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Cosa rende unico Fortnite
02 nov 2018
Il videogioco della Epic Games potrebbe rivoluzionare il mondo degli eSports.
(articolo)
15 min
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Il 15 luglio, durante la finale dei Mondiali russi, Francia e Croazia si sfidano per il titolo. Alla mezz’ora di gioco il punteggio è fermo sull’1-1 dopo l’autogol di Mario Mandzukic e il pareggio di Ivan Perisic. Al 38’ la VAR assegna un rigore alla Francia per fallo di mano di Perisic in area: Antoine Griezmann segna dal dischetto e porta i “Bleus” avanti 2-1. L’attaccante dell’Atletico Madrid si porta la mano alla fronte con l’indice e il pollice in perpendicolare, mentre inscena la danza “Take the L”. È in questo momento che il grande pubblico internazionale scopre l’esistenza di Fortnite. In realtà, però, non è la prima volta che Griezmann sfoggia la sua interpretazione della “Take the L”, dove la L sta ovviamente per looser. Nella stagione 2017/2018 all’Atletico Madrid è diventata la sua esultanza preferita, ripetuta più volte.

Come molti ormai sapranno, l’esultanza di Griezmann richiama la sua passione per Fortnite, il videogioco prodotto dalla Epic Games che a un anno esatto dalla sua presentazione sul mercato ha monopolizzato l’attenzione mediatica, anche al di fuori dal mondo dei videogiochi. Fortnite rientra nel genere dei Battle Royale: decine di giocatori si ritrovano su una mappa, tutti contro tutti o a squadre (da 2, 3 o 4) e chi rimane vivo per ultimo vince. Lanciato nel giugno 2017, non riscuote immediatamente grande successo, oscurato dalla cavalcata trionfale di PlayerUnkonwn’s Battlegrounds (PUBG), che da marzo dello stesso anno ha aperto il mercato dei videogiochi e degli esport ai Battle Royale.

Prima di Fortnite

Ma neanche PUBG è il primo titolo di questo genere a presentarsi ai videogiocatori. Gli esempi precedenti più famosi sono H1Z1, Arma 2 e Minecraft, videogiochi che prevedono server in cui i giocatori si affrontano con armi e armature su mappe delimitatem finché non ne rimane uno solo: esattamente come nel film giapponese del 2000, diretto da Kinji Fukasaku e basato sull’omonimo romanzo distopico scritto da Koushun Takami, chiamato per l’appunto Battle Royale, da cui il genere videoludico prende il nome.

È però PUBG a sdoganare definitivamente la modalità raggiungendo un successo oltre ogni immaginazione fin dai primi mesi. Nonostante il costo, circa 30€, e l’essere ancora una versione alpha del gioco finale, il titolo è volato nelle vendite su Steam: nei primi tre giorni dal suo rilascio ha fatturato addirittura 11 milioni di dollari, e nel primo mese ha venduto un milione di copie con i guadagni che sono schizzati oltre i 34 milioni di dollari, superando i numeri di Overwatch e Counter-Strike: GO. A dicembre 2017, la stessa casa produttrice Blue Hole dichiara che i giocatori hanno superato i 30 milioni. Nel frattempo sono arrivate le versioni XBox, che in un mese diventa il quarto gioco più venduto di sempre negli Stati Uniti, e mobile, che ad agosto 2018 ha superato i 100 milioni di download.

Insomma, sembra che fosse lo stesso pubblico a chiedere disperatamente un titolo in questo genere e la Epic ha capito alla svelta che poteva adattare Fortnite nella modalità Battle Royale.

