Tempo fa in un podcast danese Rasmus Hojlund venne paragonato a un altro numero nove danese, Andreas Cornelius. Con la giusta mentalità del giocatore che vuole crescere imparando da tutti quelli venuti prima di lui, impossessandosi dell’anima dei centravanti più vecchi come quelle versioni fumettistiche di selvaggi temevano fosse possibile con gli apparecchi fotografici, Hojlund parla con rispetto delle qualità di Cornelius. In particolare del suo colpo di testa, cosa che Hojlund ritiene di dover ancora migliorare.
Mentre parla gli viene in mente la partita tra Danimarca e Tunisia, giocata poco prima durante il Mondiale. Partita in cui Cornelius ha fallito un’occasione di testa a un metro dalla porta. Su un cross tagliato da sinistra, che aveva rimbalzato davanti a lui, Cornelius si è piegato per schiacciare la palla, riuscendo solo a sfiorarla con la fronte e a mandarla sul secondo palo alla sua destra. Allora Hojlund commenta con scandinava innocenza e altrettanto scandinava arroganza: «Beh io quel gol lo avrei segnato di cazzo».
«È un ragazzo che ha spirito» ha detto Gasperini di Hojlund dopo la recente partita con la Lazio. «Ha un’energia, un’intensità, una continuità… ma anche qualità tecniche».
Fino a qualche tempo fa il discorso comune sui centravanti era che ormai non bastasse più fare gol. Non solo quello, il gol era diventato un pre-requisito ma un attaccante doveva anche saper giocare con la squadra, spalle alla porta, tra le linee, eccetera eccetera. Il che è ancora d’attualità ma qualcosa sembra cambiato: oggi gli attaccanti più eccitanti, quelli che i tifosi vorrebbero nelle proprie squadre e che gli allenatori, anche i più raffinati come Guardiola, tengono lì davanti, sono degli squali, sbranano le difese e arrivano sui palloni con la bava alla bocca. Sono quegli attaccanti che una palla a mezza altezza la spingono dentro con il cazzo.
È questa qualità mentale e anche tecnica - in fin dei conti tutto è tecnica nel calcio - che rende eccitante Rasmus Hojlund e che spinge a paragoni magari esagerati. Il contesto in cui parlava Gasperini come detto era quello della partita con la Lazio, senza dubbio la migliore del danese in Serie A finora, in cui ha messo in mostra una velocità eccezionale.
L’azione in cui si autolancia nella metà campo della Lazio a inizio del secondo tempo, passando tra Hysaj e Luis Alberto come se loro corressero in salita e lui in discesa, spostando poi Luis Alberto come un bullo che gli passa davanti alla fila per un cocktail, ha spinto al paragone - più lusingante di quello con Cornelius - con l’archetipo dell’attaccante scandinavo alto e veloce, ovvero Erling Haaland. E in effetti questo tipo di superiorità atletica e fisica sugli avversari ce l’hanno in pochi. Appunto Haaland, Mbappé (che giusto lo scorso week-end è passato attraverso due difensori del Lille che non sono riusciti a neanche a placcarlo), Osimhen. Dopo essere arrivato a tu per tu con Provedel, però, Hojlund ha mancato la parte più facile dell’azione: la conclusione, calciandogli addosso di sinistro.
Per questo è più significativa quell’altra azione contro la Lazio, quella del gol del 2-0, per chiarirci le idee su cosa vogliamo da un attaccante, oggi, e su cosa vogliamo da Hojlund in prospettiva. Se possibile, una volta a partita o di più. In quel caso la velocità di Hojlund è altrettanto evidente: quando l’Atalanta recupera palla, a ridosso della metà campo, lui è cinque o sei metri più indietro rispetto alla linea difensiva laziale, addirittura dietro a Koopmeiners che però corricchia in direzione dell’area mentre Hojlund brucia l’erba del prato dell’Olimpico non appena Lookman prende palla. Ma in questo caso ha anche la sensibilità giusta per frenare una volta arrivato sulla linea di Patric, così da non andare in fuorigioco, e aspettare il passaggio, su cui poi si avventa in scivolata per essere sicuro di metterla dentro in qualche modo (anche con quella parte del corpo che avete capito da soli).
Vale la pena ricordare che Hojlund è arrivato in Serie A la scorsa estate, appena sei mesi dopo il passaggio precedente dal campionato danese a quello tedesco, motivato dal desiderio di giocare di più perché, come ha detto lui al sito della Bundesliga austriaca, «a Copenaghen non erano certi al cento per cento che fossi la next big thing». Arrivato allo Sturm-Graz a gennaio di un anno fa (doveva ancora compiere diciannove anni) ha segnato 6 gol in 13 partite nella seconda parte della scorsa stagione e poi altri 6 gol (più 3 assist) nelle 8 partite giocate tra luglio e agosto. L’Atalanta lo ha acquistato poco dopo che aveva esordito in Under 21 (giugno) e poco prima che esordisse in Nazionale maggiore (settembre).
