Il 12 settembre 2016 non sembrava la giornata fortunata di Romelu Lukaku. Anzitutto per via della coppia africana al centro della difesa del Sunderland, Papy Djilobodji e Lamine Koné, che si alternavano per anticiparlo o comunque non farlo girare, lasciandolo giocare quasi solo di sponda. Secondo poi, per via del portiere del Sunderland, Jordan Pickford, che al dodicesimo del primo tempo gli aveva negato il gol su un bel colpo di testa. Lukaku - alla terza presenza in campionato, con Ronald Koeman seduto da poco in panchina - stava avendo la peggio persino nei duelli corpo a corpo e in quelli aerei; ma si può dire che stesse giocando diversamente dal solito? No. Che fosse più lento, o leggero, del solito? Neanche. Sembrava solo che non fosse il suo giorno fortunato.
Quel 12 settembre, dopo sessanta minuti di gioco, Lukaku non andava in gol da 13 partite giocate con la maglia dell’Everton (considerando la fine della stagione precedente e l’inizio di questa 2016-17; e se si contano anche le amichevoli estive e la partita di League Cup contro il Yeovil Town erano 16 le partite senza reti). Veniva anche da un Europeo così e così, in cui era finito decisamente in ombra nelle sconfitte decisive per il Belgio contro Italia e Galles, con un paio dioccasioni fallite e 2 soli gol segnati (entrambi contro l’Irlanda); un Europeo così così per tutta quella generazione di calciatori belgi tanto dorata quanto, per ora, deludente, di cui Lukaku è uno dei simboli più appariscenti.
Lukaku che da adolescente nella squadra del suo paese ha segnato 130 gol, e nelle giovanili dell’Anderlecht ne ha segnati altri 121; che da professionista ha un record in costante aggiornamento migliore di molti dei migliori attaccanti della storia del calcio quando avevano la sua stessa età. Lukaku che, comprensibilmente, se interrogato sul tema dice che fare gol è «la migliore sensazione del mondo. Voglio dire, è tutta la vita che faccio gol».
Eppure, dopo un’ora di brutto calcio, con un periodo di astinenza da interrompere, sul suo volto, nell’atteggiamento del suo corpo, non si leggeva alcun segno di frustrazione. Persino intorno al cinquantesimo, quando ha mandato al lato da pochi passi un tiro-cross di Coleman, Lukaku non si è spazientito.
In quel momento, per mettere le cose nella giusta prospettiva e non perdere la pazienza, Lukaku poteva pensare fondamentalmente a due cose.
La prima, che vale per tutti gli attaccanti ma in particolare per un attaccante con le sue caratteristiche tecniche e fisiche, è che basta pochissimo perché la situazione si sblocchi. Che gli arrivi la palla giusta da un compagno, che esegua il movimento giusto, che sia più preciso o che abbia anche solo un po’ di fortuna in più.
La seconda è che, in fondo, lui stava facendo il suo. Lukaku sa che la sua influenza sulla partita non arriva al punto da trasformare una brutta giornata in una buona giornata e ci aveva già provato nelle settimane precedenti, scontrandosi con gli avversari e con i propri limiti. Lukaku sa che deve solo aspettare, vedere che succede e cogliere l’occasione giusta come l’ha saputa cogliere centinaia (migliaia, considerando gli allenamenti) di volte nella sua vita.
E infatti nella mezz’ora seguente Lukaku segna due gol: Di testa, con la difesa del Sunderland che deve ancora riordinarsi su una ripartenza; di testa su uno splendido cross di Yannick Bolasie. Poi arriva un terzo gol di piatto sinistro, a tu per tu con Pickford. Nell’ultima mezz’ora di gioco, in quel periodo delle partite di Premier League in cui gli spazi si aprono, Lukaku avrebbe avuto persino il tempo per un quarto gol (o, se fosse stato meno egoista, quanto meno per aggiungere un assist al tabellino).
A quel punto, contrariamente alle premesse, il 16 settembre 2016 sembrava decisamente il suo giorno fortunato.
