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Cosa rappresenta la finale di Paolini per il tennis italiano
14 lug 2024
14 lug 2024
Ricordiamoci anche da dove siamo partiti.
(foto)
Foto di Antoine Couvercelle / Panorama / Imago
(foto) Foto di Antoine Couvercelle / Panorama / Imago
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Dopo la sconfitta di Coco Gauff agli ottavi di finale, contro Emma Navarro, ci si è trovati nell’insolita situazione in cui ai quarti del singolare femminile di Wimbledon la seconda testa di serie più alta rimasta in tabellone era la numero 7, una giocatrice italiana, Jasmine Paolini. Elena Rybakina (numero 4), aveva già vinto il torneo nel 2022 ma restava una candidata imprevedibile. All'interno della stessa partita alternava picchi di gioco clamorosi a fasi in cui stacca la spina più o meno completamente.

Per questo motivo, oltre anche alla fiducia accumulata al Roland Garros, era lecito considerare Paolini come una delle favoritissime, se non addirittura la favorita assoluta sulla carta, per la vittoria del torneo più prestigioso del mondo che resta tuttora stregato per i tennisti italiani nei singolari, sia femminile che maschile.

Jasmine Paolini ha riportato una donna italiana ai quarti di finale a Wimbledon per la prima volta dopo 6 anni, e cioè dopo la sconfitta del 2018 di Camila Giorgi contro Serena Williams, e per la terza volta negli ultimi 35 anni – ci riuscì Laura Golarsa nel 1989, ci era tornata Francesca Schiavone nel 2009. Mai come questa volta, tuttavia, anche per via di alcune combinazioni favorevoli sembrava finalmente possibile l’exploit di un'italiana nell’unico Slam che ci manca ancora da vincere in singolare, tra maschile e femminile.

Le scorpacciate di finali e vittorie Slam che il tennis italiano ci sta regalando dal 2010 a oggi, dalla vittoria del Roland Garros di Schiavone in poi, rendono ancora più amara questa sconfitta per via del classico processo di assuefazione. Tutti gli appassionati che hanno più di 25-30 anni ricordano sempre quanto eccezionale fosse, fino a 15 anni fa, un traguardo considerato oggi banale per i nostri giocatori, come può essere l’approdo alla seconda settimana in un Major. Jasmine Paolini ha ottenuto la seconda finale consecutiva, è già praticamente la seconda tennista italiana più forte di sempre, eppure la sensazione che prevale, a poche ore dalla finale, è quella dell’occasione persa. Il nostro movimento è cresciuto così tanto che la vittoria di un Slam ostico come Wimbledon sembra, a questo punto, un atto dovuto.

Basterebbe ricordarsi da dove era partita Jasmine Paolini, l'eccezionalità e la peculiarità del suo percorso, per esserle grati senza indugi, per non dare nulla per scontato; persino, per ridimensionare l'amarezza. Eppure da ore nei nostri ricordi corre in streaming quel momento: quel terrificante doppio fallo sul 3-3 contro la ceca Barbora Krejcikova, l'ultimo ostacolo alla vittoria finale, che ci sembrava anche il più superabile.

Una sensazione nata col tarlo. Krejcikova negli ultimi mesi è scesa alla posizione 32 del ranking, ma era una campionessa Slam, vinse il Roland Garros nel 2021, vinse Wimbledon nel doppio; è una giocatrice, in generale, di grande caratura. Certo, Paolini sembrava arrivare con un'inerzia diversa ma ricordiamoci che prima di questa edizione non era riuscita a vincere nemmeno un match nel tabellone principale all'All England Club.

La superficie fa ancora la differenza

Allarghiamo ulteriormente la prospettiva. Se contiamo anche le partite di qualificazione, Jasmine Paolini in tutta la sua carriera a Wimbledon fino a due settimane fa aveva vinto solamente un match su 7 disputati, contro la britannica Eden Silva – all’epoca numero 601 del mondo – nel 2017. Contando tutti i tornei su erba in carriera, anche nel circuito ITF, il suo score era di 6 vittorie e 13 sconfitte. Suona quindi strano e perfino ingiusto parlare di delusione nel momento in cui la giocatrice toscana ci aveva illuso di poter portare a compimento un’impresa incredibile, salvo poi commettere qualche errore di troppo nelle fasi decisive. Come spesso capita, del resto, anche gli errori che sembrano più banali – il doppio fallo sulla palla break del 3-3, la risposta in rete sulla seconda di Krejcikova nel penultimo punto – sono frutto di dinamiche tecniche, tattiche e quindi psicologiche anteriori alla singola esecuzione infelice.

