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Cosa ha fatto di male Jannik Sinner?
25 set 2023
Le critiche nei suoi confronti dicono più su di noi che su di lui.
(articolo)
15 min
(copertina)
Danielle Parhizkaran / Imago
(copertina) Danielle Parhizkaran / Imago
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Jannik Sinner è un caso nazionale, non ce ne eravamo accorti finché Sportweek, inserto settimanale della Gazzetta dello Sport, non ci ha fatto il titolo di copertina. Una prima pagina che è solo il coronamento di una sorta di campagna mediatica che il principale quotidiano sportivo italiano ha montato nelle ultime settimane. Prima due editoriali in due giorni (14 e 15 settembre) sul quotidiano e poi tre grandi articoli sul settimanale Sportweek. Il motivo sarebbe la rinuncia di Sinner alla convocazione all’ultimo turno di Coppa Davis, la competizione a squadre che si è giocata a Bologna qualche giorno fa. Il sottotitolo di Sportweek recita: «Perché il numero uno del nostro tennis ha sbagliato a dire di no alla Coppa Davis. I grandi campioni del passato, da Pietrangeli a Panatta, spiegano che alla maglia azzurra non si rinuncia».

È curioso che un grande quotidiano come la Gazzetta lanci degli attacchi così decisi contro uno sportivo italiano di così alto profilo. Abbiamo fatto l’abitudine ad articoli critici, talvolta velenosi, contro atleti per qualche motivo antipatici, ma non c’era mai stato niente di così esplicito e prolungato, e quindi di così violento. Negli articoli si invita Sinner persino a chiedere scusa, giocando con la traduzione del suo nome (Sinner=peccatore); si dice che dovrebbe scusarsi «per non essere stato all’altezza di quello che avrebbe dovuto essere». Scusarsi, secondo questo editoriale firmato dal direttore, sarebbe per Sinner come vincere uno Slam. È un attacco difficile da capire, che sembra del tutto sproporzionato alle presunte colpe di Sinner. Allora forse questi attacchi nascondono un problema più grande, nel rapporto tra questo Paese e il suo miglior tennista, e che va ben oltre la Gazzetta.

Cominciamo da una cosa semplice: la Coppa Davis è un torneo ormai marginale in un calendario tennistico sempre più fitto. Come quasi in tutti gli sport, anche nel tennis si gioca troppo, e i tennisti sembrano vivere più di altri atleti una lotta contro il logoramento del proprio fisico. Veniamo dallo swing americano sul cemento, uno dei periodi fisicamente più duri dell’anno. Abbiamo visto i giocatori con i caschi di ghiaccio a bordo campo, dire alla telecamera: “Oggi qualcuno morirà”. Mai come in quest’epoca il tennis somiglia a uno sport estremo, tra cambiamento climatico e ritmi di gioco insostenibili. Avere delle settimane di riposo è fondamentale per recuperare in vista degli impegni successivi, ma anche per preservarsi dagli infortuni. È qualcosa di particolarmente importante per un giocatore come Sinner, che ha nella fragilità fisica uno dei suoi problemi più grandi - e che infatti viene messo a processo dagli stessi giornali anche quando si infortuna, come se i problemi fisici fossero una colpa. «Non ho avuto tempo di recuperare dopo i tornei in America, ma tornerò presto in Nazionale», ha spiegato il tennista in un post sui social.

Non è solo una questione di calendario, però, se i significati e i valori della Coppa Davis oggi sembrano sbiaditi. Di base, la Davis vive la contraddizione di essere una competizione a squadre in uno sport individuale. Una contraddizione che può essere più o meno nobilitata, a seconda dell’importanza che le epoche vogliono dargli.