Adesso, dopo altri 18 gol segnati in campionato (e almeno un altro paio di giornate decisamente fortunate: la quadripletta con il Bournemouth, la doppietta più assist contro l’Hull qualche giorno fa) possiamo guardare a quella partita con il Sunderland come allo spartiacque nella stagione di Lukaku. L’inizio di quella che sta per diventare (al momento gli mancano solo 4 gol) la sua più prolifica in Inghilterra e che, dato che non sta firmando il rinnovo con l’Everton e che Mino Raiola non è famoso per fare sconti, potrebbe ridefinire il suo valore all’interno del panorama calcistico europeo.
Considerando che deve ancora compierne 24, ma che ha già 8 stagioni di calcio professionistico alle spalle (questa è la nona, la sesta in Premier League), Lukaku è un caso di studio unico attraverso cui guardare il calcio di questi anni.
La mia tesi, tanto vale dirlo subito, è che Lukaku - pur essendo un’anomalia fisica (191 cm x 94 kg) difficile da riprodurre con qualsiasi metodo di allenamento o di selezione - sia il prodotto esemplare di un calcio estremamente professionalizzato, che la sua storia di successo sia anche una storia di omologazione, che ci dica qualcosa sulla scuola calcistica inglese, su quella belga e sulla standardizzazione verso il basso di alcuni aspetti fondamentali per un’idea di calcio più pura di quella moderna. Tipo la sensibilità.
«La maggior parte delle volte quando corro alla massima velocità e il difensore prova a spostarmi non devo fare niente, perché sono troppo forte». Da una delle sue interviste.
Probabilmente Lukaku verrà inserito nella lista della spesa delle squadre migliori al mondo, perché il mercato calcistico ormai va così e se qualcuno sente il bisogno di spendere molti molti soldi per un nuovo giocatore che difficilmente da solo potrà cambiargli la squadra - perché i giocatori che da soli cambiano le squadre, anche di poco, sono molto più rari di quelli che servono a un mercato così ricco - perché no Lukaku, che quanto meno sta giocando il suo miglior calcio?
Prima che succeda vale la pena riflettere su come Lukaku è cambiato in questi anni. Facciamo una prova: cercate di ricordare la prima volta che lo avete sentito nominare, sono sicuro che una risposta valida più o meno per tutti sarebbe: molto tempo fa. Adesso, volete sapere altri giocatori che avete sentito nominare per la prima volta molto tempo fa e che sono coetanei o più giovani di Lukaku? Pogba, Kondogbia, Draxler, Oxlade-Chamberlain, Deulofeu. Quello che voglio dire è che Lukaku non è l’unico giovane a giocare come un veterano nel senso più stretto del termine: come qualcuno che ha prestato a lungo servizio, e che è stato cambiato profondamente da un’esperienza professionale forgiante (come la guerra). Come i giocatori citati qui sopra, Lukaku è lontano anni luce dal giocatore che era all’inizio della sua carriera.
Se insisto su questo punto non è per arrivare alla retorica del giovane più maturo della sua età, quanto per sottolineare come i sistemi selettivi del calcio dei nostri giorni siano così duri che i talenti venuti a galla più prematuramente, che poi solitamente sono anche i talenti più cristallini, che in teoria avrebbero meno bisogno di sovrastrutture, quando hanno poco più di vent’anni si sono già dovuti reinventare. Il calcio cambia i calciatori, li ridefinisce esternamente e, con grande probabilità, internamente.
Anche se il calciatore in questione si presenta sulla scena come una palla demolitrice troppo grossa e troppo veloce per qualsiasi difensore.
Quattro stagioni fa, arrivato all’Everton dopo una delle migliori annate giocate da un rookie in Premier League (17 gol in 35 con la maglia del West Bromwich), dopo un’estate con il Chelsea da “futuro Drogba” , dopo un rigore sbagliato in Supercoppa contro Neuer e la rapida bocciatura di Mourinho, Lukaku aveva la media impressionante di un gol ogni 64 minuti. Nel corso della stagione 2013-14 il suo rendimento si è normalizzato su una continuità comunque invidiabile, 15 gol nonostante un infortunio alla caviglia che gli ha anche fatto perdere più o meno un mese.
In maniera controintuitiva, Mourinho ha convinto il Chelsea a cederlo definitivamente all’Everton. Certo non gliel’hanno regalato: 26 milioni di sterline, il giocatore più caro della storia del club.
