La Serie A non è un campionato di dribblatori. Più di tre anni fa scrivevamo della diffidenza del nostro calcio verso i giocatori tecnici, che provano giocate rischiose. La Serie A era indietro nelle classifiche dei dribbling tentati rispetto a praticamente tutti gli altri campionati, e oggi la situazione non è cambiata.
L’unica cosa davvero cambiata è che è arrivato un dribblatore d’élite nel nostro campionato, Kvicha Kvaratskhelia. Arrivato con la fama di grande dribblatore, è riuscito a confermarla anche nel contesto più arduo da questo punto di vista. Kvaratskhelia è stato raccontato come una persona ossessionata dal dribbling. Il suo primo allenatore ha raccontato: «Aveva in testa il dribbling, era una piccola ossessione per lui. E noi non gli abbiamo mai detto di smettere, di non farlo, non l’abbiamo mai chiuso in un ruolo. A 13 anni ha giocato anche come terzino destro, volevamo insegnargli a capire i movimenti dei difensori». Per molti dribblatori, a dire il vero, il dribbling viene raccontato come un'ossessione, un tarlo con cui si nasce e che trasfigura l'esistenza. Un altro dribblatore seriale come Boufal ha il suggestivo soprannome di "l'enfant du dribble". Il dribbling, del resto, è uno dei misteri del calcio, uno dei gesti tecnici meno replicabili. Pep Guardiola ha definito il dribbling "un trucco".
Kvaratskhelia ha molti modi per saltare l’uomo: dribbla nello stretto attraverso la tecnica e quando il campo s’allunga grazie a un passo rapido sempre in modo un tantino sorprendente. C’è qualcosa di unico però nel suo stile di dribbling. Non ha l’esplosività degli specialisti del dribbling contemporanei (Saint Maximin, Boga, Adama Traorè), né un repertorio di finte e trick particolarmente barocco (Neymar, Sancho, Anthony, Vinicius). Col calzettone basso e le gambe lunghe, un’andatura caracollante, c’è qualcosa di retrò nello stile di dribbling di Kvaratskhelia. Qualcosa che lo fa somigliare a un’ala di cinquant’anni fa. Il modo in cui cambia direzione con l’interno del piede, per esempio, dopo alcuni piccoli tocchi a rientrare verso il campo. «Tutto ciò che studieranno non servirà a fermarmi» ha detto con tono da cowboy qualche settimana fa.
Doppia finta, destro e sinistro.
In questi mesi per trovare un paragone efficace è stato usato un giocatore del passato come George Best. Un’ala che esprimeva l’essenza stessa del dribbling, e cioè che chi ha il pallone controlla lo spazio e il tempo, e chi difende è sempre costretto a rincorrere. Ha sempre una frazione di tempo e spazio mancante rispetto a chi attacca. Non può conoscere le sue intenzioni, non può sempre gestire il modo in cui quello manipola il tempo e lo spazio. Kvaratskhelia, come Best, non sembra andare particolarmente veloce, ma non conta perché è lui a controllare il tempo. I suoi dribbling si basano sui cambi di passo e di ritmo, su esitazioni e accelerazioni. Sull’idea, semplice, che è sempre lui a fare la prima mossa e i difensori sono costretti a reagire. Il suo equilibrio sugli appoggi lo rende particolarmente difficile da leggere in anticipo.
È uno stile asciutto, anzi, semplice, che è così raro da farci pensare che Kvaratskhelia abbia imparato a giocare a calcio in un contesto in cui non sono arrivati i video YouTube di Ronaldinho, Neymar, Riquelme e di tutti quei dribblatori che hanno arricchito di sbuffi l'arte del saltare l'uomo.
È interessante però chiedersi quali sono gli effetti dei dribbling di Kvaratskhelia. Il georgiano ha già fatto 12 gol e servito 12 assist ed è riduttivo definirlo solamente “un dribblatore”. In un campionato come il nostro la sua capacità di dribblare risulta quasi esotica, curiosa. Con 2.39 dribbling riusciti per 90 minuti solo Lameck Banda - uno specialista puro del gesto - ne completa di più (2.44). Se però lo confrontiamo con i giocatori degli altri campionati, i suoi numeri sono tutt’altro che quelli di un dribblomane. Diciamo subito che Kvaratskhelia non è un giocatore il cui impatto in campo può essere ridotto esclusivamente al dribbling. Piuttosto, usa il dribbling come la chiave per arrivare a definire l’azione.
C’è una dimensione che salta all’occhio. Kvaratskhelia può ricevere in una situazione innocua e statica e generare un pericolo dove non sembra esserci. Come lui nessun altro in Serie A, a parte Rafael Leao. C’è però una dimensione più invisibile, che è fatta dai vantaggi indiretti che i dribbling di Kvaratskhelia portano alla squadra. Il fatto stesso che rappresenti una minaccia simile, genera una gravità in campo: dei suoi compagni che si possono muovere in relazione a lui, e degli avversari che sono costretti a raddoppiarlo per togliergli lo spazio di rifinitura - o a concederglielo involontariamente per non farsi saltare. Con i suoi cambi di direzione, la tecnica imprevedibile in spazi stretti, Kvaratskhelia spinge all’indietro i difensori, al punto che non ha nemmeno bisogno di mettere a referto un dribbling. Questo è anche uno dei motivi per cui il suo numero di dribbling, pure alto, non è straripante: il più delle volte Kvaratskhelia non ha bisogno di superare l’avversario per essere pericoloso, per ricavarsi una rifinitura. La minaccia stessa del dribbling sposta il centro di gravità dell’azione da una zona innocua a una pericolosa.
