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Cosa fa un manager di MMA, intervista ad Alex Dandi
24 ago 2020
Assistere i fighter in UFC è un compito difficile.
(articolo)
6 min
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In un sondaggio che ha coinvolto 170 atleti di MMA in forma anonima, The Athletic ha chiesto il livello di soddisfazione dei fighter per l’operato dei manager che li assistono. La maggior parte dei combattenti intervistati (44,1%) ha dichiarato di pensare che questi professionisti non rappresentino adeguatamente i loro interessi (contro il 40,6% che ha risposto affermativamente e il 15,3% che non sa/preferisce non rispondere).

In media un fighter cede dal 5 al 25% della propria borsa per un incontro al proprio manager, cifra che arriva al 20% del totale quando si tratta di contratti di sponsorizzazione procurati dai manager stessi. Ma al di là del lato economico, la sensazione diffusa di insoddisfazione nei confronti della categoria sembra nascere da diverse motivazioni. I rapporti tra questi ultimi e il promoter di riferimento ad esempio: secondo un competitor di UFC raggiunto da The Athletic, spesso i manager temono di imporsi con i promoter stessi perché hanno paura di future ripercussioni sugli altri atleti che gestiscono.

In generale è difficile per gli atleti avere chiare le caratteristiche che deve avere “un buon manager” e quindi fidarsi di una persona esterna. Un manager di MMA necessita di competenze a trecentosessanta gradi: intuito, diplomazia, abilità nelle contrattazioni, conoscenza delle leggi in materia fiscale, capacità di relazionarsi con gli atleti, e svariate altre. Invece spesso i manager che operano nelle MMA possiedono una sola di queste peculiarità: c’è chi è specializzato nello scouting, chi invece ha fiuto per rilanciare i veterani o chi sa bene come costruire un contendente al titolo. Molti fanno promesse che non sono in grado di mantenere. Altri sono bravissimi a portare gli atleti in UFC, altri ancora a strappare le borse migliori una volta nell’organizzazione. Tanti invece hanno esperienza nella negoziazione di contratti di sponsorizzazione ma non sanno contrattare per gli incontri. Insomma, è difficile trovare un manager competente in ogni aspetto del suo lavoro che è molto complesso. Un fighter UFC ha dichiarato a The Athletic: “Ci sono diversi manager che sono bravi a fare cose differenti, non ne esiste uno capace di gestire tutto. Il migliore? Dipende dalla fase della carriera in cui ti trovi e i risultati che stai cercando di raggiungere”.

Anche il fatto che non sia prevista nessuna certificazione per dichiararsi manager di MMA ha finito per creare confusione, oltre che dare spazio e campo di azione a ciarlatani e soggetti improvvisati, soprattutto in passato, conosciuti come dirty manager. Brian Butler, fondatore e CEO di un management che rappresenta più di 200 atleti di MMA e che opera da 13 anni, ammette, come riporta The Athletic che “Ci sono tanti manager in questo business che hanno contribuito a diffondere una pessima reputazione del nostro lavoro”. Diversi professionisti del settore preferiscono favorire la quantità rispetto alla qualità: rappresentare tanti atleti, ma fare davvero gli interessi di pochi, oppure sacrificarne qualcuno per migliorare i rapporti con la promotion e ottenere così chance maggiormente vantaggiose per le punte di diamante del roster.

I fighter desiderano manager che abbiano davvero a cuore i loro interessi, che siano onesti e sinceri, in grado di onorare le promesse fatte, e che soprattutto lavorino abbastanza da giustificare le percentuali incassate dalle borse per gli incontri o dagli accordi di sponsorizzazione. Dan Lambert, fondatore dell’American Top Team, ha confessato a The Athletic: «Sento un sacco di combattenti che dicono: “Tutto ciò che il mio manager fa è telefonare alla promotion per dire che sì, accetta quel match, per poi chiamarmi e riferire che combatterò in una certa data. E per questo si prende il 10% della mia borsa”».

