Nei momenti d’ozio, quelli meno attesi, - in cui la mente apparentemente si riposa concentrandosi su cose semplici: la spiaggia, il mare, un tuffo, un libro da leggere; scene da una domenica d’agosto abbastanza classica – quelli dai quali non ti aspetti niente se non un minimo d’abbronzatura, arrivano le illuminazioni più incredibili, quelle in grado di orientare i tuoi pensieri lontano dai binari consueti, capaci di annullare le tue convinzioni più profonde e di indirizzare il tuo sguardo molto più in là di dove si era spinto fino a oggi. Per usare una metafora facile da applicare al calcio, potremmo dire: l’illuminazione che allarga il campo di gioco, ampliando lo scenario e lo spettro delle possibilità, o lo spazio, fino a ricoprirlo di immaginario, di chiaroscuri, di infinito.
Ero in spiaggia, l’ho già dichiarato, leggevo un romanzo sorprendente: Olegaroy (gran via, 2022, trad. di Stefania Marinoni) dello scrittore messicano David Toscana, un libro il cui protagonista si trova invischiato nella storia di un delitto, partendo dalla lettura di una notizia su un quotidiano. Il personaggio è surreale, soffre di insonnia e comincia a vivere una storia notturna, con un matematico, una prostituta, un prete e il cadavere della vittima. Non è la sede per parlare del libro, basti sapere che Olegaroy (che è un nome) nelle sue giornate convulse e notti insonni, in questa avventura, prende a enunciare frasi che diventano teorie filosofiche, commentate nel tempo dai maggiori filosofi, matematici e scienziati di ogni tempo. Una di queste, teorizzata in seguito alla scoperta della tragedia del Grande Torino e della morte – insieme agli altri – del calciatore più forte, Valentino Mazzola, la pronuncia dopo essersi infilato in una partita di calcio senza conoscerne né le regole, né gli scopi. Corre invano, inciampa, domanda, ma nessuno risponde, anzi lo scacciano, lo prendono in giro. Uno dei quesiti a cui nessuno risponde è la mia illuminazione caduta nella giornata balneare ed è questa: «[…] ma cos’era un gol? Nessuno seppe spiegarlo». Tutto lo sciorinato, letto, raccontato, per il quale ho gioito o sofferto, è venuto a cadere, perché ho capito di non saperlo e che nemmeno io a Olegaroy avrei saputo spiegarlo. E allora: cos’è un gol?
In una poesia molto celebre, Umberto Saba scrive: «Pochi momenti come questi belli, / a quanti l’odio consuma e l’amore, / è dato, sotto il cielo, di vedere», sono i tre versi che chiudono la strofa centrale, la poesia si intitola proprio Gol. La gioia è esplosa poco prima, qualcuno ha segnato, Saba fissa i festeggiamenti dei tifosi e dei calciatori nei versi precedenti ma è in questi tre che pone il gol al di sopra di quasi ogni cosa. Se l’odio consuma come l’amore, cioè, mentre le cose della vita evolvono, stanno, avvengono, sono pochi i momenti belli, di gioia pura, da vedere sotto il cielo. Sembrerebbe che per Saba il gol sia quasi tutto, un’altissima manifestazione della gioia: pura e semplice. Ma il gol è davvero gioia? Intanto è gioia per un numero limitato di soggetti: il calciatore che ha segnato, i suoi compagni di squadra, l’allenatore, lo staff, i tifosi, presenti allo stadio o meno. Ammettiamo che si tratti di gioia, questo sentimento non può corrispondere mai all’equazione: gol=gioia, mai. Intanto laddove per alcuni è gioia per altri sarà dispiacere, sofferenza, dolore, e – in tutti i casi – non può essere un sentimento a definire il gol; l’emozione, qualunque sia, è soltanto una conseguenza. Umberto Saba in quei tre versi offre una meravigliosa prospettiva di una possibile conseguenza.