Come funziona Fortnite

Fortnite prevede diverse modalità ma è il Battle Royale, manco a dirlo, quella più giocata. Epic Games ha deciso dopo poco di farne un titolo dedicato, presentandolo a settembre 2017. Le caratteristiche di base non cambiano: si gioca da un minimo di 80 a un massimo di 100, tutti catapultati sulla stessa mappa. La prima macroscopica differenza tra PUBG e la versione Battle Royale di Fortnite è che la Epic decide di rendere quest'ultima disponibile gratuitamente: nessun costo per il videogiocatore nella sua corsa verso la vittoria, solo la propria abilità. Qualsiasi altro contenuto oltre l’esperienza di gioco, però, è a pagamento: le skin, ovvero i costumi dei vari personaggi tra cui si può scegliere, decorazioni, danze celebrative delle vittorie (come la "Take the L") e altri aspetti che migliorano l’esperienza visiva ma non sono necessari per vincere o dimostrare di essere i migliori. Sono le microtransazioni, un modello di business su cui si basa anche League of Legends, tanto per citarne uno.

La seconda differenza è lo stile cartoonato. Se la Blue Hole ha cercato di realizzare PUBG nel modo più realistico possibile, Fortnite è indubbiamente più semplice e più scanzonato dal punto di vista grafico. Uno spirito che si nota fin dalla prima esperienza: non ci si paracaduta da un aereo ma da uno scuolabus volante che si libra nell’aria grazie alla mongolfiera a cui è ancorato. Il vinder bus percorre una linea retta sorvolando l'area di gioco; i giocatori scelgono il momento in cui paracadutarsi e fluttuano sino all'area preferita. Una volta a terra, è il momento di visitare più strutture possibili: case, centri di ricerca, campi sportivi, tutti abbandonati ma colmi di forzieri e casse che contengono armi e munizioni, nonché pozioni per il recupero della vita e armature. Il solo piccone di partenza non può essere sufficiente, d’altronde, soprattutto negli scontri a distanza, ma è indispensabile per “rompere” tutto ciò che ci circonda.

Qualsiasi contenuto, che siano alberi o calcestruzzi o autovetture, può essere distrutto per ricevere in cambio materiali. È questa la seconda grande differenza con altri Battle Royale: la possibilità di ottenere non solo armi ma anche materiali per poter costruire strutture personalizzate. Legname, metallo e pietra sono le tre materie prime che è possibile raccogliere per realizzare rampe, divisori e varie strutture difensive: c’è chi costruisce torrette altissime, chi crea ponti da un palazzo all’altro. È come aver preso a prestito la componente “fai-da-te” da Minecraft che trasforma i videogiocatori in esperti di bricolage estremo.

Da questo punto in poi il gioco prosegue come tanti altri Battle Royale: eliminare più avversari possibili o attendere nascosti sperando che gli altri si uccidano tra loro. Ricordando, però, che rimanere nello stesso posto per tutta la durata della partita non sempre è possibile, perché a complicare il gioco è la presenza di una non meglio definita tempesta esterna, simile a quella presente su PUBG e con la stessa funzionalità: restringere la mappa disponibile sempre più rapidamente.

Un escamotage introdotto nei Battle Royale per evitare che rimanere sempre fermi nello stesso posto diventasse una strategia dominante. Rimanere nella tempesta è letale, con i danni che aumentano con il trascorrere del tempo all’interno della zona incriminata. Il restringimento obbliga così tutti i videogiocatori a muoversi a intervalli via via più brevi e in modo casuale: a inizio partita non si sa mai quale zona di mappa diventerà sicura. Le “safe zone” cambiano costantemente in modo circolare ma con centri sempre diversi: prevederle con sicurezza è pressoché impossibile.

Un altro aspetto che rende Fortnite un gioco differente riguarda il codice, in particolare la “fisica” che ne regola le interazioni. PUBG ha sposato il realismo a 360°: puntare il mirino in una determinata direzione, dal punto di vista della programmazione del gioco richiede che poi il proiettile arrivi in quel preciso punto desiderato. Fortnite invece ha preferito alleggerire il codice di programmazione, puntando su una fisica che potremmo definire quantistica: mirare in un punto non garantisce di colpire esattamente quel punto. Come per le nuvole di probabilità in cui si muovono gli elettroni, colpire in un punto della mappa su Fortnite si traduce nella probabilità di colpire un punto all’interno di un’area circoscritta all’obiettivo desiderato.

