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Cosa rimane di Samir Nasri
01 ott 2021
Il trequartista francese si è ritirato dopo un lungo declino.
(articolo)
9 min
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Quando cambiano al passato i verbi della tua pagina Wikipedia significa che è davvero finita, e persino quelle descrizioni verbose - “Poteva giocare sia da trequartista che da ala, pur preferendo il ruolo di trequartista” – prendono una strana sfumatura nostalgica, triste. Si può essere tristi perché un calciatore di 34 anni dà l’addio dopo quattro stagioni in cui non riesce a giocare neanche dieci partite (con in mezzo un anno di squalifica per doping)? Si può essere tristi per un calciatore che, bene o male, ha giocato più di cinquecento partite da professionista, di cui trecento in Premier League, vinta due volte? Triste, un giocatore che ha giocato due Europei con la maglia della sua Nazionale e vinto un Mondiale giovanile? Be’, a pensarci bene sì, un po’ di tristezza l’addio al calcio di Samir Nasri con sé la porta.

Non tanto per il solito discorso del chissà dove sarebbe potuto arrivare se – nel suo caso se avesse avuto un carattere migliore, meno litigioso, ma anche se fosse stato meno fragile fisicamente né per quella coda finale non all’altezza della sua carriera, o del suo talento. Cioè, non solo per quegli anni passati da infortunato a guardare il campo dalle vetrate dell’Eithad, o per questi ultimi passati tra Spagna, Turchia, Belgio a sperare che non fosse ancora finita (e a Siviglia, a ventinove anni, sembrava davvero una storia con un finale diverso). Quanto piuttosto perché, semplicemente, è triste quando finisce una cosa bella. E veder giocare Nasri è stata una cosa bella, durata comunque troppo poco. Una cosa bella che sarebbe dovuta essere semplice e naturale ma che a tratti è stata anche faticosa.

La sua corsa in punta di piedi, con la mano destra piegata all’indietro, come se stesse provando a non rovesciare il contenuto da un bicchiere pieno. Le gambe lunghe e magre, che si trascinavano dietro il busto più piccolo, leggermente sproporzionato, che si muovevano agili come stecche di un compasso. Il suo fisico mai pienamente sviluppato, da eterno adolescente, sempre uguale mentre la faccia gli si induriva e gli occhi chiusi del bambino che vediamo nelle foto in tuta, o nei video in cui altri bambini più piccoli di lui dicono che sarà il nuovo Zidane, occhi quasi da orientale, si piegano verso il basso e perdono la loro luce – la faccia che diventa una forma di pane duro, una pietra senza emozioni.

2004. Suo il gol che decide la finale del Mondiale Under 17, dopo il vantaggio francese di Kevin Constant e il pareggio di un Piqué biondissimo.

Il piccolo Nasri – quello quattordicenne, che quando il padre con la maglia del Marsiglia lo porta al Velodrome, annunciandogli il suo futuro tra tre o quattro anni, risponde: “Per ora l’importante è studiare, poi vediamo. Ovunque sarò giocherò a calcio, perché mi piace giocare”; come quello diciassettenne che ha esordito in Ligue 1 – era uno spettacolo composto da contraddizioni, la velocità e la resistenza di un giocatore che sembrava fatto d’aria, la violenza delle sue sterzate, di quei cambi di direzione che sbilanciavano avversari con quadricipiti grandi il doppio, il senso della geometria, degli spazi in cui far passare la palla, e la forza del tiro, che usciva dai suoi piedi con un suono secco, come il “pop” di una bottiglia di champagne appena stappata.

Biondo con uno strano taglio corto davanti e leggermente più lungo dietro, non un vero e proprio mullet quanto una specie di taglio da mod, con la maglia dell’OM gonfia che pareva vuota, dentro, la sua conduzione con l’esterno destro, da sinistra, che lo portava a sganciare missili come se al posto del piede (di entrambi i piedi) avesse una fionda, piccolo Davide contro avversari che erano tutti Golia, tiri forti, dritti e precisi, chirurgici, che non perdevano velocità nel tragitto fino alla porta, anzi sembravano accelerare a metà strada.

