Ultima propaggine meridionale del Mar dei Caraibi, distante qualche centinaio di miglia dalle coste venezuelane, Curaçao ha da sempre legato il suo destino, e il suo nome, a un colore, il blu. Blu sono i fondali paradisiaci, blu è il liquore ottenuto dalle arance amare, il citrus aurantium curassuviensis, che i marinai olandesi utilizzavano per curare lo scorbuto. Curaçao, dopotutto, è il termine portoghese per “guarigione”.
Blu è anche il colore che tradizionalmente, nei paesi anglosassoni, viene associato alla tristezza. A essere tutto blu non è soltanto il passato di Tahith Chong, ventenne ala del Manchester United che sull’isola di Curaçao è nato e cresciuto, ma anche il suo presente, in maniera forse leggermente controintuitiva e inaspettata. Chong si è affacciato in prima squadra ormai da due stagioni, in questa con maggiore continuità, ma a Manchester non si sente più a suo agio. Frustrato da un impiego col contagocce da parte di Solskjaer - che gli ha concesso finora soltanto 24 minuti in Premier League, e qualche scampolo di partita in Europa League o in FA Cup - Chong ha fatto sapere, attraverso il suo procuratore, di essere alla ricerca di un progetto che gli permetta di crescere. Il suo contratto è in scadenza a giugno e Juventus, Milan e Inter si sono da subito dimostrate molto interessate, soprattutto i nerazzurri che in questo momento sembrano i più vicini al giocatore. Un interesse che non stupisce: ci sono più di una manciata di motivi per decidere di investire su Chong, un calciatore forse atipico, in qualche modo esotico, dal profilo per certi versi inedito.
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Il calcio, per caso
L’isola di Curaçao non sembra propriamente fatta per il calcio, né chi ci vive. Ogni cosa, tra le casette variopinte in stile coloniale, parla di baseball: le prospettive di carriera e di guadagno maggiori, nello sport, portano ancora essenzialmente in MLB. Il calcio poi è anche l’ultimo legame ancora saldo con i retaggi coloniali: se vuoi fare il grande salto, da Curaçao, devi per forza tornare all’Olanda.
Tahith, un nome che significa “sole che sorge”, è figlio di un calciatore. Come ogni figlio, in lui si sono concentrati desideri paterni che parlavano di prosecuzione di una passione. A lui, però, c’è stato un tempo in non piaceva, il calcio. «Non fa per me», diceva al padre. Poi, a sette anni, di fronte alla finale del Mondiale di Germania, ha avuto una specie di folgorazione sulla via di Damasco. Il giorno dopo ha chiesto al padre di portarlo ad allenarsi.
Quando Tahith Chong tocca per la prima volta un pallone da calcio sul campo ha già sette anni, la sua non è quindi una storia di predestinazione, né di precocità. Di ossessione, quello sì. E di talento, forse. Perché Chong si dimostra essere da subito davvero bravo. E il destino di quelli bravi, in un’isola piccolissima nel Mar dei Caraibi, si racchiude sempre in una parola amara come le arance autoctone: esilio.
Il papà è il cugino di John De Wolf, ex difensore del Feyenoord a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90: tramite di lui organizzano un provino in Olanda, a Rotterdam. Chong ha otto anni e non è mai stato in Olanda. Ci si ferma un paio di mesi, giusto il tempo di conquistare la fiducia degli allenatori delle giovanili del Feyenoord, poi torna nell’isola per terminare gli studi. Subito dopo, i genitori mollano la loro vita, il loro lavoro, e si trasferiscono in Olanda.
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Damien Hertog, l’allenatore dell’U19 del Feyenoord, l’ultima squadra in cui ha militato Chong prima di trasferirsi in Inghilterra, al Telegraph Sport ha detto che il problema sostanziale è che i giovani calciatori olandesi se ne vanno via troppo presto.
Il troppo si riferiva al fatto che così facendo non permettono alle squadre dell’Eredivisie di garantirgli un inserimento graduale in un contesto competitivo, ma non fagocitante. Eppure, per molti di loro (soprattutto lo è stato per Chong) l’Olanda non è che una sosta intermedia, una palestra in cui affinare le proprie armi per poi compiere uno scarto di carriera che possa portarti in Inghilterra, in Italia, in Spagna o in Germania. Dove il rischio è esattamente quello di finire in un tritacarne atletico ed emozionale, quello di non essere utilizzati, quello di non sentirsi apprezzati in maniera proporzionale alla propria ambizione. Esattamente come è successo a Chong.
Topos ricorrenti
Scegliere Manchester, per Chong, è stato pressoché inevitabile, e viceversa. Da quando si sono incrociati per la prima volta, alla Nike Premier Cup a Carrington, si sono subito riconosciuti e specchiati nelle rispettive ambizioni. E Derek Lengley, all’epoca capo degli scout dei Red Devils, non se lo è fatto sfuggire. Innanzitutto perché parliamo di un calciatore che è sempre stato fuori dimensione rispetto ai suoi pari categoria, tecnicamente di un altro livello, dotato di un controllo elegantissimo, di una balistica raffinata e di una capacità d’accelerazione inaspettata, soprattutto in virtù del suo fisico (1,83 per 68 kg, e delle gambe da passerotto che sembrano farlo ondeggiare sul campo).