Insomma, più che di un’esplosione fragorosa come è stata quella di Haaland - che, giusto per ricordarlo, il primo anno da titolare tra Salisburgo e Dortmund ha segnato 44 gol in 40 partite - quello di Hojlund sembra un graduale passaggio nella maturità. Gli scout bergamaschi hanno dovuto avere un certo coraggio per credere in lui al punto da investirci diciassette milioni (che secondo alcune fonti diventano 25 con i bonus) e nelle prime 15 partite stagionali, quelle precedenti alla pausa del Mondiale, quasi tutte giocate da subentrante, ha segnato appena un gol.
Sono cose che vanno tenute a mente non tanto per mettere le mani in avanti sul fatto che, magari, probabilmente, giocatori come Haaland sono l’eccezione all’eccezione, una casualità nell’universo, come se domani scoprissimo nello spazio un meteorite che somiglia a Mike Bongiorno. Il sottotesto nei paragoni altisonanti è sempre che quello che vediamo già non ci basta. Fissiamo l’ideale verso cui Hojlund deve tendere così poi, se non ci arriva, sarà colpa sua, anche se come tutti gli ideali anche questo (forse questo più di altri) sembra irraggiungibile. Tra l’altro questa non è la prima volta che per descrivere Hojlund viene usato Haaland.
A luglio dello scorso anno ha segnato una doppietta contro il RB Salisburgo, prima scivolando su un controllo sbagliato del portiere in impostazione, un gol simile a quello segnato al Lecce, e poi con un’azione simile a quella della Lazio, autolanciandosi alle spalle dell’ultimo difensore con tutta la metà campo a disposizione, finalizzando con un tiro alto. È stato Hojlund stesso in quel caso ad allontanare il confronto: «Non posso paragonarmi a lui, è un mostro, è incredibile!»; pur ammettendo qualche somiglianza: «Lui è veloce e sono veloce anch’io; lui è mancino e sono mancino anch’io; lui è forte fisicamente e anche io lo sono».
Pensate arrivare con questi presupposti - articoli che lo presentavano dicendo che il nuovo Haaland è in Serie A - e poi fallire occasioni come quelle che ha fallito contro il Napoli, a novembre, la seconda partita consecutiva in cui Gasperini lo faceva partire titolare. Su due palle molto simili, messe dentro da sinistra da Lookman, Hojlund vince il duello in velocità con la difesa napoletana ma poi fallisce la conclusione con il destro, tirando addosso a Meret nel primo caso (sullo 0-0) e calciando malamente fuori nel secondo (nel secondo tempo, con il punteggio già sul 1-2 per il Napoli).
In quella stessa partita Victor Osimhen aveva dato un assaggio di quello che deve fare oggi un attaccante dominante, segnando il primo gol con un colpo di testa incrociato sul secondo palo, dando poi l’assist per il secondo gol di Elmas vincendo un duello sporco e cattivo con Demiral su una palla profonda. Osimhen aveva lottato, aveva coperto la palla con tutti gli spigoli del suo corpo e una volta che Demiral era finito a terra, quasi dalla riga di fondo, ha avuto la lucidità di alzare la testa e cercare il compagno libero in area. Poco dopo il secondo errore Gasperini lo ha sostituito con Zapata e se qualcuno, vedendo quella prestazione, avesse pensato che Hojlund non era ancora pronto per quel genere di partite forse non avrebbe sbagliato.
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Non c’era niente che non andasse in Hojlund. O meglio, gli aspetti tecnici su cui doveva lavorare sono quelli su cui ancora oggi deve lavorare: il gioco di prima, il controllo e la protezione sul posto (in corsa invece è fenomenale per come usa il bacino e quel baricentro che, come ha sottolineato anche Gasperini, è relativamente basso e lo rende molto rapido), il gioco aereo. Ma quello che davvero sembrava mancargli sembrava quella qualità impalpabile che fa la differenza tra mettere la palla in porta in un modo o in un altro, con i piedi o con altre sporgenze del proprio corpo, e no.
L’Atalanta ha chiuso la prima parte di stagione con tre sconfitte e dopo quella con il Napoli Gasperini ha concesso solo mezz’ora in campo a Hojlund. Alla ripresa dopo il Mondiale, dopo mezz’ora della prima partita, Duvan Zapata si è infortunato ed è stato di nuovo il suo turno. Contro lo Spezia, subito dopo il suo ingresso in campo, l’Atalanta è andata sotto 2-0. Hojlund si procura una grande occasione con un taglio centrale alla velocità della luce che termina con il pallone sulle mani del portiere e, in generale, cerca di trasformare ogni azione in un pericolo per la difesa avversaria.
Protegge palla in fascia, con il suo busto lungo da serpente, e prova a girarsi con il tacco o con l’esterno e andarsene in profondità, fa ammonire un avversario (Kiwior) e perde qualche duello in cui invece i serpenti sembrano i giocatori dello Spezia e lui Lacoonte raddoppiato e triplicato. Sembra anche stanco, a un certo punto, e invece segna su una palla che pareva innocua arrivata da destra, con Kiwior attaccato alla sua schiena e attento solo a non fargli usare il sinistro. Hojlund controlla con l’esterno sinistro mettendo metro di spazio tra sé e l’avversario, si gira, finta di voler andare sul sinistro e se l’allunga sul destro. Il tiro non è un granché ma abbastanza improvviso da sorprendere Zovko (portiere bosniaco del 2002, entrato al posto di Zoet: questa per ora è stata la sua unica presenza) e passargli sotto le mani.