Considerando l’altro lato della medaglia, occorre ricordare che il rapporto atleta-manager non è semplice. I fighter sono persone particolari con cui avere a che fare, con i loro caratteri, personalità, pretese e necessità, a volte sopra le righe, difficili da gestire. Viceversa cercano una buona reputazione, intenzioni chiare e trasparenti, competenze e risultati nei manager che scelgono. Diversi addetti ai lavori definiscono la relazione tra un manager e il loro assistito come un vero e proprio matrimonio, in cui vi sono impegni reciproci, una comunità di intenti e un rapporto che dovrebbe superare momenti critici e di divisione per un legame destinato a durare una carriera intera.

Abbiamo sottoposto la questione ad Alex Dandi, CEO, Founder e Owner di Italian Top Fighters Management, oltre che ex consulente di UFC, telecronista per DAZN e promoter di Italian Cage Fighting, che organizza incontri di MMA nel nostro Paese.

Da addetto ai lavori pensi che le fonti citate in questo articolo fotografino una situazione realistica inerente al lavoro dei manager e del loro rapporto con gli atleti?

Viene riportato in gran parte il punto di vista dei fighter, quindi è inevitabile una componente di parzialità. Gli atleti possono essere influenzati da tanti fattori, uno su tutti il momento della carriera che stanno attraversando. Chi sta vivendo un ottimo periodo ed è contento della propria situazione contrattuale con UFC o Bellator MMA tenderà a dirsi soddisfatto del lavoro del suo manager. Al contrario un fighter a fine contratto, infelice del trattamento economico ricevuto dalla promotion, probabilmente si pronuncerà contro la stessa figura professionale. Per il resto sono dati interessanti, utili, perché dalla sottile distanza percentuale tra chi si sente adeguatamente rappresentato e chi invece no emerge come i combattenti non sappiano davvero di cosa si occupino i manager. E ciò rende più facile approfittarsi di loro.

Credi che una regolamentazione del settore (dal rilascio di patentini fino a un organo di controllo) possa migliorarlo?

Assolutamente sì. È un ambiente dove regna l’anarchia. Bisogna però capire in che modo verrebbe attuata un’eventuale riforma, sarebbe anche una delicata questione politica. Se ad esempio essere un manager in regola comportasse una serie di spese considerevoli, come versare 50 mila dollari alla tale Commissione Atletica per iniziare a operare, rafforzerebbe ancora di più la creazione di un monopolio dei grandi management che è già in atto, gli unici a potersele permettere. Messa così rischia di diventare un provvedimento elitario che fotografa la situazione in cui ci troviamo ora, dove dieci manager si spartiscono la fetta più grande. Ma dall’altro lato una regolamentazione serve, anche perché la situazione attuale rischia di rivelarsi controproducente per i fighter: perché un manager che assiste 80 atleti dovrebbe riuscire ad essere moralmente integro in assenza di regole e tutelare davvero i propri assistiti? Tanti combattenti non si fidano dei propri manager perché il sistema non li fornisce di controprove che dimostrino il buon lavoro di chi li assiste.

Mi viene in mente lo strano modo in cui sono stati trattati i nostri connazionali Danilo Belluardo e Carlo Pedersoli Jr in UFC.

Penso sia un caso esemplare. Sono stati tagliati dalla promotion dopo aver accettato con poco preavviso due co-main event molto impegnativi. In teoria UFC avrebbe dovuto tener conto del fatto che i due si fossero prestati a short notice con avversari duri, salvando l’antipasto dell’incontro principale in entrambe le occasioni. Sono convinto che non ci sia stata malafede da parte di UFC: i matchmaker che lavorano nell’organizzazione hanno più che altro l’esigenza di chiudere le card in tempo. ESPN (l’emittente televisiva che trasmette UFC in America, nda) pattuisce con la promotion di versare una certa cifra in cambio di un evento composto da un numero prestabilito di match, quindi gli incontri in un modo o nell’altro devono essere quelli decisi nel contratto. Quando ne salta qualcuno, la priorità diventa trovare sostituti.

