Se frequentate i campetti di una qualsiasi grande città d’Italia, probabilmente vi sarà capitato di passare qualche pomeriggio estivo in compagnia di uno o più ragazzi di origini filippine. A Milano presidiano quasi ogni playground, spesso arrivando ore prima di tutti gli altri e tornando a casa per ultimi. Né il sole di mezzogiorno in estate né il buio prestissimo in inverno riescono a fermarli, portando sul cemento quell'inconfondibile puso pilipinas (letteralmente “cuore delle Filippine” in tagalog, la lingua più diffusa nel Paese).
Non è un’esagerazione né un cliché, ma una peculiarità dello street basket diffusa un po’ ovunque, e a maggior ragione nel capoluogo della provincia italiana con più cestisti in attività e con la più vasta comunità filippina. Le ragioni demografiche, però, spiegano solo parzialmente questo fenomeno. L’arcipelago asiatico è una delle nazionalità più rappresentate dalle nostre parti e il basket è per distacco lo sport più popolare a Manila, ma possiamo dire lo stesso, ad esempio, per i brasiliani – ce ne sono oltre 50mila in Italia, non pochi – per il calcio?
Va detto che il basket è lo street game per antonomasia, e dunque un confronto con il calcio o con altre discipline forse è un po' forzato. Forse il parallelo che ha più senso è quello con la comunità indiana, pakistana e bengalese, e i relativi tornei domenicali di cricket (tutt’altro che lo “street game per antonomasia”). Oppure, fuori dalla sfera sportiva, con l’universo della parrillada peruana e più in generale con le grigliate “alla sudamericana”, che regolarmente radunano famiglie e diffondono profumi nei parchi della città. Usanze, queste, che vanno al di là del basket, del cricket, della carne: sono ponti che iniziano a Milano e finiscono a casa, qualunque essa sia; tradizioni che sopravvivono alla distanza, e che in parte la colmano, portando un po’ di abitudini e volti familiari in una vita da “ospiti” (e dunque da “accolti”, auspicabilmente).
In ogni caso, chiunque giochi a basket a Milano ha quasi sicuramente avuto a che fare, in un’occasione o nell’altra, con il mondo del basket filippino. Allo stesso tempo, però, la stragrande maggioranza degli appassionati in città - anche chi frequenta assiduamente i playground - sa ben poco di questo universo, che è davvero un microcosmo sotterraneo. Avete mai sentito parlare di Summer Madness, di I Am A Baller o del fu Farini? Oppure del viaggio di Alberto Torres tra tornei filippini, minors lombarde e Draft della Philippine Basketball Association? Se la risposta è no, il momento è questo.
Manila, il basket, Milano
Fatta salva l’eccezione lituana, il caso della passione per la pallacanestro nelle Filippine è davvero qualcosa di unico e misterioso. In meno di un secolo si è passati dall’introduzione dello sport per mano di professori statunitensi d’istanza nel profondo oriente all’incredibile censimento recente che parla di 40 milioni di abitanti su 114 che lo praticano o lo hanno praticato. Una corsa culminata idealmente nel 2023, quando le località di Bocaue, Pasay e Quezon City sono state sedi di gran parte delle partite dei gironi e di tutte le fasi finali dei Mondiali.
Fino agli anni ‘70, la Nazionale delle Filippine è stata la regina assoluta del basket asiatico: quattro ori, due argenti e un bronzo conquistati tra il 1960 e il 1973 nella competizione continentale; e soprattutto un mitologico bronzo ai Mondiali del 1954 - ad oggi ancora il miglior risultato di una nazione asiatica - trascinata dal talento di Carlos Loyzaga, unico pinoy (come i filippini chiamano se stessi) introdotto nella Hall of Fame della FIBA.
