Me lo immagino così, Tammy Abraham. Il completo del Chelsea troppo lungo che gli cade sulle spalle, le mani nervose dietro la schiena, la bocca serrata come se stesse facendo fatica a contenere una risata. Avrà avuto otto, nove anni quando è rimasto chiuso fuori Cobham, poco prima del suo allenamento. Forse si stava chiedendo come sarebbe entrato questa volta, quando una macchina gli si è affiancata all’ingresso. Faceva un freddo cane e magari sperava che quella macchina potesse aiutarlo in qualche modo, chissà. Quel che è certo è che mai avrebbe pensato che dall’altra parte del finestrino che si stava per abbassare sarebbe apparso Didier Drogba. Non solo: Didier Drogba che gli chiedeva di entrare. Davanti a lui i cancelli di Cobham si aprono. «Appena sono sceso dalla macchina mi sono messo a cercare i miei compagni di squadra per dirgli “guardate, è Drogba!”, ma purtroppo non sono riuscito a trovare nessuno in quel momento», ricorda Abraham.
Abraham è quello alla sinistra di Abramovich.
Questo racconto, come questa foto con Abramovich che vedete qui sopra, è uno dei tasselli che compone la storia familiare di Abraham al Chelsea. La convinzione, cioè, che il destino lo avrebbe portato a diventare the brightest light tra le decine di ragazzi formati dal club londinese in giro per l’Inghilterra e per l’Europa, che sarebbe stato lui il primo homegrown player a diventare titolare fisso della prima squadra dai tempi di John Terry. Quel John Terry che continuava a chiamarlo anche quando è andato in prestito in altre squadre, «per sapere come stavo e dirmi “ben fatto” dopo le partite». Quel John Terry che, da secondo di Dean Smith, forse lo ha voluto all’Aston Villa, in Championship, nella stagione 2018/19, in una delle migliori della sua carriera fino a ora (25 gol in 37 presenze). E che poi lo ha abbracciato in maniera diversa quando lo scorso anno è tornato a Stamford Bridge da avversario, sempre con l’Aston Villa. Era il 28 dicembre e il regno di Frank Lampard a Stamford Bridge iniziava a mostrare le prime crepe. Frank Lampard che personificava il nuovo corso “zidanes y pavones” della squadra di Abramovich. «Che ha sempre avuto il suo braccio sulla mia spalla quando c’era da sollevarmi di morale». Anche dopo il decisivo errore dal dischetto nella Supercoppa Europea contro il Liverpool nell’estate del 2019, ricorda Abraham. Che, dopo e nonostante quell’errore a inizio stagione, lo ha comunque messo al centro dell’attacco del Chelsea, vedendo la sua fiducia ripagata da 18 gol, tra Premier e Champions League.
Con Thomas Tuchel le cose sono cambiate subito. Panchina all’esordio contro il Wolverhampton, poi l’occasione dal primo minuto nella partita successiva contro il Burnley, finita però già alla fine del primo tempo. L’allenatore tedesco ci riproverà solo un’altra volta, tre settimane dopo, contro il Southampton. Anche in quell’occasione ci ripenserà dopo la prima frazione di gioco, facendo sparire Abraham per il resto della stagione. Il pubblico se ne ricorderà a metà aprile, con Werner sempre più in difficoltà a trovare il gol e Giroud ormai ai margini della rosa. «Non penso che [Abraham] sia il nostro miglior attaccante da quando sono arrivato», ha dichiarato Tuchel, quando gli si chiedeva perché non provasse a giocare con Abraham, la cui qualità più evidente era proprio quella di avere un rapporto speciale con il gol «Posso solo giudicare ciò che vedo. E ciò che ho davanti a me è un giovane uomo. Un ragazzo che ha fiducia in sé stesso e molto talento. Ma non è possibile che in un periodo di buoni risultati improvvisamente ne escano vincitori quelli che non giocano. Tammy ha avuto un periodo difficile. È stato sostituito due volte a fine primo tempo per ragioni tattiche. Non è riuscito ad avere l’impatto che chiede a sé stesso e che noi desideriamo da lui». Alla fine Tuchel preferirà mettere al centro dell’attacco Kai Havertz, con l’invenzione che gli farà vincere la Champions League.
Tammy Abraham, insomma, è stato superato dalla storia: ironico per uno che ha aspettato tutta la vita che la storia arrivasse. Deve averlo capito già questa primavera, quando intorno al Chelsea ha iniziato a circolare il nome di Erling Haaland. Alla fine sarà ancora più beffardo di così, perché a chiudere il suo cerchio a Londra sarà invece un altro attaccante cresciuto nel Chelsea con il mito di Drogba, cioè Romelu Lukaku. Per un cerchio che si chiude, però, ce n’è sempre un altro che si riapre, ed è una coincidenza non di poco conto che a farlo sia stata un’altra leggenda del Chelsea, l’allenatore che a Londra Drogba ce l’ha portato. José Mourinho era un suo fan da tempo, almeno dall’estate del 2019, quando nello speciale di Sky Sport “A day with José” lo consigliò proprio al Chelsea, allora alla ricerca di una giovane prima punta. Due anni dopo, un’incredibile successione di eventi glielo ha spinto tra le mani a Roma, dove entrambi sono chiamati a dimostrare di poter dare un nuovo inizio alla propria storia in un contesto completamente diverso da quello che avrebbero potuto immaginare anche solo pochi mesi fa.