Nasri dribblava in velocità, quando bastava cambiare direzione per scivolare dietro un avversario, con la facilità con cui evitiamo un passante che distrattamente ci sta venendo addosso guardando il telefono. Ma dribblava anche da fermo, facendo scorrere prima la palla e poi il suo corpo dietro armadi grandi il doppio di lui, abbassando una spalla e andando dalla parte opposta, sedendosi sulle cosce, con un baricentro basso fino quasi a toccare terra, dribbling in cui sembrava volesse passare sotto un immaginario bastone, un limbo con la schiena piegata in avanti, come se si stesse infilando sotto una serranda che si sta chiudendo. Sempre agitando le braccia e le mani, un disturbo visivo per i difensori, un inganno continuo mentre con la bocca aperta ondeggia sulle cosce.

Uno dei suoi gol più clamorosi, contro il Porto.

Come i migliori dribblatori, per Nasri il punto non era non farsi togliere la palla, ma non farsi toccare, giocare ad acchiapparella con i difensori. Ma non sarebbe mai potuto diventare il nuovo Zidane, erano troppo diverse i contesti sociali e culturali in cui si sono mossi. Entrambi di origine algerina, nati in una cité di Marsiglia, il primo – scartato dall’OM perché “troppo lento” – ha avuto tempo e modo di crescere tra Cannes e Bordeaux, e anche alla Juve, a ventiquattro anni, ha migliorato il proprio gioco; il secondo ha esordito giovanissimo in Ligue 1 e a ventuno è stato pagato caro dall’Arsenal.

Zidane simbolo della Francia “bianca, nera e araba” del 1998 e Nasri di quella delle racaille, dei coatti di periferia che si sono rifiutati di allenarsi a Kinshasa, durante il Mondiale 2010. Lui in realtà neanche c’era nel 2010, snobbato da Domenech (come Benzema e Ben Arfa) e già considerato un giocatore egocentrico, individualista, da quando Gallas ha raccontato che aveva preso il posto di Henry sull’autobus della squadra (anche se forse era solo un malinteso). E infine Nasri che nel 2012 segna il gol del 1-1 contro l’Inghilterra ed esulta portandosi l’indice alla bocca e invitando i giornalisti francesi a chiudere il becco.

Roberto Mancini, ai tempi del City, gli avrebbe voluto dare un pugno (a dire il vero dopo una bella partita: «Perché uno come lui dovrebbe giocare così bene sempre. Sempre. Ogni partita») mentre Dechamps non lo ha portato al Mondiale 2014, perché anche se a Manchester è un giocatore importante, a Nasri non piace fare panchina e in Nazionale sarebbe quello il suo posto. La sua ultima partita è stata la sconfitta (2-0) con l’Ucraina, che aveva complicato la strada proprio verso quel Mondiale, uno dei punti più bassi toccati dalla Francia post-2006, riscattato solo dalla partita di ritorno (vinta 3-2 con una doppietta di Sakho) che Nasri, appunto, non ha giocato.

Nel maggio del 2011 ha segnato una doppietta contro il Fulham, dribblando il portiere (Kasper Schmeichel) entrambe le volte.

Non avrebbe potuto in ogni caso mantenere troppo a lungo quella leggerezza, l’innocenza e l’incoscienza del suo talento puro, purissimo, dei tempi dell’OM. Un talento incredibilmente moderno, una miscela di intensità e controllo, la capacità di portare palla alla massima velocità e di frenare sul posto, girare su se stesso e guardarsi attorno, spostarsi per il campo senza mai sentirsi con le spalle al muro. Che gli ha permesso di giocare come numero dieci, come esterno a sinistra e persino come centrocampista centrale. Col tempo si è lentamente appesantito e le sue corse si sono fatte più brevi, il suo gioco più ragionato e lento, ma la protezione palla è diventata più sicura, la sua intelligenza sempre più raffinata. Con e senza palla: magari non aveva una visione di gioco geniale, al livello dei più grandi in assoluto, magari era fenomenale a smarcarsi di spalle e di fronte alla porta, mai in difficoltà nel controllo neanche con più avversari addosso.