Nello stesso periodo, però, il Paese ha vissuto una delle sue pagine più turbolente. Ferdinand Marcos è stato eletto presidente per il suo secondo mandato, ma la luna di miele che aveva portato a un’importante crescita economica era ormai terminata e i filippini cominciavano a opporsi al suo governo “diversamente democratico”. Risultato: legge marziale promulgata nel 1972, con una repressione feroce che si è abbattuta su tutti gli oppositori. La storia di migrazione su larga scala dalle Filippine è nata proprio in quegli anni, per sfuggire alla forte instabilità sociale. Le mete privilegiate, soprattutto per affinità linguistiche e religiose, furono gli Stati Uniti, la Spagna e, lo sapete, l'Italia.
Col tempo, grazie anche ai ricongiungimenti familiari, quella che era iniziata come un’immigrazione temporanea si è sempre più consolidata. I filippini hanno costruito in Italia una comunità coesa e interconnessa tra città, con una forte impronta familiare e di reciprocità basata sull’utang na loob, una sorta di imperativo morale che spinge a restituire, maggiorati, i favori ricevuti da parenti o amici.
Milano e il suo hinterland sono considerabili il centro nevralgico della comunità. Ad oggi, su oltre 160mila cittadini filippini in Italia, circa 56mila sono residenti in Lombardia e 47mila nella sola provincia di Milano, facendone il secondo nucleo straniero più numeroso nel capoluogo, di poche unità sotto quella egiziana. Anche grazie alle affinità culturali di cui sopra, la comunità filippina è universalmente riconosciuta come una delle meglio integrate nel Paese, anche se chi partecipa alla vita cestistica della propria città avrà notato una tendenza che va nella direzione opposta. Basta frequentare i campetti delle nostre città - milanesi, nel caso di chi scrive - per notare come i ragazzi filippini tendano spesso a occupare una metà campo - con un numero sufficiente di giocatori per fare la propria partita - e abbiano una certa reticenza nel mischiarsi con gli altri. Una generalizzazione, ovviamente, ma non per questo senza un fondo di verità.
Oltre a una riflessione sullo stato di salute dell’integrazione in Italia, dietro potrebbero esserci ragioni più semplici, basketball-related e figlie di questioni fisiche e culturali. Il modo, cioè, in cui i ragazzi filippini vivono la pallacanestro e come intendono il pomeriggio al campetto. Il basket, lo sappiamo, è uno sport notoriamente poco gentile nei confronti di chi è di bassa statura, e le Filippine hanno un'altezza media che negli uomini non arriva ai 165 centimetri, mentre nelle donne sfiora a malapena i 152. L'altezza, insomma, è un ostacolo ulteriore al superamento di limiti e pregiudizi che già di loro sono difficili da superare, figuriamoci al campetto. Lo stereotipo che circola spesso, quando si parla di filippini e approccio alla pallacanestro, è che abbiano una certa riluttanza a condividere la palla, che cerchino costantemente la giocata spettacolare e che in generale affrontino le partite con troppa naïveté. «È uno stereotipo ma è anche molto vero. In generale ci piace giocare così, è una cosa innata: uno contro uno, finte, crossover e in difesa cercare la palla rubata, le stoppate… lo spettacolo insomma». A confermarcelo è Alberto Torres, un personaggio che durante le nostre ricerche è saltato fuori in continuazione, segnalato da tutti come una sorta di leggenda del basket filippino a Milano.
Questo modo di giocare e vivere il basket come un momento di festa e allegria pura - un’occasione per stare insieme e fortificare i legami più che una sfida contro un avversario - spesso cozza e rischia di snaturarsi quando si mescola con l’approccio “risultatista” tipicamente italiano. Non stupisce quindi che la comunità filippina possa avere una certa gelosia e protettività di questa dimensione, della propria cultura e delle proprie abitudini - come non stupisce che abbia portato alla creazione di leghe (quasi) esclusive.
I tornei della comunità filippina
A Milano i primi campionati di basket organizzati e gestiti da un gruppo di amici filippini risalgono a più di dieci anni fa. Il loro promotore principale è Cesar Manahan, arbitro FIP/UISP e punto di riferimento dei pinoy meneghini. È lui a dare vita a una vera e propria lega madre, suddivisa in tre fasce secondo il livello dei giocatori coinvolti. «L'obiettivo principale della lega era fornire una forma ricreativa di svago settimanale a tutti i filippini che lavoravano in Italia», ci ha raccontato Cesar «e allo stesso tempo promuovere lo sport e una buona forma fisica all’interno della comunità».