Cosa ha visto, quindi, Mourinho in Abraham, che invece Tuchel non ha apprezzato? Forse delle caratteristiche che lo rendono poco adatto a un calcio codificato, associativo, fatto quasi esclusivamente nella metà campo avversaria. D’altra parte, l’allenatore tedesco è sempre sembrato poco attratto dagli attaccanti troppo vicini all’ideale classico del numero nove. Abraham è alto un metro e novanta, ma ha una struttura fisica piuttosto leggera - il corpo slanciato che si staglia verso il cielo come una canna di bambù, le gambe da fenicottero. Quando viene sulla trequarti a proteggere il pallone spalle alla porta a volte viene spostato dai difensori, quando gli spazi si restringono la palla sembra rimpicciolirsi e diventare lontanissima sotto le sue gambe lunghe per colpa di un primo controllo tutt’altro che perfetto. Per associarsi con il centrocampo Abraham deve giocare a uno, massimo due tocchi: in maniera minimale se è costretto a tornare all’indietro, oppure con idee ambiziosissime - colpi di tacco o di esterno - per servire i tagli dei compagni che gli sfrecciano alle spalle. La punta inglese è molto adatta a un calcio verticale in cui si pensa poco e il pallone corre: in questo senso è l’opposto tecnico di Dzeko, che invece viveva sulla trequarti per mettersi gli avversari alle spalle, mettere il gioco in pausa e creare come un numero dieci. Abraham non avrà mai la visione di gioco né la tecnica in fase di definizione dell’attaccante bosniaco, ma non è detto che essere così lontani dal proprio predecessore sia per forza un male, soprattutto nel nuovo regno di José Mourinho.
Abraham, innanzitutto, ha un’incredibile (vista la lunghezza delle gambe) velocità nel lungo, che gli permette di essere pericoloso nell’attacco della profondità, soprattutto in transizione. Ma se portare fisicamente il pallone in area da solo per lui potrebbe essere un problema, con una tecnica di base imperfetta che spesso gli fa scivolare via il pallone tra i piedi, diverso è il discorso se parliamo solo degli ultimi 16 metri.
L’area di rigore è la sua casa. Lo si capisce da alcune statistiche, come quella del numero di tiri in area di rigore: 2.3 per 90 minuti su 2.8 totali la scorsa stagione; solo cinque altri attaccanti in Premier League hanno tirato di più da dentro l’area. Ma soprattutto dai gol, non solo dal loro numero ma anche da come sono arrivati. Vedendoli uno dietro l’altro è difficile trovarne molti che potremmo definire belli in maniera convenzionale e la maggior parte sono nati da rimpalli, tap-in o tocchi con parti del corpo che non siamo abituati a vedere utilizzate per mettere il pallone in porta. L’ultimo dei sei gol segnati in Premier League la scorsa stagione, contro l’Arsenal, Abraham l’ha segnato di petto, deviando in rete un potentissimo cross teso di Hudson-Odoi. Andando ancora più indietro, ai tempi dell’Aston Villa, se ne trova uno addirittura di pube, utilizzato come scudo per rimpallare il pallone rinviato da un difensore sulla linea di porta.
Vi consiglio comunque tutti gli highlights di questa partita con il Nottingham Forest, finita 5-5 con quattro gol di Abraham.
Abraham non è un attaccante che plasma il contesto a suo piacimento, ma che si infila nei suoi spazi vuoti, che sa portare dalla sua parte le sue imprevedibilità. La sua qualità più grande non si può vedere a occhio nudo: Abraham non inclina il campo in conduzione quando vuole e non può dribblare i difensori utilizzando tutta la superficie del piede. Il suo talento sta nell’apparire dal nulla davanti al diretto marcatore, sapere prima dove andrà la respinta del portiere o il rimpallo della mischia in area. In questo senso, Abraham è il più classico dei numeri nove, quelli che basano le proprie fortune su quella qualità intangibile ma presente chiamata fiuto del gol.
Guardate per esempio i gol segnati con il Chelsea nella stagione 2019/20 prima dell’interruzione dovuta alla pandemia. Non ne mancano di belli e tecnicamente difficili - c’è un tiro al volo di controbalzo contro il Norwich, per esempio, ma anche una bella conclusione a incrociare contro il Wolverhampton dopo aver bruciato il difensore con un passo da schermidore - ma la maggior parte assomigliano a quello segnato allo Sheffield: un tiro schiacciato nato da un rimpallo casuale del portiere al centro dell’area. Ci sono gol nati da palloni lasciati in area dallo scontro di due difensori avversari, girate quasi da terra al limite dell’area piccola, cross bassi sfiorati appena allungando il corpo in scivolata. Questo talento nel farsi trovare al posto giusto al momento giusto, nel trasformare le occasioni potenzialmente pericolose in gol assicurati anche nei modi più assurdi, credo spieghi in parte anche i suoi dati sulla conversione, per la verità non eccezionali.