Non c’è stato un momento particolarmente significativo, una partita più importante delle altre – forse gli ottavi di finale di Champions League tra il suo Arsenal e il Barça di Messi e Guardiola, l’andata vinta 2-1 in casa, con il suo assist per Arshavin; anche se lui pensa che il suo gol più importante è stato il rigore contro la Bosnia che ha qualificato la Francia a Euro 2012 – quanto alcuni esempi di unicità, periodi felici in cui era integro fisicamente e scivolava sul campo con la palla che scorreva da un piede all’altro, in cui il suo senso della verticalità si univa a qualità da playmaker autentico. Non sembra aver davvero tirato fuori il massimo da se stesso, pensiamo noi, mentre lui ha mostrato la permalosità di chi sentiva non gli venisse riconosciuto il giusto valore. Nervoso con gli allenatori, con i giornalisti, arrogante persino per i suoi stessi compagni di squadra (Frimpong ha ricordato quando una volta gli disse che volendo avrebbe potuto comprarselo, e poi dopo essere andato via dall'Arsenal lo aveva minacciato al telefono per un commento ironico su Twitter).

E però, in qualche modo, è riuscito a rimanere un accentratore di gioco, finché ha potuto, un calciatore che desidera la palla, che vuole essere influente, orientare il gioco, spezzare le linee, provocare le difese avversarie anche solo per creare spazi ai compagni. Tanto associativo, collettivo, sul piano tecnico, quanto chiuso in se stesso, paranoico, asociale fuori dal campo. Un calciatore totale appena appena diminuito da una serie di infortuni che sarebbero stati troppo per chiunque (operato due volte alle ginocchia, la tibia, il tendine d’Achille e ha avuto problemi a praticamente tutti i muscoli delle gambe), tradito da quel corpo fragile proprio come sembrava.

Samir Nasri è arrivato velocemente a trentaquattro anni, all’addio, ma si è anche trascinato più a lungo del dovuto sui campi da calcio. Ricorderemo quello che sapeva fare ma anche quello che ci aspettavamo facesse, e che non ha fatto. In Francia forse preferirebbero dimenticarlo, viziati e resi cinici dal troppo talento a disposizione (e da pregiudizi superficiali), ma è troppo significativo di quella generazione ‘87 perché Nasri non è stato l’autolesionista dai pensieri astratti come Ben Arfa, il bambino prodigio vittima del suo stesso talento; né la sua è una storia di mediocrità tutto sommato accettabile come quella di Jeremy Menez. Per alcuni anni, e in particolari in alcuni momenti in quegli anni, Nasri è stato uno dei migliori centrocampisti al mondo. Ed è triste pensare che siano sfiorite così velocemente le promesse del suo talento, che quella manciata di stagioni all’Arsenal e al City erano tutto quello che c’era da vedere.

Certo non tutti i talenti possono diventare regolari e longevi, e forse Nasri non poteva fare più di così. A suo modo ha segnato un’epoca, quella a cavallo degli anni ‘10 in cui il calcio stava accelerando e i giocatori in grado di ragionare si facevano sempre più rari. E mentre Nasri ragionava, noi potevamo percepire il piacere che provava facendolo, il piacere di giocare a calcio, ovunque fosse, in qualsiasi condizione fisica. Fedele, in un certo senso, ai suoi propositi di ragazzo. Anche fosse solo per questa sensazione che ci ha trasmesso, di piacere infantile, di calcio di periferia trasportato al massimo livello della competizione, merita di essere ricordato. Come si dice in questi casi? La strada non dimentica.

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