foto di Jeff Gross/Getty Images
Di possibilità mancate scrive Giovanni Raboni in una sua poesia intitolata Zona Cesarini, e la comincia così: «Il tiro, maledizione, ribattuto / sulla linea nell’ultima convulsa / mischia a portiere / nettamente fuori casa, fuori causa, col dito / mignolo, con la spalla, con l’occipite, con / la radice del naso / dell’avversario accorso, guarda caso, / da metà campo […]»; è l’ultimo minuto e il gol che sembrava fatto invece non è, nonostante il portiere battuto, nella mischia sotto porta, ma chi ribatte sulla linea sembra essere non un centrocampista, ma una figura quasi mitologica calata sulla linea di porta da chissà dove, che respinge in qualche modo, nel formidabile elenco che traccia Raboni. Qui il gol che non viene genera l’opposto del sentimento di cui parla Saba, la felicità pura qui diventa l’orizzonte che s’abbassa, la delusione che sale, la possibilità che svanisce e infatti Raboni - rimandando tutto al giorno prima, alla fantastica pace del ritiro, agli schemi ribaditi dal mister – scrive: «tutto», lo isola «anche vincere», prosegue, fino ad arrivare alla chiusura «stendere le braccia al cielo era possibile». Di nuovo il cielo come per Saba, ma stavolta irraggiungibile, perché le braccia esultanti non hanno potuto levarsi verso l’alto. Il gol che non si realizza lo sappiamo cos’è? Io credo di no, ci sfugge sempre il momento.
Certo, mi direte: il gol è il nome che diamo al pallone che ha superato la linea di porta. Davvero è soltanto questo? Davvero ce la dobbiamo mettere via? Maradona, Zidane, Messi, Batistuta, Crespo, Beckham, ogni volta hanno solo preso una sfera e l’hanno fatta rotolare al di là di una linea bianca? Mi dispiace, non me la bevo e non credo possiate berla nemmeno voi.
Fatto sta che io cosa sia il gol, come nel romanzo di David Toscana, non so spiegarlo, deluderei Olegaroy come chiunque altro. Ma conosco delle storie che forse spiegano cosa accade prima o dopo affinché noi si esca pazzi (permettetemi la costruzione partenopea) per un gol.
Se stiamo al tempo, sappiamo che il gol è costruito dal passato: dagli schemi, da un’azione, da un’intuizione, dalla fantasia, dalla casualità. Tutto questo avviene prima ma porta (o può portare, o porterà) al gol. Di un gol sappiamo quasi con certezza quello che avviene prima. Ancora adesso dubitiamo di un’azione: come è stato possibile? Diciamo. Vuoi per troppa bellezza, vuoi per l’eccesso di causalità, vuoi perché non crediamo possibile che tal giocatore - che reputiamo modesto, che non segnava da sei mesi, che non ha i piedi buoni – all’improvviso, al minuto 89 abbia fatto con una rovesciata perfetta dal limite dell’area. Oppure, nel caso di gol mancato dal fuoriclasse: Totti che calcia fuori un rigore, van Basten che sbaglia a porta vuota, Messi che dopo aver dribblato anche il portiere calcia fuori. Siamo di nuovo stupefatti, il gol non c’è stato, eppure tutto era scritto affinché si verificasse, eppure Messi l’ha messa fuori.
L’esultanza o la delusione pertengono al futuro. Il fatto è avvenuto, la palla è entrata, il nostro attaccante preferito ha segnato e ha rimesso in piedi una partita che stava andando malissimo. E ha fatto un gol bellissimo, destinato a mille replay che guarderemo e riguarderemo con calma, qualche volta piangeremo, perché davanti alla bellezza qualche volta piangiamo. Un gol di tacco vale quanto trovarsi davanti a un Picasso, magari non alla lunga ma per un istante sì. Il nostro attaccante non ha segnato, il futuro del gol è in assenza, un tempo - per il tifoso - ingrato.