Sotto al cappello della CFSM (Comunità Filippina Sport Milano) sono sorti vari campionati in diverse zone della città: Farini, Corvetto, Molino Dorino, MacMahon, Famagosta. Le competizioni erano varie per durata e forma, passando da tornei giornalieri a quelli più lunghi, anche diversi mesi, composti da una decina di squadre, tutti basati su regole FIBA. Quelli giornalieri erano quasi esclusivamente giocati all’aperto, “prenotando” i campi in maniera più o meno ufficiale - del resto, l’unica legge vigente al campetto è chi prima arriva meglio alloggia.
È durante questi tornei che si potevano ammirare alcune delle più belle divise che si siano mai viste alle nostre latitudini. I Portello Rockets? I Baggio Nets? La tradizione vuole che ogni squadra portasse il nome del proprio quartiere, spesso associandolo a quello di una franchigia NBA, sfruttandone così il logo per dei meravigliosi rip-off per la propria divisa. Non mancano casi, poi, in cui si fa riferimento al Paese d’origine - specie se molti giocatori provengono dalla stessa zona delle Filippine - oppure a sponsor più o meno locali. «Le maglie delle squadre venivano ordinate prima dei tornei, fatte stampare nelle Filippine e portate qui», ci dice ancora Alberto Torres «Erano stupende: un anno giocai per una squadra che si chiamava Staedtler, la marca di cancelleria, perché un mio compagno lavorava nell'azienda e ci avevano sponsorizzato».
Finora abbiamo parlato al passato di questi eventi perché la pandemia - come tante altre realtà sportive e non solo - ha improvvisamente tagliato le gambe all’organizzazione e decimato i tornei. Quelli che sono rimasti, però, sono estremamente popolari, grazie all’indefessa passione di alcuni - giovani e meno giovani - membri della comunità. Uno di questi è il Summer Madness, inaugurato nel 2023 ma destinato a rimanere stanziale. Si tratta di un torneo estivo di cinque contro cinque dedicato alle categorie Under-20 e Under-16, con iscrizioni aperte su Facebook. Si svolge all’aperto, sui campi (coperti) nel parco Robinson in zona Famagosta, dove sono stati portati al termine di Expo 2015 i padiglioni allestiti da Coca Cola.
Poi c’è il torneo di Pero, nato nel 2020 su iniziativa del programma I Am A Baller e del mitologico Coach Junar, il cui obiettivo è coinvolgere ragazzi, prelevati direttamente dai campetti della città, e cercare di inserirli in un contesto “più organizzato”, promuovendo disciplina, impegno e rispetto attraverso la pallacanestro. Oltre al torneo, il programma forma diverse squadre di ragazzi filippini che durante l’anno partecipano ai campionati UISP, in cui possono confrontarsi con le altre società del territorio milanese, e non solo all’interno della comunità.
Nel novembre 2023, curiosi di scoprire questa realtà, siamo andati alle finali del torneo I Am A Baller: non fosse stato per il freddo pungente di quel fine settimana, è stato come essere catapultati per qualche ora in una palestra di Manila. Ad accoglierci e farci da Cicerone per l’intera giornata è Mark Barrozo, volto a noi già noto, incrociato innumerevoli volte in giro per i campetti milanesi, uno degli allenatori e punto di riferimento per I Am A Baller.
Il programma della giornata prevede le finali delle due categorie: si parte con l’Under-20, a seguire l’Under-16. Noi arriviamo a ridosso della prima palla a due e sugli spalti troviamo un pubblico non nutritissimo e un clima più scarico rispetto a quello che ci aspettavamo, ma Mark ci chiarisce subito: «La partita dei ragazzi più giovani è il main event. Vedrete».