Di cosa parliamo quando parliamo di fuori dimensione, in un compendio di 1.10 minuti.
Poi perché Chong rappresenta l’evoluzione, e in questo caso anche una linea di continuità, in un ruolo ammantato di iconicità nel contesto dei Red Devils, e cioè quello di ala classica, che ama giocare molto in ampiezza, quasi calpestando la linea laterale, per affondare e arrivare al cross senza disdegnare una propensione ai trick o alla dominanza fisica. Se insomma Chong anche a voi ricorda il primo Cristiano Ronaldo, al di là della maglia numero 7 che indossa con l’U23, almeno tatticamente ha senso.
In azione al mini-Klassikier del 2016, in accelerazione bruciante.
Ovviamente stiamo parlando di un giocatore ancora molto giovane, con un fisico in divenire, però già molto disciplinato tatticamente: un giocatore il cui ruolo in campo sembra essere racchiuso in tre semplici abilità vintage - scatto, dribbling, cross - espresse però in chiave molto moderna. Chong interpreta il ruolo di esterno in maniera canonica, ma mai didattica o didascalica. Al contrario: pur nella sua semplicità, il suo è un calcio pieno d’estro e sicurezza, quello tipico dei giocatori che sanno maneggiare una dominanza fisica - nel senso che sanno come dominare le leggi della fisica creando spazi con le lunghe leve a protezione del pallone, o creare dal nulla imbuti inesistenti in cui infilarsi. «Mi descriverei come un’ala tipica; destra o sinistra non mi importa. Mi piace battere (battere, e non sfidare) gente nell’uno-contro uno. O almeno, ci provo».
Spirito libero
«Ammetto di sentirmi ancora uno spirito libero, in campo. È una caratteristica che mi rimarrà per sempre, ma provo a farlo nella maniera giusta, all’interno del sistema corretto». Anche se sta parlando del suo modo di comportarsi in campo, in realtà Chong sta dicendo anche com’è fatto fuori. Ai tempi della fuga dal Feyenoord disse che gli sarebbe piaciuto molto rimanere perché sentiva i biancorossi di Rotterdam il suo club, ma anche che le discussioni per il rinnovo del contratto erano «molto vaghe, e mi aspettavo qualcosa di più». «Molti diranno che lo faccio per soldi, ma non sono uno attaccato ai soldi. Ho scelto l’avventura sportiva, ed è il momento per me di guardare avanti».
Chong è uno spirito libero, forse anche in virtù della sua gioventù: a volte compie scelte dettate dall’impulsività, e dall’inesperienza (come aggiungere alla propria bio di Instagram «Futuro calciatore del Manchester United» quando l’accordo non era ancora concluso, ai tempi del Feyenoord), ma dopotutto dimostra anche di conoscere esattamente gli schemi all’interno dei quali è chiamato a conformarsi. Il che non significa che gli vadano sempre a genio.
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A distanza di neppure un mese dalla firma con il Manchester United - attratto dal progetto di Louis Van Gaal che stava lanciando in prima squadra molti giovani - Chong si è infortunato al legamento crociato, vedendosi quindi costretto a saltare dieci mesi (e 21 partite) di attività agonistica. Completamente ripreso, l’estate successiva è stato aggregato da José Mourinho alla squadra in tournée pre-campionato, e con l’esonero del portoghese (e l’arrivo di Solskjaer) si è trovato a far parte della Prima Squadra, riuscendo a esordire sia in Premier League che in FA Cup prima della fine della stagione.
Ora, però, sembra che l’idillio con Solskjaer sia già terminato; oppure, che Chong abbia alzato l’asticella delle sue aspettative e si aspetti un minutaggio maggiore, una considerazione più alta, una fiducia più profonda. Qualcosa che all’Old Trafford sembrerebbe non sappia più riconoscere. A Manchester - memori della dinamica scatenata da Paul Pogba, che si svincolò dai Red Devils esattamente all’età di Chong per accasarsi poi alla Juventus, e dare vita a tutto quello che conosciamo - vorrebbero blindarlo. Chong, invece, apparentemente non sembra intenzionato a farsi blindare da nessuno.
Assicurarsi i suoi servizi, per quella che sarà la sua prossima squadra, non sarà proprio come mettersi in casa il ragazzo meno appariscente - anche caratterialmente - del mondo. Ma vorrà soprattutto dire, ed è forse l’aspetto più allettante, scommettere su un calciatore dal potenziale più che interessante. Un giocatore che forse ha bisogno di una squadra che lo faccia sentire uno spirito libero, perché ingabbiarlo potrebbe alla lunga rivelarsi una mossa controproducente per tutti: per lui che deve trovare il modo di esprimere a questo livello il suo talento e anche per noi che potremmo goderne.