Un trucco utilizzato per alleggerire il codice ma che cambia significativamente l’obiettivo del gioco, che nel caso di Fortnite non è riprodurre la realtà nel modo più fedele possibile. Certo, non vale per tutte le armi disponibili nel gioco ma ha ugualmente un suo impatto determinante: significa aumentare la componente di fortuna a discapito dell’abilità individuale; ed è anche una delle principali dinamiche di divertimento, soprattutto per i cosiddetti casual gamers, cioè quelli che giocano una volta ogni tanto.

Fortnite è il primo videogioco Pop

Ma la forza di Fortnite risiede soprattutto nell’essere probabilmente il primo videogioco veramente "pop". Secondo Wikipedia per cultura popolare si intende “l'insieme di idee, punti di vista, atteggiamenti, immagini e altri aspetti che hanno a che fare e che rientrano nel cosiddetto mainstream di una determinata antropologia culturale.” Significa riuscire a diventare oggetto comune, di massa, conosciuto non solo dagli addetti ai lavori ma di dominio pubblico, permeando la vita quotidiana della società in ogni suo aspetto, cambiandone persino il linguaggio, a prescindere dalla provenienza sociale: è trasversale e riesce a entrare nelle case di tutti, anche in modo marginale, come nel caso dell’esultanza di Griezmann (nel frattempo passato dalla Take the L al Saludo Real).

Solitamente a influenzare la società in questo senso sono i mass media. Fortnite deve invece la sua popolarità a due media atipici. Nella prima fase è stato lo streaming il mezzo che ha dato il via alla diffusione del titolo targato Epic Games: sulla scia di PUBG (fino a novembre 2017 il più seguito senza pari) Fortnite ha iniziato a spopolare su Twitch, prima, e su Youtube, poi. Passando cioè dal pubblico di videogiocatori e appassionati di Twitch, ai casual gamer di Youtube. Non solo partite da seguire in diretta ma anche gameplay con giocate divertenti o creative, che causano reazioni inaspettate e divertenti dei protagonisti.

Ore passate a guardare streaming, per videogioco (fonte Superdata)

A livello generale una delle fortune di Fortnite è il suo essere inclusivo. Altri videogiochi o esports come Hearthstone, League of Legends, FIFA o NBA 2K hanno un pubblico molto settorializzato e si rivolgono a una fan base ben determinata, difficile da ampliare coinvolgendo nuovi curiosi. Fortnite, invece, è molto più accessibile, semplice e adatto a ogni casual gamer: una volta scaricato, passare dall’accesso alla prima partita è praticamente immediato. Le partite, poi, durano anche meno di mezz’ora, intervallo di tempo ottimale per chi cerca un’esperienza breve ma al tempo stesso divertente. Non si vince? Pazienza: in meno di un minuto si è di nuovo in pista pronti a ricominciare.

Il secondo step di traino del gioco è poi arrivato dalle celebrities, sempre più attirate dal mondo dei videogiochi. Se in Europa a iniziare sono stati i calciatori, da sempre vicini alla PlayStation nei momenti liberi, guidati da Griezmann e Dele Alli, dall’altra parte dell’Atlantico gli endorsement sono arrivati da cantanti, produttori e cestisti. Drake, Chance the Rapper, il giocatore dei Los Angeles Lakers Josh Hart, addirittura l’attrice e conduttrice televisiva Roseanne Barr, 65enne, dice di vantare 20 vittorie su Fortnite. Che sia vero o meno rappresenta ugualmente l’esempio di come il videogioco si sia insinuato nella cultura popolare americana.