Inoltre UFC ha un budget entro cui deve mantenersi, per cui se firma un atleta in più rispetto alla cifra prevista, deve tagliarne un altro. Da contratto UFC deve proporre a ogni fighter tre incontri all’anno, che l’atleta può valutare se accettare o meno, altrimenti come penale deve comunque pagare la borsa dei match che non gli ha sottoposto. I fighter che in UFC si lamentano di guadagnare poco evidentemente hanno rifiutato diversi avversari, magari perché infortunati, oppure per ignoranza, perché non conoscono questa regola.

Interessante. Ma cosa pensi sia accaduto con i due atleti italiani?

Sono stati davvero trattati male, ma non dalla promotion. Cosa è successo non posso dirlo con certezza, posso ipotizzare. Entrambi avevano management internazionali di grandi dimensioni, con tanti atleti, e contemporaneamente al licenziamento dei nostri connazionali è capitato che firmassero con UFC altri fighter della stessa scuderia. Questo significa, probabilmente, che i fighter sono stati usati come merce di scambio: mi licenzi Tizio su cui non punto più, e in cambio però firmi Caio che penso possa fare meglio. Anche perché è molto strano che la promotion tagli atleti chiamati all’ultimo, sfavoriti in quegli incontri e che hanno salvato il co-main event. Nella mia recente esperienza con UFC ho riscontrato una buona disponibilità dell’organizzazione in questo senso: se gli fai un “favore” accettando una chiamata in short notice, sono ben disposti poi a darti un’altra chance nel caso in cui vada male. In generale finché si parla in termini ragionevoli c’è ampio spazio per dialogo e negoziazioni.

Anche perché i professionisti che assistono ottanta-cento atleti credo abbiano un altro modello di business, improntato alla quantità più che alla qualità, e meno attento a fare gli interessi del singolo fighter, se non abbastanza remunerativo.

Guadagnano sulla massa, possono avere anche combattenti di livello medio-basso, nelle card preliminari in UFC, ma se sono tanti portano comunque buone entrate. Economicamente è una logica sostenibile. In UFC, come in Bellator MMA, seppur con cifre diverse, funziona così: al primo contratto un fighter prende 10 mila dollari per il match, e se vince raddoppia (entrate dallo sponsor della promotion, Reebok, escluse). Se l’atleta porta a casa il risultato, nell’incontro successivo percepisce una borsa maggiorata di, ad esempio, 2 mila dollari + altri 2 mila in caso di nuovo successo. Quindi 12+12. E via così, se continua a vincere arriverà a 14+14, 16+16, 18+18. Se perde, rimane fermo alla somma percepita nell’ultima borsa. Ci sono fighter che vincono tanto, ma magari spesso ai punti e che non convincono con le loro prestazioni o non entrano nel cuore dei fan. Però, a causa dei buoni risultati agonistici, hanno contratti onerosi. Se a 18+18 il contratto del nostro combattente con uno stile noioso scade, UFC probabilmente glielo rinnova con uno scatto nella cifra che arriva a 24+24, riconoscendo il merito sportivo e sperando che nel futuro possa evolversi in un fighter più spettacolare. Se ciò non avviene, le conseguenze sono amare.

Chiaro, continua.

Insomma, non di rado la promotion si trova fighter che guadagnano anche 80 mila dollari a incontro (in caso di vittoria) ma che non convincono per niente l’organizzazione. Per questo UFC ha interesse a tagliare l’atleta diventato ormai oneroso, ma con poco seguito e firmare un nuovo prospetto, ripartendo dal contratto base. Ci sono fighter che sono in UFC da anni, ma hanno magari pochi follower su Instagram e quindi sono di scarso valore commerciale.

Questo per dire: perché tagliare subito Belluardo o Pedersoli? Non erano fighter dal contratto economicamente pesante per UFC. Nell’organizzazione erano delusi dalle loro prestazioni (Belluardo ha perso entrambi i match disputati nella promotion, Pedersoli ha vinto il primo ma perso gli altri due, nda)? Ma UFC dà molte occasioni di rifarsi a diversi atleti, guarda anche il mio assistito Alen Amedovski (che ha due sconfitte su due incontri in UFC, nda).

E allora cosa può essere stato?

