)?
Un importante capo d’accusa che viene mosso alla stagione dell’Olimpia e di Simone Pianigiani risiede nella gestione delle rotazioni e dei minutaggi dei giocatori, in particolar modo quelli stranieri. È una critica che ha indubbiamente delle fondamenta: Mike James e Vladimir Micov sono numero 1 e 2 per minuti a partita nella logorante stagione di Eurolega (due dei tre giocatori con almeno 30 minuti giocati di media), e solo l’Efes finalista può vantare più giocatori di Milano (tre con Brooks) nella top 25 per minuti giocati in stagione regolare.
Tra Eurolega e campionato, Jeff Brooks è stato uno dei più positivi della stagione Olimpia e si è confermato come un punto di riferimento per il prossimo Mondiale azzurro.
Questa critica, però, è in realtà valida solo nel momento in cui parliamo di Eurolega, perché il discorso diventa totalmente diverso quando ci riferiamo al campionato italiano. Facendo riferimento alle 30 giornate di stagione regolare, infatti, soltanto due giocatori dell’Olimpia non rientrano tra i 14 e i 26 minuti di media a partita: Dairis Bertans (11.4) e Alen Omic (12.2), entrambi “pensati” al momento delle rispettive firme come stranieri di coppa.
Anche in Italia James e Micov (più il serbo che il nativo di Portland) guidano i compagni per minuti di media a partita, non andando però oltre i 25.8 e potendo soprattutto vantare più partite di riposo e recupero da acciacchi europei. Considerata l’importanza dei due giocatori nel sistema offensivo biancorosso, tale minutaggio va anche inquadrato con la necessità di non perdere troppi punti di riferimento offensivi, visto l’arrivo a metà stagione di James Nunnally e le tante partite d’assenza di Nemanja Nedovic.
Un discorso a parte va poi speso per il capitolo italiani, in particolare per i tre neo-arrivati - oggi tutti in discussione per la prossima stagione, con la concreta possibilità di non rivedere nessuno dei tre, stando ai rumors di mercato - nelle figure di Amedeo Della Valle, Simone Fontecchio e Christian Burns. Detto che la stagione di Brooks (soprattutto) e di capitan Cinciarini è stata assolutamente sufficiente, lo stesso non si può dire degli altri tre azzurri, per un gruppo italiano che è apparso complessivamente inferiore a quello della scorsa stagione, con l’Olimpia che forse ha pagato la scelta di non inserire un sesto italiano a roster, completando i 12 a referto con un ragazzo delle giovanili.
Come indicavamo in fase di presentazione del campionato, attorno all’arrivo di Amedeo Della Valle c’erano molte aspettative e altrettanta curiosità, date anche dall’impegno contrattuale importante garantito all’ex giocatore di Reggio Emilia e capocannoniere di Eurocup. Dopo un girone d’andata altalenante, condizionato anche da un infortunio che l’ha privato di un maggiore minutaggio in Eurolega, dal nativo di Alba ci si aspettava un passo in avanti nella seconda metà della stagione, anche dopo la partenza verso la NBA di Dairis Bertans. Questo, però, non è avvenuto: il rendimento è addirittura calato, e negli occhi rimangono alcune prove molto deludenti (ad esempio la partita di Cremona e gara-1 contro Avellino) quando il capocannoniere azzurro era stato chiamato a dare di più in attacco per assenze di James e/o Nedovic.
Un discorso diverso va fatto per Simone Fontecchio, molto positivo in un girone d’andata nel quale l’ex Bologna e Cremona ha effettivamente avuto spazio (10 partenze in quintetto in 15 partite), vedendo poi ridimensionato il suo ruolo dopo le Final Eight di Coppa Italia. In mezzo tra i due sta probabilmente Christian Burns, il cui contributo è stato sicuramente lontano da quello della scorsa stagione a Cantù - quando fu tra i migliori italiani del campionato - ed è venuto maggiormente a mancare nel momento in cui le rotazioni sotto canestro sono state decisamente ridotte.