L’idea del suo formato è quella dei “moschettieri”, dei grandi solisti che si riuniscono per difendere i colori nazionali. Un’idea un po’ novecentesca, che ha continuato ad avere senso finché lo sport è stato usato soprattutto con scopi di propaganda nazionalistica. L’amore del pubblico italiano verso la Coppa Davis nasce soprattutto dalla squadra vincitrice degli anni ’70, la nostra epoca d’oro, rinfocolato dalla recente, splendida, docuserie di Sky: Una squadra. Quel trofeo ha rappresentato l’apice di un movimento tennistico italiano storicamente avaro di grandi successi. Ci si riferisce a quello - alla leggendaria finale in Cile giocata in maglia rossa - come a un evento leggendario, un’epoca a cui le - talvolta attempate - redazioni dei giornali sportivi continuano a guardare con nostalgia. Il servizio su Sportweek rievoca proprio quel paradiso perduto: “Parola alla squadra” comincia il servizio. Oggi che la Coppa Davis non riveste più questa importanza, in quest’epoca senza grandi narrazioni collettive, il calendario non è più fatto in sua funzione. È uno di quei tornei che diventa interessante dalle semifinali in poi, e che non segue più quasi nessuno. Sapreste indicare le ultime 4 o 5 squadre vincitrici della Coppa Davis?

Da ormai 7 anni il torneo non assegna più punti ATP e per i tennisti è soprattutto un sacrificio. Un sacrificio che la maggior parte fa volentieri, ma comunque un sacrificio. I punti, del resto, erano stati inseriti nel 2009 per provare a dare una motivazione in più ai giocatori, con scarsi risultati. La manifestazione è assediata da altre competizioni a squadre: la ATP Cup e la Laver Cup, che si giocherà nei prossimi giorni. Come per altri tornei in crisi, si discute di continuo di modifiche regolamentari, come l’idea di farla giocare ogni due anni per accrescerne il prestigio.

La crisi della Davis è conclamata, e da anni ci si agita con modifiche che possano rendere il formato un tantino meno novecentesco. Ci si è piegati pian piano, a fatica. Dal 2016 è stato inserito il tiebreak nel quinto set - che fino a quel momento si poteva giocare a oltranza. Dal 2019 si gioca al meglio dei tre set, e gli impegni sono stati ficcati a forza in tre settimane di calendario in punti più o meno distanti dell’anno.

Oggi la Davis non sembra nemmeno più provare a recuperare un’ombra di quell’epica che aveva mezzo secolo fa. Cerca solo di farsi piccola piccola nel calendario, più innocua possibile. È lontano il ricordo di Gaudenzi che gioca con la spalla uscita il doppio decisivo contro la Svezia, di Panatta e Bertolucci contro il Cile di Pinochet. Il torneo è ormai ridotto a una festività in famiglia: un incomodo che nessuno vuole, che ci si augura passi più in fretta possibile.

Per i tennisti italiani, poi, è diventato un impegno particolarmente scomodo, perché era appunto da mezzo secolo che non avevamo una squadra così forte, ed è salita una pressione quasi burocratica da parte dei giornali. C’è la Davis > abbiamo questa squadra > dobbiamo vincere. Il palazzetto a Bologna era pieno, mentre altrove la Davis continua ad attirare un interesse relativo. Stan Wawrinka ha accusato l’ITF di pagare il pubblico per assistere agli incontri - accusa assolutamente non verificata ma che comunque dà l'idea di quanto poco venga considerata questa competizione dagli stessi tennisti.

In queste settimane si è giocata la fase a gironi, in cui l’Italia si è qualificata grazie alle partite di marzo. Non era un dramma saltare poi questo turno, tornando nella fase finale. Nel girone c’erano Svezia, Cile e Canada. L’avversario più temibile in linea teorica era il Canada campione uscente, ma senza Felix Auger-Aliassime e Denis Shapovalov poteva schierare in singolare Diallo (numero 158 del ranking) e Galarneau (numero 200). Musetti e Sonego sono riusciti nell’impresa di perdere entrambe le proprie partite. Poi sono andati in conferenza a dire che avevano dato tutto, perdendo da avversari scomodi. Erano tranquilli: i giornali nel frattempo stavano picchiando duro su Sinner, che quelle partite non le aveva giocate. La sconfitta contro il Canada, contro quegli avversari, era colpa della sua assenza. La Gazzetta cita le altre assenze di Sinner in Davis, praticamente tutte a seguito di infortuni ma che importa. «Non si fa così», si scrive in coda al giornale.