Per la stagione successiva Lukaku sceglie di indossare la maglia numero 10. Un dettaglio che ci rivela da una parte come immagina se stesso, dall’altra che tipo di calcio ha in mente.
Quel Lukaku, in effetti, aveva velleità da giocatore completo. Più completo di quello che si sarebbe accontentato di diventare, ma decisamente meno efficace. Quel numero 10 può essere letto come il segno di un’ambizione magari ingenua, ma condivisibile, come la voglia di cambiare il calcio, letteralmente, sulle proprie misure. E invece è Lukaku ad essere cambiato.
Ad esempio, si è allenato a tirare con il destro raddoppiando la propria efficienza sotto porta. Se ne è accorto anche Carragher, analista televisivo raffinato, che gli ha lasciato il destro per tirare.
Anche se gli capita ancora di passare dei periodi più o meno lunghi di astinenza (e magari in futuro riuscirà ad essere ancora più costante) globalmente ha raggiunto uno standard di performance piuttosto alto, confermato dal fatto che le ultime due stagioni sono anche le sue più prolifiche in assoluto.
Ma la trasformazione in un giocatore maturo non è coincisa con un totale annullamento dei suoi vezzi, che sopravvivono ancora in qualche sporadica giocata (a cui, tra l’altro, riesce a dare un senso pratico più spesso del contrario) quanto piuttosto con una revisione generale del suo stile. Niente di strutturale, Lukaku ha ripulito il suo gioco dalle sfumature non necessarie, insistendo su alcuni aspetti che, razionalmente, gli avrebbero permesso una carriera. È meno ingenuo, ma anche meno ambizioso. Nel suo gioco non c'è più ricerca, ma ripetizione di schemi prevedibili.
Lukaku è un football nerd, figlio di calciatore e fratello di calciatore, non si è mai immaginato come qualcuno di diverso da un calciatore. Pochi anni fa ha rotto un controller della Playstation dopo una partita di Fifa; su Twitter si lamenta del fatto che i valori del suo avatar non siano aggiornati.
Studia i grandi giocatori a cui si ispira e gli avversari, perché come ha detto in un’intervista un annetto fa: «La consapevolezza è la cosa più importante nel calcio». Intendeva “consapevolezza” di quello che succede in campo, tenere sempre presente le posizioni dei difensori e della distanza della porta per sapere in anticipo cosa fare quando ti arriva la palla, ma ha dimostrato anche grande consapevolezza delle sue qualità e dei suoi limiti.
Ha detto anche che fin dalle giovanili dell’Anderlecht era abituato a «giocare sull’ultimo uomo, corrergli dietro. Come Vardy, whooosh, uno contro uno». Ma gli veniva chiesto di tenere palla e a un certo punto: «Ho realizzato che se i difensori si abbassano troppo non puoi corrergli dietro, e allora come fai a segnare gol?».
In realtà, almeno da quando l’ho sentito nominare io per la prima volta, Lukaku non è mai stato il tipo di attaccante particolarmente abile in profondità. In transizione, quando può prendere velocità in campo aperto, è sempre stato devastante, ma in fase di attacco posizione aveva la tendenza a venire spesso a prendere palla a centrocampo, o si allargava molto per ricevere senza l’uomo addosso e con il corpo già orientato verso la porta.
Nel tempo si è costruito un gioco tra le linee con cui attira i difensori e apre spazi alle sue spalle, un gioco semplice fino a diventare ripetitivo, con sponde non sempre di grande qualità (anzi, spesso davveroterribili) e passaggi orizzontali in fascia. Non viene più a prendersi palla oltre la linea di centrocampisti avversari, ma continua ad allargarsi sull’esterno destro. È molto raro che tagli alle spalle della difesa, anche perché non ha un grande senso del tempo e chiama palla in profondità quando è impossibile servirlo.
Un effetto secondario di questo tipo di gioco, significativo dei problemi di mobilità di Lukaku e al tempo stesso di una forma di pazienza quasi zen, con cui fa da riferimento per tutta la squadra, è che adesso corre pochissimo.