A sintetizzare al meglio il fenomeno Fortnite è stato Brian Feldman sul New York Magazine, che ha raccolto decine e decine di esperienze di giocatori che lo hanno condotto a definire Fortnite “The Most Important Video Game on the Planet”. Una sentenza impegnativa ma chiara, che trova giustificazione, secondo Feldman, nell’accostare Fortnite ai social network: «È simile a un qualcosa a cui accedi ogni giorno per passare del tempo, proprio come un app che cerchiamo costantemente di refreshare alla ricerca di qualcosa di nuovo da vedere», dice Feldman «In tal senso, come una piattaforma social crea contenuti freschi, solari, esteticamente ricercati per incentivare gli utenti a tornare, permettendo loro di costruire una propria identità specifica sulla piattaforma, Fortnite vanta numerosi punti in comune rispetto ad altri videogiochi. È un videogioco colorato e popolato da amici e celebrità, con il successo sempre dietro l’angolo, costantemente aggiornato, un profilo altamente social, utilizzabile ovunque, che rilascia dopamina ed estremamente competitivo. In altre parole, il paragone più corretto per pensare a Fortnite non è Halo o Call of Duty, ma Instagram e Snapchat».

Per le celebrità dello star system Fortnite è un altro modo di essere sul pezzo, di essere vicini ai loro fan, di condividere con loro uno spazio comune, anche se virtuale. Emblematica in tal senso la discesa in campo di Zlatan Ibrahimovic in soccorso di Keks, all’anagrafe Aleksander, uno streamer svedese semisconosciuto che ha raggiunto enorme popolarità ospitandolo sul proprio canale Twitch per una partita. Un episodio simile a quanto successo, ma con proporzioni superiori, tra Ninja e Drake negli Stati Uniti.

Il caso di Ninja

Ninja (al secolo Tyler Blevins) è un ex giocatore professionista di Halo 3 per organizzazioni esport di primissimo piano come Cloud9, Renegades e Team Liquid, che ha iniziato a giocare i Battle Royale prima su H1Z1, passando poi a PUBG e infine a Fornite, il titolo che lo ha reso una celebrità di internet.

Attualmente è lo streamer più seguito su Twitch con 11 milioni di follower, 10 milioni di iscritti su Youtube, 3,5 su Instagram e quasi due milioni su Twitter. È stato lui, nel marzo 2018, a segnare il record di Twitch dello streaming non torneistico con più spettatori contemporanei: complice l’ospitata di Drake, Ninja è arrivato a 635.000 concurrent viewers, superando il record precedente di 388.000 appartenente allo streamer Dr. DisRespect’s (nemmeno lontanissimo dal record generale, detenuto dall’ELeague Major di Boston del 2018 con 1,1 Milioni). Un mese dopo Ninja ha superato il suo stesso record alzando l’asticella a 667.000 spettatori.

Il tweet di Drake che “crea” Ninja.

Durante la diretta, 90.000 persone lasciano il proprio subscribe, ovvero l’iscrizione a pagamento al canale che consente di avere contenuti extra in chat ma soprattutto permette di sostenere il proprio streamer preferito. Secondo Forbes i soli ricavi di Twitch ammontano a più di 870.000 dollari mensili, escludendo Youtube, i cui video raggiungono tra i 2 e le 5 milioni di visualizzazioni, e i tornei competitivi a cui partecipa.

Ninja è un fenomeno di costume, non più appartenente al solo mondo videoludico, e ottiene persino la sponsorizzazione da Red Bull Esports. Una figura talmente pop da meritare la copertina di ESPN Magazine, storica rivista sportiva, che lo definisce “The biggest gamer in the world”.