Eppure le assenze dei grandi tennisti nella prima fase di Coppa Davis sono comuni. Nell’Italia oltre a Sinner mancava Berrettini, andato solo in panchina con la squadra. Alcaraz, portato spesso come esempio screditante nei confronti di Sinner, ha detto che aveva bisogno di riposarsi. Novak Djokovic, forse il più patriottico tra i tennisti di oggi, è stato spesso costretto a rinunciare alla Davis. E infatti il serbo ha preso le difese di Sinner e Alcaraz in conferenza: «Le assenze in questa competizione sono normalità, non vanno attaccate. (…) Giriamo il mondo tutto l’anno, giochiamo tanti tornei e spingiamo il corpo al limite. A un certo punto è utile riposare».

Eppure in Italia l’inquisizione nei giorni ha assunto toni surreali, scollegati dalla realtà. Adriano Panatta, di solito commentatore raffinato, lo ha incalzato: «Ha rinunciato perché era stanco? E Bagnaia che a tre giorni dall’incidente era già in moto?». Un paragone tra un motociclista un tennista, a questo punto si poteva tirare fuori il paragone con l’operaio che si sveglia alle 5 del mattino. Pietrangeli, sempre estremamente severo verso i tennisti italiani, ha addirittura invocato una squalifica per Sinner.

È vero: sono critiche che si sono lette solo su Gazzetta, ma questi attacchi, però, non nascono dal nulla. Sono articoli consci di attecchire su una parte velenosa dell’opinione pubblica spesso pronta a criticare Sinner e i campioni sportivi italiani in generale. Sotto al post in cui Sinner annunciava il forfait la maggioranza dei commenti era di sostegno, ma c’era una parte più piccola, ma tossica, che lo accusava di scarso attaccamento alla maglia azzurra. Il giornale, però, ha intercettato proprio quella minoranza e ci ha costruito un caso, forse con l’obiettivo di attirare l’attenzione e di vendere qualche copia in più. Il problema, in questo caso, però non è solo che questa campagna abbia basi poco solide ma che produca anche l'effetto di alimentare il revanscismo sovranista che già si respira in Italia. Noi ci viviamo dentro e forse è una realtà che per molti è diventata invisibile, ma vale la pena ricordarlo qui: l'Italia è quel Paese dove il libro di un generale dell'esercito in cui si reclama il “diritto all’odio” e si evoca lo spettro della lobby gay internazionale è uno dei più venduti del decennio.

Va fatto un discorso che va ben oltre i giornali. I campioni sportivi sono un bersaglio semplice, attorno a cui far crescere questi sentimenti come erba cattiva: sono considerati ricchi e viziati, dei privilegiati assoluti. Devono quindi passare la loro carriera a dimostrare di meritare quel privilegio, oppure a mostrarsi esattamente come tutti gli altri, in una morale calvinista che suona particolarmente ipocrita in questo Paese - visto che in Italia il privilegio in genere è rispettato come qualcosa di sacro. Anni fa un nostro lettore ci chiedeva perché i calciatori dicono sempre di essere umili. Rispondevamo, in poche parole, che mostrarsi umili è un modo per non attirarsi l’antipatia delle persone, perché l’assenza di umiltà - quasi sempre presunta - è ciò che perdoniamo meno ai calciatori. Vogliamo che questi sportivi ci illudano di essere persone comuni, conformandosi a un’idea astratta di persona comune: perfettamente integra, senza inclinazioni individuali di alcun tipo, priva di debolezze morali.