Mi sembra strano che questi ragazzi abbiano avuto un trattamento così brutale da parte della promotion. Credo il loro management abbia agito con leggerezza, anche se non sono situazioni semplici. UFC avrà chiesto ai manager in questione: “Hai un fighter da mettere in card? Sì? Ottimo. Però in questo momento dobbiamo tutelare il budget e fare delle scelte. Che ne dici se tagliamo Belluardo e prendiamo il ragazzo che ci hai suggerito adesso?”. È una proposta logica, ed è questione di scelte. Anche la morale può avere un ruolo. Chiaramente più atleti gestisci e più è facile attuare queste strategie a cuor leggero, perché hai un rapporto a distanza con loro, non sei coinvolto a livello personale. È difficile che nasca il desiderio di battersi davvero per la causa e difendere un’atleta con cui non condividi un percorso, si fa prima a sostituirlo con un altro. Se invece rifiuti hai tutelato il tuo atleta, ma hai tolto un’opportunità a un altro. Per questo mi astengo da giudizi, ma funziona così.

Abbiamo contattato Jason House, CEO e Founder di Iridium Sports Agency, la società che gestiva gli interessi di Danilo Belluardo quando era in UFC, chiedendogli un commento sulla vicenda. House ha letto il nostro messaggio ma ha preferito non rispondere.

Nel sondaggio di The Athletic emerge come i fighter si lamentino dell’operato dei propri manager. Ma proviamo a cambiare prospettiva: è così semplice per un professionista avere a che fare e rapportarsi con questa tipologia di sportivi?

Dipende, è difficile fare un discorso generale. Sicuramente ci sono dei tratti comuni: un combattente di solito è una persona molto determinata, con un’alta stima di sé stesso e che crede fortemente nelle proprie capacità. Insomma, mentalmente sono strutturati, duri, che spesso significa anche poco flessibili. Ferire l’ego di un fighter è facile, anche involontariamente, ci vuole molta diplomazia. Noto che gli atleti desiderano un manager, ma poi tendono a volersi autogestire e considerano chi fa i loro interessi come una sorta di agenda umana, ovvero una figura utile per i suoi contatti da per fare carriera, ma che a livello di scelte assecondi il combattente. Ovviamente non è così, è una visione distorta. Ci dev’essere molto dialogo e comunicazione per capirsi al meglio. Credo sia anche dovuto alla reputazione negativa che ha il manager nell’immaginario collettivo, cioè di una persona che si occupa di sport, musica o spettacolo. Se ci pensi, nei film sono sempre rappresentati come i cattivi, quelli che tramano dietro le quinte, che vogliono fregare i propri assistiti. Nelle discipline da combattimento poi ci sono state figure come Don King, oppure le infiltrazioni mafiose nel mondo della boxe durante il secolo scorso. Sono nati tanti stereotipi duri a morire.

Quindi i combattenti sono davvero le vittime del sistema?

A volte ci mettono anche del loro. Considera che oggi è più difficile circuire un atleta. Le promotion versano le borse direttamente ai fighter, che poi danno al manager la percentuale pattuita. Conosco tanti colleghi in Inghilterra che hanno dovuto chiudere baracca e burattini perché i combattenti non li pagavano. In realtà i fighter sono molto tutelati se stessero attenti e si preoccupassero di capirne qualcosa in più di questo business, che li riguarda da vicino. Ad esempio i contratti che firmano non sono tutti uguali: se un combattente italiano si affida a un management americano e sigla un accordo scritto in inglese, spesso senza limiti di scadenza, il foro competente in caso di controversie saranno gli Stati Uniti. A meno che l’atleta non abbia risorse da investire in una eventuale causa, ciò significa che di fatto sta affidando la sua intera vita sportiva nelle mani del manager, senza neanche esserne consapevole. In America difficilmente i contratti prevedono una fine, c’è sempre una clausola che prevede l’invio di una raccomandata da parte del fighter per sciogliere il rapporto, ma poi la prassi è ben diversa. Nel senso che poi, e ti parlo di uno dei management più importanti del mondo, per non svincolare il fighter evitano di ritirare la posta e non ti firmano le raccomandate con ricevuta di ritorno. È un mix tra la spregiudicatezza di certi manager e l’ingenuità di molti combattenti.

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