La scorsa stagione è stato il giocatore in Premier League che ha corso meno chilometri di tutti e questo, come ha notato Jonathan Wilson, potrebbe spiegare anche la sua efficienza nei secondi tempi (10 gol negli ultimi 10 minuti la scorsa stagione). Ma Lukaku è anche il quarto giocatore più veloce di Premier League, con picchi che raggiungono i 35 km/h (più veloci di lui solo Shane Long, Marcus Rashford e Jamie Vardy). Avrebbe comunque un vantaggio rispetto alle difese, non ha davvero bisogno di prenderli sulla fatica.
La fatica - diciamo dall’ora di gioco in poi - serve a creare spazi. Per una lunga parte della partita il campo sembra semplicemente troppo piccolo e, per quanti scontri possa vincere, non ha abbastanza spazio in cui correre senza sbattere su un paio di avversari (anche perché non è il massimo dell’imprevedibilità).
Lukaku aspetta che il rapporto tra i pieni e i vuoti del campo da calcio, le tasche e i corridoi nella struttura difensiva della squadra avversaria, si allunghino. In altre parole, aspetta che il suo corpo, e la sua tecnica, siano adatti alla partita. Quando perde la pazienza e prova a forzare gli spazi non ottiene mai grandi risultati e finché il ritmo della partita è alto non ha modo di esprimere la sua potenza.
Che la forza di Lukaku siano le transizioni lo testimonia la sua scarsa presenza numerica nella trequarti offensiva dell’Everton. Riceve appena 15.7 passaggi per 90 minuti in media, il sessantesimo in Premier League. Tocca appena 5.1 volte palla in area di rigore, il trentottesimo risultato migliore.
I migliori 10 marcatori in Premier. Lukaku è uno di quelli che riceve meno passaggi nella trequarti offensiva e che tocca meno palloni in area. Sono evidenti le differenze tra tipologie diverse di attaccanti (Ibra tocca quasi più palloni di tutti in area di rigore, Aguero tira moltissimo) come, invece, la somiglianza stilistica con Harry Kane.
Tra i primi dieci marcatori è uno di quelli che tira di meno in porta (2.93 volte per 90 minuti), i 4 che vengono dopo nella classifica dei capocannonieri tirano più di lui. A testimonianza della sua grande efficienza in fase di finalizzazione, merito come detto del lavoro in allenamento.
È anche quello con più xG, proprio perché le sue occasioni arrivano quasi sempre davanti al portiere, in occasioni che si è costruito da sé ma che sono molto chiare (Harry Kane ad esempio, 8.5 xG e 19 gol, pesca molti più conigli dal cilindro).
Lukaku è sceso a compromessi con la sua stazza e con il campionato in cui ha finito di svilupparsi (da tutti i punti di vista: ha preso anche qualche chilo, di muscoli, negli ultimi anni). Vive per quei momenti in cui le squadre perdono il controllo della partita e lui è in grado di mangiarsi un’intera metà campo come se si trovasse su un campo da basket.
Sono momenti abbastanza frequenti in Premier League, ma non così frequenti da poter essere decisivi sempre. «Sono forte, alto e molto veloce. So dribblare, posso segnare con entrambi i piedi e di testa. So tenere palla. Per questo quando la gente dice: Oh, è ingiocabile. Io dico: Ok, sono stato ingiocabile oggi, ma devo provare ad essere ingiocabile in ogni partita».
La descrizione che Lukaku fa di sé stesso è realistica, eppure lui stesso la collega immediatamente alla sua incostanza. Se è forte, alto e molto veloce, e sa fare tutte le cose che sa fare, perché ci sono intere partite che gli scorrono intorno mentre lui sembra impotente come una persona normale?
Perché nel calcio reale i valori assoluti non sono importanti come a Fifa e non si può parlare dei calciatori come si fa con i cavalli, come una somma di caratteristiche fisiche e caratteriali. Anche se Lukaku avrebbe tutto per inserirsi nella gloriosa tradizione degli uomini target del calcio inglese - perché se è vero che in Premier League c’è intensità è vero anche che il modo più semplice con cui in Premier League si elude l’intensità è ricorrere alla prima punta, anche alzando la palla, alle brutte - il gioco di Lukaku non poggia su una base tecnica da uomo target.