Per questo i nostri atleti preferiti sono cristi crocifissi che vivono il loro talento come una condanna. Roberto Baggio, geniale ma cupo, tormentato dalla sfortuna; Marco Pantani, fenomeno afflitto, da sé stesso e dal mondo. Ci piacciono gli atleti sofferenti perché possiamo più facilmente intuire la loro umanità, e identificarci con essa. Un meccanismo che non è troppo dissimile dalle proiezioni identitarie che molte persone hanno fatto sulla principessa Sissi o Lady Diana: reginette penitenti che hanno vissuto il privilegio come una condanna. Ed è forse una parte del successo anche di serie come Succession: se i ricchi piangono allora fateceli vedere!

Quali sono gli sportivi che odiamo di più in questo Paese? È interessante chiederselo perché questo odio può dire qualcosa su di noi. Le ultime settimane sono state eccezionali, sul fronte odio, anche al di fuori dell’assurda campagna mediatica contro Jannik Sinner. Nel calcio ci sono stati i fischi a Donnarumma, per esempio, e i veleni sul trasferimento di Marco Verratti in Qatar. Due calciatori a cui non vengono perdonate due cose: l’avidità di denaro e il non giocare più, o il non aver mai giocato, per uno dei principali club italiani. Certo, hanno giocato o giocano per un grande club come il PSG, ma questo ce li fa sembrare in qualche modo spocchiosi, o comunque antipatici. In ogni caso indegni del nostro interesse e di sicuro della nostra approvazione. Un trattamento che era stato riservato anche a Federico Chiesa prima che si trasferisse alla Juventus, o a Nicolò Zaniolo - con l’aggravante della vita sessuale sregolata, inaccettabile in un Paese di preti laici. Per Donnarumma e Verratti non conta nemmeno aver vinto un Europeo da protagonisti per lavare il disprezzo, visto che su quello abbiamo attuato uno strano meccanismo psichico di rimozione collettiva - la mancata qualificazione al Mondiale può spiegare, ma non del tutto, il fenomeno.

Nelle ultime settimane nel mirino è finita Paola Egonu, com’era già successo un anno fa. Una delle sportive più odiate di questo paese. Nell’antipatia nei confronti di Egonu la componente razzista è innegabile. Ciò che non viene perdonato a Egonu è sostanzialmente di essere nera e di vestire la maglia della Nazionale italiana. Dovrebbe farlo con un’umiltà docile da Zio Tom, e invece si permette anche di essere la nostra migliore giocatrice e di avere una personalità forte e spigolosa. Si permette di non essere conforme alla loro idea di come dovrebbe essere un’atleta nera nata in Italia. Il cortocircuito è così chiaro che Vannacci, che è un razzista autodenunciato e non sudbolo, ha scritto che «i suoi tratti somatici non rappresentano l’italianità» e che «chi arriva in Italia dovrebbe ringraziare immensamente per la compassione e generosità». Nell’ultimo Europeo Egonu è stata criticata per non aver gradito le esclusioni del CT. Queste persone, che spesso di pallavolo capiscono poco, hanno così difeso la scelta di schierare al suo posto Ekaterina Antropova, che a differenza di Egonu peraltro non è nata in Italia, e che ha ottenuto la cittadinanza appena pochi giorni prima dell’Europeo. Nulla contro Antropova, peraltro gran giocatrice, ma vale la pena sottolineare le acrobazie retoriche a cui si è spesso costretti per sostenere posizioni disoneste. La storia di Egonu - come in passato quella di Balotelli - ci mostra una morale semplice: se sei un’atleta nera e sei nata in Italia devi essere ancora più perfetta degli altri, non ti saranno concessi errori, né la libertà di vivere la tua figura di sportiva come meglio credi.