La prima gara tra Rebirth e Cold Dreamers resta equilibrata fino all’ultimo quarto, quando i secondi prendono il largo e si assicurano la coppa. Il gioco è esattamente come ci aspettavamo - e come lo volevamo: difese rigorosamente a zona, ritmi folli, possessi medi che durano un battito di ciglia e poi, con la difesa schierata, gioco che si stagna in attesa dell’invenzione del singolo. Non esistono marce intermedie.
La prima cosa che notiamo è che le squadre sono tutte autogestite: nei timeout sono i ragazzi che si confrontano, si spronano, si danno consigli. Tra loro c’è qualche giocatore dai lineamenti non orientali e scopriamo da Mark che ogni squadra può avere due non filippini a roster. Uno di questi lo conosciamo già: è Mattia Cascione, playmaker che disputa la serie D con la Polisportiva Garegnano, ma che da circa un anno è entrato nel giro dei tornei filippini, invitato da alcuni amici conosciuti al campetto.
«Il livello ovviamente è più basso della serie D, ma qui ci si diverte davvero tutti. Io ci gioco per questo: perché mi diverto. Tutto è molto più libero, giochi a mente sgombra e senza la pressione di un coach», ci racconta, aggiungendo come il fatto di essere l’unico non filippino, all’inizio, abbia comportato qualche difficoltà. «Mi sentivo un po’ fuori luogo, qualche sguardo del tipo ma questo cosa ci fa qua c’è stato, però col tempo è passato tutto e ora la mia presenza non fa strano a nessuno. Entrando maggiormente nella comunità ti rendi conto di quanto siano accoglienti».
Nell’intervallo tra le due gare, nell’atrio d’ingresso alla palestra, alcuni membri meno giovani della comunità organizzano un rinfresco gratuito, con panini e bibite, da cui chiunque nel pubblico può attingere. E come diceva Mark, ora la palestra comincia a riempirsi considerevolmente e anche il clima si scalda: quando le squadre della finale Under-16 entrano in campo, sugli spalti si sono formate delle vere e proprie curve di parenti e amici, con cori e trombe annesse.
I Marte Ballers (da Martesana, zona nord est di Milano) sfidano gli Alaminos (una cittadina 250 chilometri a nord di Manila) e per l’occasione Mark ci invita a spostarci dietro al tavolo, dove lui e coach Junar coadiuvano, insieme a tre arbitri, la finalissima. La partita è punto a punto e il clima rovente. Qualche adulto esagitato sugli spalti si lascia andare a dei commenti eccessivi – andiamo a intuito, non conoscendo il tagalog – che fanno subito scattare il carismatico Junar. Durante un timeout, si precipita a calmare le acque: è chiaramente il più rispettato nella palestra ed esige che l’ambiente resti leggero, riuscendoci alla perfezione.
Alla fine la spuntano i Marte Ballers, con un tentativo disperato sulla sirena degli Alaminos che non va a buon fine. Tranne qualche sfottò (molto leggero) tra i giocatori, ci è parso di assistere a una vera e propria festa dello sport e di una comunità, in cui l’agonismo c’è, si vive con intensità, ma l’atmosfera resta sempre rilassata. Coppe gigantesche e medaglie varie – premi individuali inclusi – vengono consegnate ai partecipanti di questa “final four” proprio da Mark e Coach Junar, che il giorno dopo viene citato appena ci sediamo a parlare con Alberto Torres.
«Coach Junar è la connessione tra la comunità qui e il basket collegiale nelle Filippine», ci ha spiegato Alberto Torres, vecchia conoscenza di campionati giovanili, Serie D e Promozione lombarde, nonché 57esima scelta al Draft di tre anni fa del campionato filippino. «E anche nel mio caso, era stato Coach Junar a portarmi lì».
Il viaggio di Alberto Torres
L’occasione è arrivata nel marzo del 2021, quando gli NLEX Road Warriors, squadra che milita in PBA, hanno chiamato il "nostro" Alberto con la quarta scelta del sesto round. Era il secondo tentativo di «tornare a casa e coronare il sogno di diventare un professionista»: ci aveva già provato nel 2017, dopo una decina di stagioni sui campi FIP, ma non era andata bene. Quattro anni più tardi, invece, una squadra della massima serie voleva davvero puntare su di lui. E la sensazione, quel giorno, era che il cerchio della sua vita cestistica si stesse per chiudersi.