Ad esempio, per uno che ambisce a costruirsi una carriera di alto livello facendo anche da riferimento sui lanci lunghi, Lukaku non è un grande saltatore di testa. Gli mancano tempismo e stacco, quasi non alza i piedi da terra, e non è neanche preciso. È solo un grosso saltatore di testa. L’unica cosa che fa per prendere la palla di testa, è guadagnare la posizione, poi è così grosso che in ogni caso è difficile da anticipare. E comunque succede, più spesso di quel che pensavo prima di dare un’occhiata ai numeri.
Ha segnato 5 dei suoi 21 gol in campionato di testa, ma con le caratteristiche appena descritte è pericoloso solo molto vicino alla porta. Diciamo anzi che è utile solo vicino alla porta, dove un duello aereo vinto può valere la partita. Ma se si parla di zone di campo dove servono numeri più grandi, Lukaku non è un granché.
L’Everton è la squadra che ha effettuato più lanci lunghi in Premier League dopo il Burnley e il Leicester. Lukaku è l’undicesimo giocatore ad effettuare più duelli aerei in media su 90 minuti di gioco, ma sono ben 24 quelli che ne vincono più di lui (sempre per 90 minuti di gioco, considerando i giocatori in campo per almeno 500 minuti). Peter Crouch, ad esempio, che è primo in classifica, ne vince 12.3. Certo, Peter Crouch è alto due metri. Ma Andy Carroll ne vince 11, ed è alto solo un paio di centimetri più di lui. Lukaku ne vince 3.8.
E tenete conto che questo colpo di testa conta come duello aereo vinto.
Ok, sia Crouch che Carroll effettuano più duelli in 90 minuti (rispettivamente: 16.7 e 16.4) di Lukaku (9.1) e sono i due migliori specialisti in un artigianato tipicamente inglese, ma le stats di Lukaku sono bruttine da qualsiasi punto di vista le si guardi. Ad esempio, il suo bilancio complessivo è negativo, perde più duelli di quanti ne vince: 5.3.
Quella di Lukaku non è una situazione eccezionalmente negativa, il gioco aereo è statisticamente poco conveniente se si guarda le prime 8 posizioni dei duelli aerei vinti e persi in media in 90 minuti: solo pochissimi hanno un bilancio nettamente positivo per cui varrebbe la pena basarci parte del proprio gioco. Lukaku è l’ottavo giocatore del campionato a perdere più duelli aerei in media su 90 minuti; il gallese Vokes, del Burnley, è quello che ne perde di più, ma è anche terzo nella classifica dei duelli vinti (ed è alto poco più di 1.80).
I giocatori che vincono più duelli aerei in Premier League. Potete confrontare i numeri di Lukaku a quelli di giocatori come Negredo e Llorente, che non sono eccezionali ma comunque migliori di lui.
Per tornare al paragone con i migliori, invece: Andy Carroll ne perde più o meno quanto Lukaku, 5.4, ma ne vince comunque più del doppio. Peter Crouch è lontanissimo, ne perde un terzo di quelli che vince: 4.4 (diciottesimo in classifica).
Insomma, puntare molto sul gioco aereo è poco conveniente a meno che non si abbia un Crouch o un Carroll (o Fellaini, che effettua meno duelli di un centravanti ma ne perde 1,6 ogni 90 minuti, è addirittura oltre la centesima posizione in quella classifica), o comunque qualcuno (Negredo, Llorente) in grado di pareggiare costi e guadagni di un gioco che implica la perdita momentanea del controllo sul possesso del pallone. Lukaku non fa parte di queste categorie statistiche.
Qualche mese fa Kevin De Bruyne ha raccontato della frustrazione di Pep Guardiola nei confronti del gioco di lanci di molte squadre in Premier: «Spende tempo ed energie a cercare soluzioni, dove potremmo trovare spazi, ma poi ci dice che tanto gli avversari lanceranno lungo». Il punto è che le squadre che ricorrono ai lanci sull’attaccante grosso solitamente non hanno grandi alternative tecniche (ed è tanto più frequente più è alto il ritmo del gioco), ma nessuno parlerebbe di Lukaku come di un giocatore da Burnley. Anzi, considerata la sua inefficienza di testa Lukaku è tutto tranne che un giocatore da Burnley.