È in parte assurdo paragonare la storia di Jannik Sinner a quella di Paola Egonu. Egonu figlia di una coppia di nigeriani immigrati in Veneto; Sinner nato in una delle zone più ricche d’Europa, in Alto Adige. Entrambi però vengono accusati di essere poco italiani. Certo, accusati non esplicitamente, ma questa sembra la loro mancanza più grave, quella meno perdonabile. A Sinner viene perdonato poco l’italiano legnoso, di chi viene da una famiglia madrelingua tedesca. Quando era appena maggiorenne gli si chiedeva esplicitamente se si sentiva italiano. Lui era costretto a rispondere, un po’ in imbarazzo: «Io mi sento e sono italiano. Totalmente. Ancor più da quando vivo a Bordighera. Mi piacerebbe giocare con l'Italia la Davis e magari anche vincerla non sarebbe male». Non gli viene perdonato il temperamento mite, vagamente anti-emotivo, chissà magari anche i capelli rossi.

Lui sta provando a somigliare di più a una nostra idea di lui. Sta cercando di essere più caloroso ed emotivo in campo, anche perché non tenersi tutto dentro lo può aiutare; e quando ha partecipato alla Coppa Davis ha fatto di tutto per mostrarsi grintoso, determinato, empatico verso la maglia e verso il pubblico. Chi ha visto le sue partite di Davis si sarà accorto di un atteggiamento, come dire, più “coinvolgente” del solito. In ogni intervista ci tiene a sottolineare che giocare a casa è speciale, che vestire la maglia azzurra è speciale. Sa anche lui che per dimostrarsi italiano deve fare qualcosa in più degli altri, e ci sta provando.

Queste argomentazioni possono sembrare assurde: davvero qualcuno odia Sinner per la cadenza tedesca e i capelli rossi? Davvero qualcuno lo odia perché è giovane, ricco e di talento? Magari sono argomentazioni assurde, ma la domanda resta: perché Sinner è così chiacchierato, così criticato, almeno da una parte consistente del Paese?

In tutto Sinner rappresenta un campione sportivo ideale. È serio, educato, rispettosissimo. Ha una sportività impeccabile, sembra piacevole da avere attorno, e infatti è amato da tutti i tennisti del circuito. Non c’è collega che non abbia parole di stima e rispetto, o persino ammirazione, nei suoi confronti. Per tutte queste ragioni, e per questo incredibile e innegabile talento, gli sponsor lo amano e lo ricoprono di soldi, la ATP lo tratta come una star, come il futuro del tennis. Per una parte dell’Italia, però, forse è troppo. Le cose vanno troppo bene a Jannik Sinner, e così si sottolineano con particolare veleno le sue sconfitte, e si parla di lui come se a 21 anni fosse da falliti non aver ancora vinto uno Slam. Il clima è così isterico che quando ho scritto un pezzo d'analisi su ciò che manca a Sinner per arrivare a battere i migliori l’articolo è stato letto da molti come una violenta critica a Sinner. È comprensibile: come in molti altri ambiti del discorso, il dibattito è ormai nevrotico e polarizzato.

In una delle sue prime conferenze da CT dell’Italia Spalletti ha invitato i suoi calciatori a tenere un profilo basso, bassissimo. A riconoscere il proprio privilegio e a comportarsi con estrema umiltà. Un consiglio pragmatico, che però certifica un clima sociale e culturale allarmante. Gli sportivi devono essere dei santi, e può non bastare. Il caso di Sinner dimostra che nemmeno con la massima educazione, con la purezza morale, ci si può davvero tenere lontani dalle critiche.

Ci piace ferire il talento, come ha scritto Giulia Zonca in un bel editoriale su La Stampa, si cerca di trascinarlo nel fango, di farlo sembrare impuro, immorale, corrotto. Quando si commenta questo tipo di energia negativa, che circola sui social come un subdolo veleno sociale, si dice che è per frustrazione. Ma da dove arriva questa frustrazione, e cosa c'entra Jannik Sinner?

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