Finora, infatti, Abraham non ha mai superato le aspettative nella trasformazione degli Expected Goals in gol, nemmeno nei suoi anni migliori. Questo, credo, proprio perché gran parte delle occasioni che riesce a ritagliarsi non sono giudicate dal modello come difficili, cioè statisticamente improbabili da trasformare in gol, e in questo modo diventa quindi più difficile segnare di più di quanto si produce. Nella sua prima stagione tra i professionisti, al Bristol, Abraham segnò 20 non-penalty goals da 22.26 Expected Goals. Due stagioni più tardi, quando andò all’Aston Villa (sempre in Championship), segnò di nuovo 20 npg e da un numero di Expected Goals simili, 22.86. Nella famosa stagione 2019/20 al Chelsea, Abraham arrivò a 15 npg da 19.85 xG. Paradossalmente, in termini di conversione, quella appena passata è stata la sua migliore stagione, avendo segnato esattamente quanto in media ci si aspettava segnasse (6 npg da 6 xG). Ma il modello statistico degli Expected Goals misura la pericolosità di un'occasione nel momento in cui questa viene prodotta, non dice nulla sul talento di farsi sempre trovare nel momento e nel posto giusto per coglierla - di trovare, cioè, sempre il modo per segnare in qualche modo. Per quanto può sembrare controintuitivo, quindi, quello della finalizzazione sembra essere l'aspetto del suo gioco in cui ha più margini di crescita. Alla fine, non ha nemmeno 24 anni.
Abraham non sembra essere l’attaccante da cui aspettarsi gol impossibili che spaccano la partita (cioè quelli per cui la forbice tra il gol e l’Expected Goal è più ampia), ma quello che mette in rete quasi ogni occasione pericolosa, anche quella meno evidente, quello sì. E anche se questo spesso lo rende poco elegante (tranne quando segna di testa, unico fondamentale in cui può vantare una tecnica davvero sopra la media), non vorrei passasse il messaggio che sia un attaccante solo fortunato. Saper sentirela porta è un talento, e forse nessuna grande squadra italiana lo ha imparato a proprie spese più della Roma. Quello della trasformazione delle occasioni da gol era uno dei problemi strutturali della squadra giallorossa ancora prima dell’ultima disperata stagione con Fonseca, segnata nei suoi momenti clou da diversi errori sotto porta clamorosi. Ed è inutile girarci attorno: era un problema legato a doppio filo con le caratteristiche di un giocatore come Edin Dzeko - un attaccante tanto sublime nel creare e crearsi occasioni da gol tanto inconsistente nell’attaccare l’area di rigore e trasformarle in gol. Che la Roma per sostituirlo abbia scelto un profilo opposto ha perfettamente senso, purché Mourinho riesca a creare il contesto giusto contesto per metterlo nelle condizioni migliori per segnare.
Abraham, in questo senso, non sembra essere un attaccante autosufficiente quando viene lasciato da solo a coprire tutto il fronte d’attacco e non gli possono essere richiesti compiti diversi dall’attacco della profondità e dell’area. Le sue stagioni migliori sono nate con giocatori molto creativi alle sue spalle. Nel 4-2-3-1 in cui era inserito all’Aston Villa, per esempio, aveva dietro di sé con la dieci sulle spalle un giocatore taumaturgico come Jack Grealish, mentre i suoi momenti migliori al Chelsea sono arrivati quando Lampard giocava con il 3-4-2-1, e Mount e Willian alle sue spalle. Già alla fine della stagione 2019/20, con il passaggio al 4-3-3 e il conseguente svuotamento della trequarti, la sua influenza sul gioco è immediatamente diminuita fino alla perdita del posto a favore di Olivier Giroud. L’esigenza di inserire un giocatore molto diretto come Werner, e il tentativo di Lampard di metterlo sull’esterno, ha poi peggiorato ulteriormente le cose.
Per fortuna per Abraham, Mourinho a Roma sembra intenzionato a coprire il fronte d’attacco con due giocatori, schierati in orizzontale o in verticale a seconda degli uomini o delle situazioni di gioco. Alle sue spalle, quindi, potrebbe ritrovarsi uno tra Pellegrini, Shomurodov o addirittura Zaniolo che, con caratteristiche diverse, potrebbero tutti rappresentare per lui un buon match.
Che sia con una verticalizzazione improvvisa, con un cross o dopo una lunga corsa in conduzione, la Roma adesso deve preoccuparsi di capire come far arrivare la palla in area, perché il compito di metterla in rete sarà lasciata quasi del tutto a Tammy Abraham. Nella sua prima intervista ufficiale da giocatore la punta inglese ha dichiarato di «credere nella mia capacità di segnare». Alla fine, se c’è qualcosa che ha insegnato l’esperienza di Dzeko, che ha lasciato la capitale senza troppi cuori infranti dopo almeno un paio di stagioni di esasperazione, è in base a questo che sarà valutata la sua stagione a Roma, e su questo soltanto.