Un’ulteriore conferma è arrivata dal derby dello scorso sabato, perso (1-3), in cui l’Everton è ricorso spesso al lancio lungo su Lukaku per sfuggire alla pressione del Liverpool di Klopp, senza grande successo. Lukaku ha vinto 4 duelli aerei su 12 effettuati nella metà campo offensiva, e non è importante il dato numerico in sé, quanto piuttosto la constatazione che quasi nessuno dei duelli aerei vinti ha effettivamente generato un vantaggio per l’Everton. Così come, invece, alcuni duelli aerei persi, proprio perché Lukaku è un ostacolo semplicemente troppo grande da aggirare o anticipare, hanno portato al recupero di una seconda palla. Detto questo, però, la sua partita si ferma praticamente qui.
Una vita da “target man”.
Lukaku può essere considerato un prodotto ancora più tipico della Premier League proprio perché la sua prima educazione, quella belga, aveva fatto di lui un giocatore decisamente diverso. Quella al calcio inglese, per Lukaku, è stata una rieducazione.
La generazione dorata del calcio belga, per quanto poi, per ora, possa aver portato a risultati inferiori alle aspettative, è frutto delle buone intenzioni della rivoluzione della federazione che (in estrema sintesi) dopo il disastroso Mondiale del ‘98 ha riformato il proprio sistema di formazione per “costruire” calciatori più tecnici per giocare un calcio maggiormente offensivo. Riempendo le periferie di campetti e convincendo le squadre principali ad adottare il 4-3-3 come modulo per le giovanili.
Un’idea di calcio in cui era centrale il dribbling, l’uno contro uno. Jean Kindermans, direttore delle giovanili dell’Anderlecht, dice che quando hanno iniziato a lavorare con Lukaku aveva meno di 13 anni ed era «un buon giocatore, ma non molto tecnico. Era forte e veloce ma abbiamo dovuto sgrezzarlo».
Nel tipo di gioco che avevano in mente in Belgio non esisteva neanche l’idea di centravanti di peso su cui appoggiarsi con i lanci lunghi per risalire il campo. E infatti il calcio belga di questi anni ha prodotto principalmente esterni d’attacco brevilinei, perfetti per giocare a piede invertito e rientrare dentro al campo. L’influenza di quel tipo di calcio su Lukaku si vede ancora oggi, ogni volta che si allarga per ricevere palla sui piedi e poi rientrare per il tiro, sia a sinistra che a destra, o puntare il diretto avversario sull’interno o sull’esterno.
Il doppio passo da esterno navigato, il cross col piede debole.
Anche in transizione, la sua tendenza a correre nei corridoi esterni lo allontana dall’area di rigore al punto che forse beneficerebbe giocando con una seconda punta vicina.
Ma resta un problema per un giocatore con un cono di tiro molto stretto, cioè con un tiro che perde efficacia non appena è un minimo largo o quando ha dei giocatori davanti.
Immaginate delle linee che partono dalla base dei pali di porta che possono allontanarsi con un angolo sulla linea più o meno ottuso. L’angolo di Lukaku - quello più macchiato di verde - è quasi di 90°. Rispetto all’anno scorso si è anche ulteriormente stretto.
Dopo la partita con il Liverpool, Koeman ha detto che Ross Barkley e anche Lukaku «non hanno giocato al loro livello», se l’è presa con la stanchezza dovuta agli impegni in Nazionale (dove, tra l’altro, Lukaku è allenato dal suo precedente allenatore all’Everton, Roberto Martinez), sottolineando ancora una volta la voglia di Lukaku di lavorare su se stesso come la chiave per azzittire le critiche. Sotto l’aspetto mentale lo ha paragonato a Ibrahimovic, nel senso che anche Zlatan ha dovuto imparare a fare cose nuove ad ogni step della sua carriera. Pochi mesi fa, alla domanda se sotto porta Lukaku gli ricordava Van Basten, Koeman aveva risposto che: «È uno dei migliori, anche al confronto con i giocatori dei miei tempi».
E però, sempre Koeman, in alcune sue dichiarazioni ha accennato ai problemi strutturali di Lukaku, che non sono trascurabili per un attaccante né così semplici da risolvere con l’allenamento. Ha detto che a volte Lukaku «si prende dei rischi nella posizione sbagliata, tipo davanti al difensore centrale di destra, anziché tra i due difensori centrali».
