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LA PIRATERIA UCCIDE IL CALCIO!!!
19 dic 2024
Cosa non va nella lotta alla pirateria delle autorità italiane.
(articolo)
9 min
(copertina)
IMAGO / Frank Sorge
(copertina) IMAGO / Frank Sorge
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Tra le campagne della Lega Serie A quella contro la pirateria è talmente presente da essere diventata ormai parte del panorama. Quasi non facciamo più caso all’hashtag #stopiracy che appare sotto il risultato in sovrimpressione al calcio d’inizio, o quando una squadra segna, e spesso anche sui cartelloni pubblicitari degli stadi. Quando c’è uno stacco pubblicitario siamo ormai abituati ad aspettarci, tra la promozione di un’agenzia di scommesse e l’altra, uno spot che cerca di sensibilizzare sul tema - magari Bobo Vieri che ci rimprovera perché stiamo disperatamente provando a guardare Lazio-Atletico Madrid su uno streaming pirata. Gli slogan per la lotta al razzismo, o alla violenza maschile sulle donne, i numeri per donare alle associazioni di supporto ai bambini sordociechi appaiono una, due volte l’anno se tutto va bene, quella alla pirateria invece è una battaglia permanente, casa per casa. Sul sito della Lega Serie A ha una sezione separata rispetto a quelle che compongono la “responsabilità sociale” del nostro campionato, la cosiddetta “mission” che vede il calcio come “un fondamentale presidio di salvaguardia dei diritti e, al contempo, un volano di innovazioni sociali, per lottare contro le discriminazioni e per rilanciare un futuro più sostenibile”. Sarà dura, ma con l’impegno del calcio italiano potremo un giorno raggiungere un futuro utopico in cui se anche il razzismo non dovesse essere stato sconfitto di sicuro tutti avranno un proprio abbonamento a DAZN.

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Tra le richieste della Lega Serie A per fermare questa “piaga”, questo “atto criminale” c’è anche quella di istituire “pene più severe a chi arreca un danno non solo alla nostra industria, ma all’intera economia italiana”. Le autorità italiane non se lo sono fatte ripetere due volte. Veniamo da mesi di notizie terroristiche, in cui la lotta alla pirateria viene raccontata come la liberazione di Damasco. Minacce di sanzioni penali, processi, blitz della Guardia di Finanza fin dentro la cameretta di vostro figlio a cui non avete voluto dare l’iPad con Sky Go. Un susseguirsi di emendamenti sempre più duri e dibattiti giuridici su commi di leggi difficilmente comprensibili. Prima l’inaugurazione del Piracy Shield, il discusso software in mano all’AGCOM con cui le emittenti possono segnalare siti pirata e buttarli giù nel giro di mezz’ora, di cui per adesso si è parlato quasi esclusivamente per aver oscurato per qualche ora Google Drive. Poi, lo scontro con i motori di ricerca, minacciati a loro volta di essere portati in tribunale se non si fossero sostituiti alle forze dell’ordine.

A fine ottobre filtra la notizia che la Lega Serie A sarebbe intenzionata a fare causa a Google per scarsa collaborazione nella lotta alle trasmissioni pirata su YouTube e alle app "pezzotte" su Google Play. Nello stesso mese entra in vigore il cosiddetto Decreto Omnibus, una nuova legge che prevede pene fino a un anno di reclusione per i motori di ricerca e addirittura le compagnie telefoniche che violeranno i nuovi obblighi di segnalazione e di comunicazione degli utenti che usufruiscono di contenuti pirata. «Si può rischiare un procedimento penale per non aver segnalato un mero sospetto, potenzialmente infondato, o per la “colpa” di non aver sospettato, in presenza di incerti “motivi” neppure individuati dalla norma penale?», si è chiesto allarmato il presidente dell’AIIP (l’Associazione degli Internet Provider), Giovanni Zorzoni. La risposta è sì, se il bene da difendere è il monday night natalizio Inter-Como, sembrano rispondere le autorità italiane.

Questa nuova offensiva è guidata dalla volontà di arrivare al cosiddetto “utente finale”, cioè proprio te che stai leggendo questo pezzo e chissà cos’altro fai con quel cellulare. «C’è un filo di Arianna che collega l’hacker con il terminale del cliente», ha detto al Mattino l’amministratore delegato della Serie A, Luigi De Siervo, «ora dobbiamo risalire all’utilizzatore finale e sanzionarlo. […] Perché è o noi o loro. Ne va della sopravvivenza del mondo del calcio». Questa è forse l’unica vera novità in una battaglia che è vecchia almeno quanto le pay TV. Persino chi ha la mia età può ricordare le retate per requisire le schede clonate e alla fine anche il termine “pezzotto” rimanda a una dimensione materiale che con lo streaming non esiste praticamente più. Ricorda l’icona del floppy disk che sopravvive a eterna memoria sui nostri computer. Oggi, però, il nemico non sono più solo quelli che nella metafora rinascimentale dovrebbero essere effettivamente i pirati, cioè quelli che solcano i mari (di internet) per depredare caravelle cariche di oro e spezie (la trasmissione di Lecce-Monza), ma anche quelli che di quell’oro e di quelle spezie ne usufruiscono una volta arrivate a terra, sul porto. Cioè, come detto: “l’utente finale”. Questa espansione semantica si può notare anche sul comunicato ufficiale della Lega Serie A che lancia la campagna #Stopiracy per questa stagione, dove si citano 319 milioni di atti di pirateria nel solo 2023, cioè download o streaming illegali di partite, film o serie TV, e si parla di chi li compie con toni semi-biblici: “il 45% dei pirati entrati in contatto con i siti web oscurati si è convertito a fonti legali”.