Se non puoi sconfiggerli, comprali

A lungo ci si è chiesti se Fornite potesse diventare anche un eSport, oltre a un videogioco. Fortnite ha una sua evidente componente competitiva, ma è un esport totalmente diverso dagli altri. A giugno 2018 Epic Games ha deciso di esporsi in prima persona lanciando sul piatto 100 milioni di dollari di montepremi per la stagione competitiva. Per fare un semplice paragone, il più alto montepremi mai proposto nella storia dell’esport per un singolo evento è di poco più di 25 milioni di dollari, record detenuto dal The International di Dota2 e considerando anche gli eventi minori dell’intera stagione, si arriverebbe a un massimo di 38-40 Milioni, ben lontani da quanto proposto da Epic Games.

Persino il confronto con gli sport tradizionali sembra impari. Secondo quanto dichiarato dal giornalista Chris Pursell, dalla metà di ottobre Epic Games avrebbe iniziato a chiedere ai propri sponsor, attuali e potenziali, un totale di 25 milioni di dollari per figurare nella Fortnite World Cup. Per continuare con i paragoni basti pensare che acquistare uno spot in una partita di NBA nel 2018 costa al massimo 900.000 dollari, mentre la richiesta per la pubblicità del proprio brand durante il Super Bowl di febbraio è arrivata ad un massimo di 5 milioni di dollari.

Lo stesso modello di competizione di Fortinte è totalmente diverso dal resto. Il montepremi di 100 è diviso tra le varie competizioni stagionali e gli eventi stand-alone. La prima fase, il Summer Skirmish, ha previsto 8 milioni di dollari nell’arco di otto settimane, con 250mila dollari al primo classificato di ogni settimana. Per il Winter Skirmish il montepremi è addirittura salito a 10, incentivando la partecipazione, come se ce ne fosse davvero bisogno. La particolarità principale di queste competizioni è che si disputano totalmente online, cercando di ricalcare la favola americana dello zero to hero: non serve appartenere a una squadra professionistica, non serve essere un pro-player, non è necessario vantare risultati precedenti. Chiunque può iscriversi al torneo e tentare la fortuna: quasi come un biglietto della lotteria.

Nel 2018 le favole le racconta Samsung e la principessa diventa campionessa di Fortnite.

A Fortnite, però, mancano letteralmente le basi: non esiste una modalità classificata vera e propria che stila un ranking dei giocatori sui vari server, il che significa che ogni partita è fine a se stessa. L’assenza di una modalità dedicata crea delle difficoltà anche nei tornei in quanto i partecipanti non necessariamente si scontrano fra loro. Ogni giocatore, o ogni squadra, disputa diverse partite pubbliche, solitamente tre, contro avversari del tutto casuali magari senza mai incontrare i propri avversari: i risultati finali di ogni partita determinano il punteggio complessivo della competizione.

Da questo punto di vista, quello di Fortnite è un sistema determinato in parte da una componente di fortuna. Non essendo le partite bilanciate da un matchmaking che tiene conto delle prestazioni passate, i giocatori hanno le stesse probabilità di giocare in una partita di alto o basso livello competitivo, influenzandone la posizione finale. Un discorso simile alle batterie dell’atletica: con lo stesso tempo in una manche con avversari di livello inferiori arriveremmo primi ma in una di livello superiori magari non troveremmo la qualificazione.

Una prima contromisura è stata introdotta recentemente con la presentazione della tanto richiesta modalità Torneo. Ogni giocatore potrà così partecipare a competizioni online, temporalmente predeterminate, i cui risultati saranno immagazzinati e registrati per i successivi tornei. Il piazzamento di ogni evento permetterà anche di guadagnare punti e raggiungere obiettivi, utili per la qualificazione alle fasi più avanzate delle competizioni future.

Ciò che è più importante, però, è che la Epic Games ha creato un fenomeno di costume che ha ormai una sua identità casuale: renderlo elitario per i pochi professionisti potrebbe però non essere la scelta giusta. Fortnite potrebbe serenamente rappresentare il primo esempio di eSport per casual gamers: per vincere servono indubbiamente preparazione, tante ore di gioco, impegno e sacrificio. Per partecipare, invece, è sufficiente scaricare il gioco, connettersi e paracadutarsi sulla mappa.

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