Ma durante la partita contro il Manchester United, un’altra partita opaca (anche per merito di Rojo e Bailly), era abbastanza evidente quale fosse la vera differenza tra un giocatore costruito come Lukaku e un genio naturale come Ibra. Perché d’accordo la mentalità, d’accordo l’allenamento e persino l’immagine da duro indistruttibile che litiga con i difensori, ma almeno metà dell’unicità di Zlatan Ibrahimovic sta nella sua sensibilità. Quella non l'ha imparata davvero da nessuno.
Uno dei suoi rari movimenti senza palla efficaci.
Lukaku è un Frankenstein assemblato in parte sui principi del calcio belga e in parte su quelli del calcio inglese. Ma se non era abbastanza dotato tecnicamente per il primo, non è stato formato per il secondo, per cui invece era più adatto fisicamente.
Il Belgio ha aggiunto tutta la tecnica possibile sul suo talento fisico e non si può dire che Lukaku sia in assoluto poco tecnico, soprattutto rispetto a molti pari ruolo: ci sono cose che fa molto meglio di quasi tutti gli attaccanti a cui potremmo confrontarlo, e la sua conduzione in corsa ad altissime velocità, anche perdendo contatto con la palla, è notevole. In tutto il resto però, la tecnica di un’ala e quella di un centravanti hanno davvero poche cose in comune.
Forse una delle abilità tecniche più sottovalutate del gioco è la protezione spalle alla porta. Lukaku non ha gli accorgimenti che giocatori nati e cresciuti spalle alla porta, magari meno tecnici di lui, devono imparare per forza di cosa per sfruttare il proprio corpo; né tanto meno il primo controllo di quelli che non perdono la distanza dalla palla. Lukaku commette anche errori gratuiti, il suo corpo diventa un ostacolo anche nelle giocate più semplici, e non eccelle neanche nel puro uno contro uno in modo da creare un reale vantaggio in isolamento. A che serve un attaccante così? La risposta, nel bene e nel male, è racchiusa nei 22 gol segnati fin qui.
L’educazione belga e quella inglese, che hanno dato vita a un calciatore così poco naturale, si fondono con armonia solo in quei momenti in cui Lukaku fa cose che solo Lukaku può fare. Non sto parlando di quei gol - contro il Manchester City, o il Leicester - in cui perde semplicemente il controllo e si trasforma in una valanga vivente che trascina la palla in porta. Il meglio che Lukaku può offrire allo spettatore inglese è rappresentato dal gol al Bournemouth: un attaccante che pesa quasi un quintale, che va veloce come uno sprinter e con un sinistro abbastanza dolce da mettere la palla a giro sul secondo palo.
Sono passati tre anni e mezzo dall’ultima volta che ho scritto di Romelu Lukaku e il mio giudizio su di lui è cambiato radicalmente. Allora andava di moda il 4-2-3-1 e potevo lamentarmi della presenza di 3 giocatori ad occupare la trequarti di campo, solitamente due esterni offensivi più un trequartista moderno, magari con meno visione rispetto ai trequartisti del passato ma con più capacità di creare superiorità con un dribbling o una conduzione. Un secondo attaccante che partisse tra le linee e facesse anche assist insomma.
In Lukaku vedevo la possibilità di tornare a un tipo di attaccante che facesse rallentare il gioco. In assenza di un trequartista vecchio stile, avrei voluto un attaccante vecchio stile, che venendo tra le linee, con un gioco di sponde e protezioni del pallone spalle alla porta raffinate.
Lo vedevo come l’antidoto di quel tipo di giocatori che il calcio belga ha prodotto in quantità industriale in questi anni e al tempo stesso come agente segreto in grado di sabotare l’intensità del calcio inglese.
Mi sbagliavo, Lukaku ha finito con l’incarnare gli aspetti più convenzionali di entrambe le scuole calcistiche. Semmai, paradossalmente, Lukaku è un esempio di come le doti atletiche, anche eccezionali, non bastino e di come anche la tecnica, quando è appresa in assenza di una visione originale del calcio, di sensibilità e di fantasia, diventi prevedibile.
Di come, in definitiva, per avere una reale influenza sul gioco non basti avere influenza sul risultato. Non basta neanche segnare 22 gol in stagione.