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La polvere sopra il ricordo di Maradona
25 nov 2022
Un ricordo personale di Maradona a due anni dalla sua scomparsa.
(articolo)
8 min
(copertina)
RENARD eric/Corbis via Getty Images
(copertina) RENARD eric/Corbis via Getty Images
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Gli striscioni sono stati ritirati dai balconi o se li è portati via il vento. I manifesti con i ringraziamenti sono stati ricoperti da altre affissioni. Restano le foto sbiadite, fanno capolino da dietro ai banconi dei bar, sistemate tra i liquori con i ritratti dei parenti che non ci sono più o con i santi protettori. Restano, perché stavano lì da prima del 25 novembre 2020.

La maglia numero 10 con lo sponsor Buitoni la trovi appesa all’ingresso dei negozi di souvenir. Maradona è un’altra cosa da vendere ai turisti, insieme ai corni scaccia sventure e ai pastori da piazzare sul presepe a Natale. In Piazza del Gesù Nuovo c’è un bar che prepara il “Maradona Drink”, un aperitivo alcolico di colore blu.

C’è un grande vuoto a Napoli intorno alla figura di Diego Armando Maradona dal giorno della sua scomparsa. Il "Pibe" si è diradato persino nei discorsi, prima ne sentivi parlare in ogni capannello di uomini in giro per la città, giovani o anziani che fossero. Oggi ancora si sente pronunciare il nome di Maradona per le strade, ma lo si fa per rimarcare l’impegno nelle battaglie che ha portato avanti fuori dal campo. Di quello che ha fatto sul prato del suo stadio non si dice più, o almeno a me così sembra.

Nel vuoto che si è creato in questi due anni, ciò che manca è la memoria. Le immagini di gol e vittorie sbiadiscono un poco alla volta, anno dopo anno. È come una fotografia che passando di mano in mano perde i colori. Quando Maradona ha lasciato Napoli nel 1991, i ricordi delle sue giocate hanno preso il sopravvento. Servivano subito, dovevano lenire il dolore della perdita, erano un impacco caldo sull’anima. Quando in campo c’era il Napoli di Claudio Ranieri e Gianfranco Zola, sugli spalti intanto si giocava un’altra partita, diversa da quella che passava per la vista, per l’udito e per l’olfatto. La partita dei ricordi si sovrapponeva alla realtà delle azioni del calcio giocato. Maradona avrebbe tirato, da lì ha fatto gol alla Lazio. Qui sotto, fuori dal campo, Maradona si allacciava le scarpe e c’era il difensore appena dentro la linea, ad aspettarlo. Dovevano marcarlo pure negli spogliatoi o avrebbe segnato anche da lì. I tifosi trasformati in tanti piccoli Cortazar, nella trasmissione orale smussavano le cuspidi della realtà con l’invenzione fantastica.

Anno dopo anno, i ricordi allo stadio si sono fatti via via più rari, le occasioni per tirare Maradona in ballo sempre in numero minore. Si era tentati di dire il proverbiale: «Se ci fosse stato Maradona», ma poi ci si ricordava delle condizioni in cui era, alle prese con le numerose cadute e le altrettante risalite. I ricordi non c’erano più anche perché nel frattempo cambiava il pubblico allo stadio. Non era venuta meno la memoria, erano mancati i testimoni, che intanto invecchiavano e le partite preferivano seguirle alla tv.

Quando è morto Maradona eravamo nel mezzo di un secondo lockdown, ben più angoscioso del primo, privato com’era delle canzoni alle 18, degli incoraggiamenti lanciati da un balcone all’altro e dell’aria dolce di primavera. Quella notte di fine novembre sembrava non dovesse finire mai. Per i napoletani la morte del "Pibe" è stato un altro 11 settembre: dove eravate quando avete appreso la notizia? Difficilmente dimenticherò di quando, tornando da lavoro, ho parcheggiato l’auto nel vialetto di casa e con un piede fuori dall’abitacolo ho fatto scivolare il pollice sulle notifiche di Whatsapp. Nella chat degli autori di L’Ultimo Uomo, Emanuele Atturo scriveva: «Il Clarin dice che Maradona è morto». Era una frase ammantata di speranza: lo dice il Clarin, ma forse non è successo davvero.