C’è un gioco delle cifre da cui è sempre difficile uscire con le idee chiare, quando si parla di fenomeni sommersi, che per definizione sono difficili da vedere sotto il pelo dell’acqua. La Lega Serie A, citando un’indagine FAPAV/Ipsos, parla di una stima di 767 milioni di “danno economico potenziale”. Altre fonti, invece, raccontano una storia diversa. Secondo un rapporto dell’ufficio dell’Unione Europea per la proprietà intellettuale (EUIPO) pubblicato a fine novembre, l’Italia sarebbe il Paese europeo con la media più bassa di accessi a contenuti piratati, quindi meglio anche di Paesi che percepiamo come inflessibili e civili, come la Germania o la Svezia (che secondo questo rapporto ha una media mensile di accessi a contenuti piratati per utente più che doppia).

Ciò che è interessante, più che la reale dimensione del fenomeno, sono le motivazioni. “Aspetti economici e sociali quali la disuguaglianza di reddito, la disoccupazione giovanile e la percentuale di giovani tra la popolazione sono stati individuati come fattori alla base della pirateria”, si legge nel documento. “Lo studio suggerisce che livelli più elevati di disuguaglianza di reddito e una popolazione giovanile più numerosa sono correlati a maggiori livelli di pirateria. Per contro, un PIL pro capite più alto e una maggiore conoscenza delle offerte legali di contenuti sono associati a tassi di pirateria più ridotti”. È un mosaico che non torna mai del tutto, perché la Svezia o la Germania hanno PIL pro capite maggiori rispetto a quelli dell'Italia pur avendo livelli maggiori di pirateria, e forse quindi bisognerebbe aggiungere altre concause, per esempio il digital divide tra il nostro Paese e quelli del nord Europa.

Per l’amministratore delegato della Lega Serie A, Luigi De Siervo, invece è una «questione culturale, non legata al prezzo degli abbonamenti». Gli italiani, insomma, sono culturalmente inclini a rubare, hanno un certo gusto nel fregare il potere, e il potere, con la severità della legge, ha il dovere di educarli. Si può anche pensare che ci sia un fondo di verità in un’idea del genere ma il dato di fatto che rimane è che la governance del calcio in Italia, supportata dalla classe politica, si sente in guerra con i pirati, e sembra disposta a qualsiasi cosa pur di vincerla. «È o noi o loro», per l’appunto. Il problema è che loro, i pirati, sono, come detto, gli utenti finali. E per di più, a dar per buone le conclusioni dello studio EUIPO, è probabile che alla fine siano soprattutto quei giovani che le stesse autorità calcistiche dicono ossessivamente di voler riconquistare. Giovani talmente fissati con il calcio da rischiare una multa o un procedimento penale per guardarlo, e quindi da non dover essere nemmeno convertiti con highlights a velocità Fortnite e Superleghe. Parliamo, insomma, di appassionati, quindi di potenziali abbonati a una pay tv, o a uno stadio, o una rivista, di consumatori di tutti quei prodotti a cui di solito ci riferiamo con la parola “indotto”. E vi sembra un metodo efficace per portarli dalla propria parte, quello di minacciarli, di sbatterli in prigione?

Meno di un mese fa DAZN ha fatto trapelare l’intenzione di volersi costituire parte civile nel grosso processo che seguirà all’inchiesta della procura di Catania che ha portato allo smantellamento di una rete pirata di cui, secondo le autorità, usufruivano circa 22 milioni di persone in giro per l’Europa. Secondo la ricostruzione fatta da Repubblica, l’obiettivo è quello di ottenere i nomi non solo delle persone che fornivano questo “servizio” ma anche di quelle che ne usufruivano, in modo da intentare contro di loro una causa per danni. L’impressione, insomma, è che DAZN voglia proteggere il suo enorme investimento in diritti TV anche per vie legali, magari pensando di recuperare parte dei soldi persi in abbonamenti per via della pirateria attraverso queste cause. E ammesso e non concesso che sia effettivamente così semplice, siamo sicuri che fare la guerra al proprio stesso bacino d’utenza, ai propri potenziali futuri abbonati sia davvero una buona idea?

Non voglio negare che la pirateria sia un danno economico per chi investe nel calcio italiano, mi chiedo però se un racconto così esasperato faccia davvero bene. Non solo perché rischia di sopravvalutare le dimensioni del fenomeno, la sua importanza rispetto a problemi strutturali ancora più gravi, e di fraintenderne le cause e quindi anche le possibili soluzioni. Ma anche perché, facendo passare gli spettatori per pirati, cioè sostanzialmente per delinquenti, finisce per andare in contrasto con quella "valorizzazione del prodotto" che la governance della Serie A dice tanto di voler perseguire.

Magari le televisioni pensano che la “deterrenza”, cioè la paura di una causa in tribunale, sia davvero l’unico modo in Italia per fare nuovi abbonati. Come si dice: ognuno la pensa come vuole, anche che gli italiani siano naturalmente inclini a rubare e quindi non ci sia molto altro da fare. Che lo stesso stato italiano decida di prestare il monopolio della violenza a queste idee, però, sicuramente è discutibile.

Pochi giorni fa un tribunale di Lecce ha affermato che il semplice usufruire di un abbonamento pirata non può essere considerato un reato penale, ma chissà, magari in futuro le cose cambieranno. Il Parlamento, per venire incontro alle campagne anti-pirateria della Serie A, potrebbe colmare questo vuoto normativo con leggi ancora più dure. E in un Paese che ha disoccupazione giovanile altissima, in cui il gap generazionale tra redditi è ormai incolmabile, e che ha stravolto le leggi della concorrenza per garantire alle televisioni il monopolio sulla trasmissione del calcio, e quindi la possibilità di poter aumentare i prezzi a cuor leggero, magari verrà presentata come una scelta lungimirante per il futuro del calcio italiano.

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