Krejcikova, statisticamente, non aveva uno score così chiaramente migliore di Paolini nelle partite giocate in carriera su erba prima di questo torneo – 13 vittorie e 11 sconfitte – eppure in due fasi della partita, sia nell’approccio iniziale che nella stretta decisiva del finale, ha sfoggiato un naturale adattamento alla superficie ben superiore all’italiana. La logica conseguenza è che il gioco della ceca è stato più fluido, più in controllo sia degli scambi più elaborati che nei colpi di inizio gioco. Nelle fasi in cui ha invece prevalso Paolini, la sensazione è che fosse riuscita a mettere in moto il suo tennis – il suo dritto in particolare – con un assestamento progressivo a una superficie che, per quanto le abbia regalato la finale più importante della sua carriera, continua a esserle almeno in parte indigesta. Non fraintendetemi: Paolini ha giocato un grande torneo, costellato di grandi partite, ma per riuscirci è dovuta andare oltre sé stessa, e le proprie caratteristiche, ben oltre quanto fatto al Roland Garros. Una testimonianza della sua forza mentale, e della sua capacità di adattamento. Alcuni pesi tecnici hanno però continuato a pesare sul suo gioco, ineludibilmente.

Ivan Ljubicic in commento su Sky Sport, durante i quarti di finale contro Navarro, sottolineava come l’impugnatura del dritto di Paolini – oltre all’apertura ampia, aggiungiamo noi – non sia teoricamente adatta all’erba, ma anche che il suo dritto, una volta trovato il tempo per poter essere caricato a pieno, fa ovviamente molto male anche sui prati. Nel primo e nelle fasi conclusive del terzo set, principalmente per la tensione, Paolini non è riuscita a dare sufficiente velocità all’avambraccio per caricare rapidamente il suo dritto: molto spesso è andata in difficoltà direttamente all’uscita dal servizio, subendo le risposte anticipate, piatte e profonde di Krejcikova, che le hanno causato problemi all’apertura del dritto simili a quelli che su questi campi talvolta patiscono, ad esempio, Nadal o Musetti. Il risultato è stato che, al termine della partita, Paolini abbia vinto una percentuale piuttosto bassa di punti dopo aver messo la prima di servizio in campo – 61%.

Un esempio dell’incisività della risposta della ceca.

La risposta di Krejcikova è stata quindi probabilmente l’arma tattica che più di ogni altra ha fatto la differenza nella partita. Soprattutto sul lato del rovescio, la ceca ha mostrato una sicurezza e una solidità in questo fondamentale che certamente hanno testimoniato perché abbia vinto tutti e 4 gli Slam in doppio femminile. Il controllo sul gioco di Krejcikova nelle fasi iniziali e finali della partita ha impedito a Paolini di sfruttare quella costanza e quella capacità di spostare l’avversaria, di farla muovere in corsa, che tanto avevamo invece ammirato per esempio a Parigi nella semifinale contro Mirra Andreeva, su un terreno chiaramente diverso dove c’è più margine di manovra.

Paolini manovra bene, sposta lateralmente Krejcikova: non chiude però la volée alta e la ceca si appropria del punto in un attimo, tirando due botte piatte di dritto.

Insomma, checché ne dica un luogo comune piuttosto diffuso, le superfici nel tennis professionistico non sono per niente tutte uguali e hanno ancora una marcata incidenza sul gioco. Se questa dinamica di uniformità può sembrare credibile nel tennis maschile perché i favoriti restano più o meno gli stessi ad ogni Slam, questo avviene perché evidentemente gli uomini hanno raggiunto un grado di completezza del loro gioco che li rende adattabili immediatamente a ogni terreno. Viceversa, dopo che per anni questa stessa dinamica è sembrata perpetrarsi anche nel circuito femminile, nelle ultime stagioni le donne vincitrici Slam hanno iniziato a differenziarsi un po’ di più anche in base alla superficie di gioco. Forse perché, va detto, dopo anni in cui abbiamo assistito all’ascesa di atlete che sembravano inscalfibili, le tenniste dell’epoca attuale mostrano certamente dei picchi altissimi ma anche qualche lacuna in più, che inevitabilmente viene fuori nelle condizioni meno favorevoli di gioco, com’è stato proprio nel caso di Paolini nella finale di Wimbledon.