Nonostante i dispositivi e i divieti in vigore per la pandemia, la gente è scesa in piazza. C’era bisogno del calore delle strette di mano, del coraggio infuso dagli sguardi. Gli uomini della mia generazione, cioè intorno ai quarant'anni, si sono sentiti in dovere di farsi testimoni per la prima volta. Era arrivato il loro turno. Allora con i brandelli di ricordi che potevano avere – pochi perché negli anni Ottanta erano appena dei bambini – aggiunti al surrogato delle memorie dei nostri vecchi e alle ricostruzioni fatte in quei giorni, un video di YouTube alla volta, hanno ricostruito un patchwork con il quale hanno provato a spiegare chi era Maradona.

Sui cancelli d’ingresso della Curva B qualcuno ha attaccato uno striscione: «Maradona the king». Sarà stata l’opera ingenua di un ragazzino, nessuno di quelli che erano vivi all’epoca del Maradona calciatore lo avrebbe mai paragonato a un re. Perché Diego era trattato davvero alla stregua di un Dio. Nelle frasi scambiate tra amici non lo si nominava neanche. Non c’era bisogno, bastava l’uso del pronome napoletano “Isso”. Egli. E tutti capivano di chi si parlava.

Secondo più di un critico, in È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, il rapporto della città con Maradona è rimasto sullo sfondo. Le inquadrature del regista napoletano si sono strette intorno alla vicenda personale, al punto da tagliare fuori dal film, quasi per intero, l’ambientazione della Napoli degli anni Ottanta. Un’occasione perduta. Per me Sorrentino, da abile scrittore prima che da eccellente regista, ha capito che la città era talmente importante, al punto da metterla in scena insieme agli altri personaggi. Zio Alfredo, interpretato da Renato Carpentieri, con il suo rapporto viscerale e magico con il Pibe, è Napoli. Napoli con l’orecchio attaccato alla radiolina che immagina i suoi dribbling e poi li racconta come se li avesse visti. Napoli che chiama i suoi figli Diego o Diego Armando. Napoli che per la prima volta dal re Borbone si sente al centro del mondo. Nei miei ricordi c’è una festa di famiglia, con tanta gente in cortile seduta su seggiole di plastica. A un certo punto, da una finestra del secondo piano, si affaccia uno zio che grida: «Venite! Venite a vede’ che ha fatto!». Era il gol del siglo, l’imprendibile serpentina a mettere in rete il pallone del 2-0 contro l’Inghilterra nel quarto di finale del Mondiale messicano. Venite a vedere cos’ha fatto: in certi casi era inutile anche il pronome.

C’è una cosa che il "Pibe" aveva e nessun altro calciatore ha più avuto. Nemmeno Lionel Messi, che nella definizione di Samuel Eto’o: «È Maradona, ma nel futuro». Quel qualcosa che ancora noi non abbiamo capito e che in mancanza di parole adatte continuiamo a chiamare furbizia. Maradona univa l'essenzialità del pensiero con il barocchismo del gesto. Con le sue giocate abbelliva la necessità. Faceva tutto ciò che serviva, e solo quello, niente altro, per segnare. E lo faceva meglio di chiunque altro.