Un gol che sembra essere stato generato da quella stessa qualità invisibile di cui parliamo dall’inizio di questo pezzo. Più difficile delle occasioni avute con il Napoli, realizzato con quello stesso piede debole con cui Hojlund non ha neanche controllato il pallone a inizio azione. Un gol, insomma, che Hojlund ha fatto nell’unico modo in cui avrebbe potuto farlo. Non è questo, in fin dei conti, il segreto dell’arte del centravanti, trovare il modo, qualsiasi esso sia?
A quel punto Hojlund si sblocca e segna nelle tre partite successive. Con il Bologna, su assist di Lookman, controlla male la palla di sinistro, allungandosela al limite dell’area, poi però ha la freddezza di scavalcare Skorupski con un tocco sotto. A questo punto finalizzare l’occasione sembra scontato per Hojlund, contro la Salernitana (la partita finita 8-2 che è costata il primo esonero di Nicola) fa cinquanta metri di corsa palla al piede, con Fazio più o meno alle calcagna, e conclude con un diagonale rasoterra di sinistro.
Poi in Coppa Italia, sempre contro lo Spezia (5-2 per l’Atalanta) segna un gol che, effettivamente, sembra proprio un gol di Haaland. Con un controllo di destro con cui si allarga per calciare di sinistro, al limite dell’area, seguito da un tiro violento e improvviso di collo pieno, che colpisce la parte inferiore della traversa ed entra in rete. Hojlund ha calciato così forte e con una torsione così innaturale che nel farlo è caduto schiena a terra.
A quel punto sembrava fosse fatta. Come se fosse scontato che Hojlund si mettesse a segnare improvvisamente un gol a partita. Nelle successive quattro, invece, è andato in bianco e in particolare contro Juventus e Inter (in Coppa Italia, sconfitta 1-0), quando gli spazi si sono contratti, ha sofferto la fisicità, il senso dell’anticipo e della posizione di Bremer e De Vrij. E a pensarci bene, forse non è poi così strano che Hojlund a vent’anni sia dominante e superiore in duelli contro giocatori come Fazio e Hysaj (o Luis Alberto) ma che fatichi ancora contro l’élite. Anche se è già una delle sue qualità migliori, forse tra le cose che può ancora sviluppare per entrare davvero nell’1% dei migliori attaccanti al mondo c’è proprio l’utilizzo del corpo e della propria forza.
Certo deve stare attento a non perdere in agilità e rapidità. Perché per il momento è soprattutto l’intensità ad esaltare le sue doti tecniche rendendolo pericoloso non appena davanti a lui c’è anche solo poco spazio a disposizione. Il gol contro il Lecce in aggressione su Falcone, lento a gestire un retropassaggio, è una buona dimostrazione di come all’interno di ogni partita ci siano momenti in cui può fare la differenza con la sua velocità, di gambe e di pensiero.
Al tempo stesso, nella sconfitta contro il Lecce (1-2) che ha messo l’Atalanta a 3 punti di distanza dalla zona Champions, Hojlund è sembrato spesso macchinoso e a disagio nel gestire i palloni sulla trequarti, anche quando Baschirotto gli lasciava spazio per girarsi. Ma così torniamo alla stessa domanda dell’inizio: cosa vogliamo da un attaccante, cosa vogliamo da Hojlund? Che faccia le rifiniture al limite dell’area o che domini l’area di rigore, vincendo i duelli negli ultimi centimetri prima della porta?
L’Atalanta quest’anno aveva bisogno di sostituire Zapata, di qualcuno con il suo volume di gioco e con la capacità di tenere palla e far salire la squadra di venti, trenta, quaranta metri. Forse Hojlund non è quel tipo di giocatore, ma nel frattempo anche l’Atalanta ha scoperto di non essere più quella di qualche anno fa. Il suo profilo è adatto a una squadra con un baricentro leggermente più basso, che gli allunghi il campo da percorrere in verticale, cercando di andare direttamente in porta da solo o con l’aiuto dei compagni.
Il paragone con Haaland è inutile, se non dannoso, ma è quello il tipo di giocatore che Hojlund sembra poter diventare: un attaccante da profondità, magari semplice e basilare nel gioco di raccordo (anche se adesso si sforza di essere brillante anche in queste situazioni) ma brutale quando è messo fronte alla porta. E se persino Haaland viene criticato per come partecipa al gioco del City, nonostante i 32 gol stagionali a fine febbraio, paradossalmente Hojlund deve sforzarsi di giocare meno con i compagni, di fare meno tutto quello che non lo porta ad avere un’occasione da gol.
L’area di rigore è geograficamente piccola, ma per conoscerla davvero serve tempo e un desiderio inestinguibile, un’insoddisfazione perenne per quella palla che deve essere tua, che deve entrare per forza di cose in porta. Di sinistro, di destro, di testa. A volte persino con il cazzo.