Come sottolineato dal presidente Proli dopo il ko in gara-3 contro Sassari, questa stagione per Milano dovrà servire di lezione su vari fronti: è indubbio che uno di questi sia rappresentato dalla gestione delle rotazioni anche al momento della costruzione del roster stesso. Il confine tra “giocatori inadeguati rispetto alle attese” e “sfiduciati da un tecnico e uno staff che non ha creduto in loro” è molto sottile ed entrambe le posizioni possono essere sostenute con vigore, anche se i numeri sono chiari e vanno in una direzione precisa. È plausibile però che in un futuro composto da 68 partite di stagione regolare tra Serie A ed Eurolega potrebbe essere necessario identificare gerarchie più chiare nel corso dell’anno.
È (solo) colpa di Pianigiani?
Mai amato da molti tifosi che non gli perdonano il passato con la Mens Sana Siena, domenica sera Simone Pianigiani ha visto interrompersi un clamoroso record che ne aveva contraddistinto la carriera. L’ex CT della Nazionale, infatti, aveva vinto tutte e 23 (22 in Italia, 1 in Israele con l’Hapoel Gerusalemme) serie di playoff allenate in carriera, conquistando il titolo - non considerando lo scudetto 2011-12, poi revocato a Siena - in ognuna delle stagioni con una squadra di club portate a termine, con l’unica eccezione rappresentata dall’annata in Turchia al Fenerbahce dove si dimise a febbraio, dopo la vittoria in Coppa di Turchia.
Soltanto dopo lo Scudetto vinto contro Trento si sono uditi primi cori dei tifosi a sostegno di Pianigiani, e sono bastate le prime deludenti sconfitte in Eurolega per udire più di qualche fischio al momento della presentazione o dell’uscita dal campo del coach nativo di Siena. Il sentimento popolare verso l’allenatore biancorosso - confermato da Proli dopo gara-3 di Sassari, visto il contratto in scadenza giugno 2020, ma la cui posizione potrebbe diventare pericolante dato l’addio dello stesso presidente dell'Olimpia - influenza spesso i giudizi che si leggono sul suo operato, contraddistinti da alcune frasi ricorrenti che sembrano associare la sua figura a quella di un “miracolato” che ha forgiato una carriera su una squadra che ha segnato una pagina buia del nostro basket.
Quando però si ripensa e si analizzano nel dettaglio le partite del biennio di Pianigiani sulla panchina dell’Olimpia, spesso questi luoghi comuni tendono a vacillare. È difficile sostenere, per esempio, che Milano non abbia sviluppato “un gioco”, proponendo una narrativa simile a quella vista anche nel calcio nel corso delle ultime stagioni. Avere un gioco significa avere una signature play o un’identità ben precisa? Perché è arduo sostenere che la Milano di Pianigiani non abbia quest’ultima, composta di una libertà ai giocatori di maggiore estro a patto di mantenersi su una base comune, composta di tanto pick and roll centrale e molte spaziature (con forse poche occasioni di tagli backdoor).
L’Olimpia è una squadra che tira molto da tre punti, ma impiega molta attenzione nella costruzione del miglior tiro possibile (a volte incappando anche in errori di costruzione troppo prevedibili). È altrettanto vero, però, che anche l’opzione del gioco in post viene spesso esplorata da giocatori come Micov e Nunnally (anche Gudaitis aveva mostrato miglioramenti in tal senso prima dell’infortunio) e che spesso i migliori attaccanti biancorossi non esitano ad attaccare il ferro e guadagnare tiri liberi, anche se quest’ultima caratteristica è venuta progressivamente meno nei playoff italiani contro squadre che hanno molto puntato a chiudere e affollare l’area difensiva. Troppo spesso Milano si è dimostrata poco reattiva (e intermittente, riuscendoci bene soltanto nei terzi quarti di gara-1 e gara-2 con Sassari) a trovare contromisure in merito, in un caso invertendo la proporzione delle conclusioni da dentro piuttosto che fuori l’area, nell’altro insistendo con fiducia nella costruzione di ottimi tiri da 3.