Foto di Mike King/Allsport/Getty Images

Nel primo dei due gol che ha segnato al Belgio nella semifinale del Mondiale 1986, Maradona trova il tempo e lo spazio di infilare la punta del piede sinistro sotto alla palla, un frazione di secondo prima che gli arrivino addosso due difensori e il portiere in uscita bassa. Qualche settimana prima, l’Argentina aveva sfidato l’Italia e Maradona aveva segnato. Riceve una palla alta sopra alla difesa. Scirea corre con lui verso il calcio d’angolo, mentre Giovanni Galli decide che è più saggio restare in porta. Maradona colpisce la palla di piatto sinistro nel punto più alto del rimbalzo. Deve saltare e impattare a mezz’aria per compensare l’altezza del pallone. Ne esce un tiro fiacco, ma il tempo e lo spazio che Maradona ha scelto per calciare fa sì che né Scirea né Galli a quel punto si aspettino il tiro. O ancora: l’assist per il gol della vittoria contro la Germania Ovest in finale. Maradona colpisce un piatto di controbalzo dopo essersi girato nel punto di caduta di quella che oggi chiameremmo una seconda palla. Era l’unico modo per mandare Burruchaga nello spazio, lanciato verso la porta, un secondo dopo avrebbe avuto i tedeschi addosso. In tutti i casi non c’era altra soluzione possibile per segnare, se non quella scelta ogni volta dal Pibe. Il calcio giocato da Maradona era bello solo per chi non era coinvolto, per chi lo subiva era un atto violento.

Foto AFP

Segni tangibili del passaggio di Maradona a Napoli oggi faticano a vedersi. Il murales nei Quartieri Spagnoli è diventato in questo poco tempo un simbolo vuoto, buono ad attirare la curiosità dei turisti e poco altro. È persino riportato nelle mappe di Google come una delle attrazioni della città. Come Palazzo Reale, Castel dell’Ovo o il Duomo. Un posto, quello in cui sorge il murales, lasciato alla buona volontà degli abitanti che si tassano per tenerlo pulito, e abbandonato dall’amministrazione comunale, che pure aveva intitolato lo stadio a Maradona subito, appena dopo la morte. Per i soliti impicci burocratici da poco, nelle viscere dello stadio sono lasciati a prendere polvere i cimeli messi da parte per il progetto di un museo che probabilmente non vedrà mai la luce. Il culto di Diego sembra più forte in periferia, dove i murales si moltiplicano sulle facciate dei palazzi. La figlia Dalma che ancora infila fiori nei suoi calzettoni. Maradona giovanissimo e sorridente. Quello con lo sguardo tagliente e i capelli corti ai tempi di Italia ‘90. Quello di Jorit con la barba imbiancata. Cento Maradona a guardia dei quartieri come i martiri di Belfast.

Il Diego Armando Maradona, anche ora che porta il suo nome, non sembra più l’impianto di una volta, all’interno sono cambiati persino i suoi colori. È cambiato il pubblico, e con esso la fruizione e la funzione dello stadio. Oggi alla partita si va per essere intrattenuti, come al cinema o al teatro, e solo una parte del tifo sembra continuare a professare il proprio atto di fede. Fuori dallo stadio, durante le partite del Napoli, i tifosi festeggiano ognuno per conto proprio. Da una finestra o da un bar o da un’auto di passaggio, le esultanze per i gol sono isolate le une dalle altre, per via del ritardo dei vari streaming dei dispositivi di ognuno. Non tremano più i palazzi quando segna il Napoli.

Forse questo distacco al Napoli è necessario per poter scrivere una storia nuova. Spalletti e i suoi ragazzi giocano un calcio divertente, al passo con i tempi e capace di far innamorare. E allora è giusto che si formino nuovi ricordi, che negli occhi restino altre imprese. Che allo stadio si vedano più maglie con il 77 che con il 10. Perché si tagli il cordone con l’epopea di Corrado Ferlaino, però, occorre la cesura di un trofeo. Di quella cosa che a Napoli non si può nominare, nonostante l’avvio di campionato brillante e gli otto punti di vantaggio sul Milan – ancora il Milan, oggi come allora. Perché, come diceva Eduardo De Filippo, «essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male».

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