Siamo nel presente, la palla supera la rete, è gol, ma che cos’è? Potremmo dire che è la fine di qualcosa? Forse sì, ma potremmo comunque smentirci da lì a poco. Io stesso in una vecchia poesia che racconta un gol di Maradona all’Inter - spiegando l’illusione del tempo infinito (così sembrò) (e tutti quanti restammo senza fiato) durante il quale Maradona trattenne la palla sul petto, prima di farla scendere e fulminare Zenga – ho scritto che il gol è sempre la fine di qualcosa, ma subito dopo (intuendo forse ciò che ancora non sapevo) ho aggiunto che in quella occasione ha riavviato il tempo, in precedenza sospeso da Maradona, da Giordano che aveva crossato, da Beppe Baresi che non aveva provocato rigore, da Zenga che – con tutto lo stadio attendeva – il momento. Se il gol è sia la fine di qualcosa sia il riavvio di ciò che si era interrotto, come il respiro, come il tempo così come lo concepiamo allora non può esistere, non sta dove esistono le cose con cui abbiamo sempre a che fare. Sta da un’altra parte, forse ha a che fare con il mistico, è come se la linea della porta fosse un tratto che separa la vita dalla morte (tutto metaforico, calma). Perciò il gol agendo su un confine così impercettibile, incomprensibile, non tangibile, non esiste. Non è materia, possiamo spiegarcelo solo con il sogno, ma anche lì è tutto così sfumato che non sapremmo raccontarlo bene. Come nelle vecchie partite giocate nella nebbia: è entrata o non è entrata? Chi ha calciato? Dov’è la palla? Da che lato giocano i nostri? I nostri chi sono?
Va bene, non so cosa sia il gol in sé, ma so cosa rappresenta, conosco le emozioni, posso costruirci sopra e intorno qualunque cosa, perché il gol – come una bella poesia, il ritornello di una grande canzone – è sempre un colpo al cuore, come tutte le cose semplici e perfette che non saremmo in grado di ripetere ma solo di ammirare. Caro Olegaroy forse ti ho deluso anche io, ma immagino che la faccenda della vita e della morte ti piaccia, forse è davvero questione di una sfera che rotola oltre la linea o che non ce la faccia.
Foto di Tim Keeton - Pool/Getty Images
Nello stesso romanzo, Olegaroy si domanda: «Quanta gente è morta nei nostri sogni?», e chi lo sa, e quanti gol abbiamo solo sognato? Forse sono addirittura di più di quelli che abbiamo visto realizzati. E i gol solo sognati sono meno importanti? Non proviamo forse la stessa intensa emozione immaginando un gol magistrale per anni? Sognato frame per frame, dettaglio per dettaglio, passaggio per passaggio, fino al tiro. Messi dopo quasi un miliardo di gol ha segnato per la prima volta in rovesciata. Nessuno di noi lo sapeva fino a quando lo ha raccontato Fabrizio Gabrielli. Perché? Perché quando abbiamo sognato un gol di Messi, lo abbiamo sognato anche in rovesciata, al punto da convincerci d’averla visto. Abbiamo fatto esistere qualcosa di non esistito, abbiamo costruito un falso su qualcosa che già non avviene. Un gol che non c’è tra tutti gli altri.
«Anche i calciatori muoiono», afferma Olegaroy, prima di addormentarsi in una sala per cerimonie funebri. Quando si sveglia, si accorge che gli hanno appuntato addosso un biglietto: «Il cadavere di Valentino Mazzola». I calciatori muoiono, i gol non si realizzano, e – in ogni caso – esistono senza poter essere spiegati, questo fa sì che si accomodino tra le faccende che chiamiamo miracoli, la cosa ci inquieta e ci rasserena allo stesso tempo, perché non è così importante ma è meravigliosa.
In una poesia bellissima, il poeta americano Charles Simic scrive: «Un’ampia scelta di vite passate / in mezzo a cui frugare», lui non lo sa, ma è la definizione più vicina al gol che io abbia mai sentito.