La sua avversaria, del resto, ricalca piuttosto fedelmente lo stereotipo della tipica tennista della Repubblica Ceca, alta, dal servizio efficace e dai colpi piatti e anticipati. La sua vittoria al Roland Garros nel 2021 non solo ci testimonia la sua duttilità, ma doveva anzi essere un campanello d’allarme sul fatto che Krejcikova, a differenza di Paolini, avesse già sperimentato – con successo – l’atmosfera di una finale Slam giocata con delle responsabilità e non invece – come successo per l’italiana contro Iga Swiatek a Parigi – a braccio libero, con quasi nulla da perdere. Il risultato è stato che la tassa psicologica d’ingresso, per motivi sia di condizioni di gioco che di importanza della partita, l’ha pagata solamente Paolini. Ed è un giochino inutile e pretestuoso, ma forse rappresenta la realtà, sostenere che se la stessa finale l’avessero giocata sulla terra, sarebbe andata diversamente.

Che cosa rappresenta questa finale per Paolini e per il nostro tennis

Non servirebbe neanche dirlo, ma la sconfitta non riduce di molto la portata dell'impresa. Jasmine Paolini ha iscritto il proprio nome a una lista ristrettissima e di élite di tennisti e tenniste che, negli ultimi 17 anni, hanno raggiunto nello stesso anno la finale prima al Roland Garros e poi a Wimbledon. I nomi sono: Roger Federer, Rafael Nadal, Novak Djokovic, Serena Williams e Andy Murray. Inutile aggiungere quanto sia straordinaria questa coppia ravvicinata di risultati di Paolini, che nel frattempo aveva giocato – e purtroppo perso – anche la finale del doppio femminile a Parigi in coppia con Sara Errani.

Paolini è una giocatrice maturata negli anni, senza colpi né qualità fisiche naturali da superstar, ma con un’intelligenza e una costanza piuttosto rare, che diventano un incubo per le tenniste dal rendimento più altalenante – Andreeva al Roland Garros, Keys e Vekic a Wimbledon. Dietro quell’ormai famoso sorriso e la totale disinvoltura ai microfoni durante le premiazioni nei palchi più prestigiosi, come se fosse una campionessa navigata, si celano certamente una forte consapevolezza di sé, sia dei suoi pregi che dei suoi limiti. Un’arma potentissima nel tennis, spesso più di un servizio e un dritto cannone, soprattutto in un panorama come quello femminile dove le gerarchie sembrano un po’ instabili.

Certo, per le sue caratteristiche tecniche giocare la finale di Wimbledon contro una tennista certamente forte, ma non irresistibile, appare un’occasione forse irripetibile per vincere il torneo più prestigioso del mondo. Se presa nel verso giusto, tuttavia, questa cavalcata può dare tantissimo slancio emotivo verso possibili conquiste su terreni più favorevoli. Non ho dubbi sul fatto che Paolini saprà ripartire dalle fondamenta del suo tennis, mantenendolo vario, costante e, se vogliamo, umile. Certo, le campionesse non mancano ed esiste il rischio che Paolini possa restare una meteora come troppe altre giocatrici – Ostapenko, Raducanu, Andreescu. Un rischio, da commentatori, imprevedibile. Il fatto che Paolini sia esplosa a questi livelli a 28 anni, tuttavia, appare un fattore rassicurante. Per riuscire ad arrivare dove è oggi, Paolini ha dovuto lavorare sulla propria maturità e sulla propria consapevolezza più di delle altre tenniste citate. Un percorso che può essere una garanzia per la sua futura continuità.

Il nostro tennis ne esce ulteriormente rinvigorito, soprattutto perché Paolini spezza definitivamente quella narrazione sulla generazione bucata che caratterizzava il movimento femminile dopo le quattro big – Schiavone, Pennetta, Errani, Vinci – e nell’attesa delle giovani, di Elisabetta Cocciaretto in particolare. Come e più di quanto fatto da Marco Cecchinato nel 2018, Paolini può fungere anche da effetto traino in senso più stretto sulle altre giocatrici italiane di alto livello, e in senso più ampio anche sulle giovani ragazzine che possono appassionarsi e ispirarsi a lei, alla sua saggezza e alla sua positività, oltre al fatto di testimoniare di poter eccellere senza avere una statura elevata considerata ormai lo standard per un campione di questo sport.

Sembrava l’anno buono per Berrettini nel 2022 e per Sinner quest’anno, sembrava quello di Paolini dopo i quarti di finale, ma Wimbledon resta ancora una roccaforte inespugnabile per gli italiani nei tornei di singolo – e del resto fu lo Slam più difficile da vincere anche per la coppia Errani/Vinci in doppio. Lo sport ci insegna tuttavia che né le vittorie e né le sconfitte sono tutte uguali: la comprensibile delusione per una sconfitta sostanzialmente all’ultimo chilometro prima del traguardo non deve però prevalere sulla consapevolezza che una giocatrice lontana dagli standard dell’erba si sia costruita, con grandissima abnegazione, la possibilità di riuscire in un’impresa. E questo fatto è già esso stesso un’impresa.

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