È difficile negare che in un risultato ampiamente sotto le aspettative l’allenatore non abbia responsabilità importanti, se non decisive. Una mancanza rilevabile alla gestione di Pianigiani è una lettura non sempre tempestiva della partita in corso, tra sostituzioni mancate o tardate e timeout spesi troppo tardi, e di conseguenza una capacità non sempre adeguata nel reagire a imprevisti rispetto a un game plan spesso ben applicato sin dalla palla a due.
Quello che però è emerso nella fase finale della stagione milanese è una sorta di anarchia diffusa da parte dei giocatori, riscontrabile in un aspetto forse sottovalutato del basket come gli after-timeout, i momenti e le azioni immediatamente successive a un minuto di sospensione. In media, infatti, la percezione osservando da vicino le partite è che Milano sia una squadra che difensivamente subisce più della media dopo un timeout o al contrario non riesce a incidere nella metà campo offensiva, incappando in brutti errori al tiro o in palle perse banali.
Un esempio di questo discorso è la tripla con cui Pierre manda al supplementare gara-2: in conferenza stampa Pianigiani ha spiegato come l’intenzione comunicata durante il timeout fosse quella di commettere fallo subito dopo la rimessa, e l’inserimento in campo di Fontecchio e Cinciarini al posto di Micov e Nedovic significava poter contare su due giocatori freschi e senza problemi di falli. Il piano, però, salta con l’errore nel raddoppio su Spissu, che lascia libero in angolo un tiratore del livello del nazionale canadese.
Pacato e gessato durante la partita, quasi imperturbabile - forse un po’ troppo, rispetto ad alcune occasioni in cui un po’ di voce grossa in campo sarebbe stata necessaria, sull’esempio di coach come Obradovic - Simone Pianigiani è un allenatore che non esita mai a difendere i propri giocatori attirando su di sé le critiche dell’ambiente attorno a lui, a volte anche tramite concetti ed espressioni retoriche che sono poi diventate autentici tormentoni. Forse anche per questa sua caratteristica l’ex allenatore della Nazionale si potrebbe ritrovare, ammesso che non lo sia già ora, nel ruolo del perfetto capro espiatorio di una stagione e un esito che ha bisogno di trovare un perché.
Le responsabilità oggettive esistono, esattamente come quelle soggettive a seconda della visione che un tifoso o un addetto ai lavori può avere della pallacanestro. Ed è plausibile, specie se dovesse esserci discontinuità tecnica con l’era Proli, che queste possano portare, nonostante la conferma pronunciata dopo il ko di Sassari, a un’interruzione del rapporto con il coach nativo di Siena, che diventerebbe il quarto allenatore consecutivo (dopo Sergio Scariolo, Luca Banchi e Jasmin Repesa) a chiudere dopo due anni la sua avventura con l’Olimpia Milano.
Per l’eventuale sostituzione circolano molti nomi suggestivi, che sulla carta possono vantare carriere di livello superiore a quello di Pianigiani, ma pensare che basti l’addio all’ex ct azzurro o al presidente amato-e-odiato dai tifosi per spazzare via i perché di questa stagione sarebbe superficiale. Milano ha mancato il back-to-back tricolore perché, contro una Sassari lanciata da una striscia record di risultati utili consecutivi, è stata la squadra sbagliata al momento sbagliato. Per evitare di esserlo nuovamente in futuro potrebbe non bastare trovare una risposta adeguata alle domande di questo articolo, perché potrebbe essere vitale iniziare a vivere la vittoria non come una ossessione (per budget, blasone o potere) ma come una motivazione. Come lo è stato nei momenti più belli di questa stagione.