Per capire di cosa stiamo parlando, più nello specifico, prendiamo quella che ormai potremmo definire l’azione tipo di Kvicha Kvaratskhelia. Prende palla sull’esterno del campo, non troppo defilato, e comincia a correre a piccoli tocchi guardando davanti a sé. Kaurou Mitoma ha scritto nella sua tesi di laurea sul dribbling che a caratterizzare i grandi dribblatori c’è il fatto che non guardino il pallone ma sempre davanti a sé. I difensori hanno imparato a temerlo e spesso non intervengono, si limitano a indietreggiare. Mentre Kvaratskhelia porta avanti la palla a piccoli tocchi, prepara la mossa successiva. In questo caso, in Champions League contro il Liverpool, Milner corre all’indietro - forse terrorizzato dalla partita d’andata - e lui allora si prende tutto lo spazio che gli viene concesso, per poi scegliere il momento giusto per scaricare all’indietro su Ndombelé, ormai nell’area di rigore.
In questo caso usa il sinistro per andare al centro. Come aveva scritto Daniele Manusia nell’articolo che lo presentava, Kvaratskhelia ha nell’ambidestria (non totale, ma comunque significativa) uno dei suoi principali punti di forza. I suoi avversari non possono difenderlo cercando di farlo pendere su un piede solo. O meglio, qualcuno lo fa anche, perché concedergli il destro a rientrare è forse la mossa più stupida che si possa fare. Solo che anche col sinistro è capace di trovare rifiniture corte come quella sopra, o lunghe come nel caso del gol di Osimhen alla Roma. Un gol propiziato da una giocata tecnica di Osimhen, certo, che però viene pescato con una parabola che scavalca al millimetro tutte le teste dei difensori. Contro il Sassuolo abbiamo visto anche un altro pezzo del suo repertorio, un cross d’esterno che ha trovato Osimhen ancora sul secondo palo - è uno schema ormai consolidato: quando Kvara sta per crossare, Osimhen si stacca sul secondo palo.
Ha già servito assist in tutti i modi, ma le azioni che ha più meccanizzato sono i cross sul secondo palo, o i passaggi verso il giocatore che arriva a rimorchio. I cosiddetti cross in cutback, che sono tipici delle squadre fortemente strutturate in fase di possesso.
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Kvaratskhelia raramente forza una situazione di uno contro uno, ma sfrutta lo spazio che si ricava con la sua visione di gioco. Ndombelé sa già che quel movimento può essere premiato e Kvara lo aspetta.
A renderlo imprevedibile c’è anche il fatto che calcia bene in porta con entrambi i piedi. E così tutto il repertorio di cambi di passo ed esitazioni gli serve spesso anche per ricavarsi la conclusione. Gli ultimi due gol segnati, contro Cremonese e Sassuolo, ne sono un esempio. In entrambi i casi Kvatatskhelia porta avanti il pallone in modo minaccioso e i difensori cercano di contenere i danni. Non intervengono, scappano all’indietro. Allora lui si prende lo spazio concesso con un tiro che, dopo mille finte, risulta illeggibile. Entrambe le conclusioni finiscono per passare sotto le gambe dei difensori.
La diffidenza della Serie A verso il dribbling risiede nel nostro timore antropologico nei confronti del rischio. Un giocatore che prova a saltare l’uomo si prende un rischio: basta perdere un duello per ritrovarsi a difendere all’indietro una transizione. Solo Beto e Radonjic perdono più palle di Kvaratskhelia in Serie A. Il Napoli però ha costruito un sistema che protegge la squadra dai rischi delle palle perse. La palla persa non è un grande problema, in fondo, se si perde in una zona poca pericolosa del campo e si applica bene la riaggressione. Il Napoli è la squadra di Serie A con più riaggressioni nella parte finale del campo (dati Statsbomb). A quel punto la palla persa può trasformarsi persino in un’opportunità.
Però continuiamo a diffidare dell'utilità del dribbling, a considerarla un vezzo individuale. Per questo qualche giorno fa abbiamo scritto dell'utilità dei dribbling di Leao nella partita col Tottenham dopo che la sua partita era stata commentata negativamente. Non della bellezza dei dribbling di Leao: della loro utilità.
Nel frattempo è il secondo anno di seguito che la squadra prima in classifica ruota attorno alla creatività di un grande dribblatore, dopo il Milan con Rafael Leao. Come sappiamo, la Serie A è un campionato in cui ci si difende ancora molto in maniera posizionale, stringendo gli spazi attorno alla porta. L’efficacia, e la diffusione, di queste strategie sembra legata a doppio filo dall’assenza di grandi dribblatori. Giocatori come Leao e Kvaratskhelia dimostrano, di riflesso, quanto può rivelarsi fragile quello stile difensivo di fronte a giocatori bravi a saltare l’uomo.