La parabola cestistica di Torres ha avuto inizio poco dopo l’arrivo in Italia, insieme alla famiglia, quando aveva 9 anni. Tutto è cominciato sul cemento dei playground milanesi, tra le partitelle del weekend con gli amici e i tantissimi tornei filippini – long leagues e one day leagues – a cui prendeva parte. In un pomeriggio qualsiasi al campetto Stendhal, poi, il suo talento grezzo ha catturato l’attenzione di Franco Pellizzola, storico coach della Polisportiva San Carlo con un trascorso, tra le altre, nella massima divisione belga. È stato “Frankie”, come viene chiamato, a intravedere per primo il potenziale di Torres: «Avevo 14 anni e non avevo mai giocato un basket “di sistema”, ma lui voleva che facessi una prova con San Carlo… sono stato lì fino all’Under 21».
Diventerà un’ala di 185 centimetri: «Fisicamente era un animale già da quattordicenne», ricorda un suo compagno di allora. «Era super-atletico, veloce, un treno in penetrazione, con un tiro dalla media devastante. Pur essendosi piano piano adeguato, comunque, è sempre rimasto uno “da campetto”: poteva dominare una partita, 20/25 punti come se niente fosse, e poi in quella dopo segnarne 2 e sbagliare tutte le letture possibili».
Puoi portare Torres fuori dal campetto, ma non puoi portare il campetto fuori da Torres, insomma. Anche perché le giornate nei playground non hanno mai smesso di essere una costante nella sua vita, pure negli anni in Serie D (con qualche assaggio di Serie C tra Opera e PallMilano). Chi si iscriveva ai tornei organizzati dalla comunità filippina in quel periodo, poteva star certo di trovarlo, in una squadra o nell’altra. «Ho iniziato quando avevo 11 anni e fino alla pandemia praticamente non ho mai smesso. Li giocavo davvero con tutti, anche contemporaneamente: c'erano domeniche in cui facevo tre o quattro partite in fila, dalle 9 di mattina fino a sera. Farini, Corvetto, MacMahon… tutti. A volte anche in altre città, e ancora adesso mi capita di ricevere inviti da tornei filippini a Bologna, Roma, Firenze e addirittura dalla Spagna e dal Lussemburgo. In quelli internazionali, sempre organizzati dalle comunità filippine, il livello è parecchio alto: ci giocano anche i professionisti e girano tanti soldi».
I cultori del genere potrebbero avere pensato che Torres è un po’ l’Earl Manigault dello street basket filippino a Milano, e non è un parallelo improprio – a parte la fedina penale e l’aria da bravo ragazzo di Albert (come tutte le leggende, comunque, aspettiamo che il tempo faccia la sua parte). Al pari di “The GOAT”, tra l’altro, pur avendo fatto arrivare il proprio nome nei playground di tutta Italia, Torres non ha mai ricevuto quella chiamata da professionista attesa a lungo. «Non ho mai avuto offerte per giocare qua purtroppo, mi sarebbe piaciuto».
Il sogno, però, era riuscirci tornando nel suo Paese, come per tanti connazionali prima e dopo di lui. «Guardiamo un sacco di partite del campionato filippino, anche collegiale, e sogniamo di giocarci un giorno. Il sistema è come quello americano: ci sono i tornei universitari - i due più importanti sono UAAP e NCAA - e poi si diventa professionisti con il Draft. Il livello del campionato nazionale direi che è più o meno quello della Serie B italiana, anche se fare paragoni è difficile: è un gioco davvero diverso, più simile alla NBA come stile e anche per regole, come passi e palming».
Così, dopo un’annata da miglior realizzatore (quasi 15 punti a partita) a Corsico in Promozione, sette anni fa, il primo tentativo. Nato con premesse poco solide e finito con un volo di ritorno ben prima del previsto. «Quell’anno avevo avuto tanto spazio ed ero cresciuto molto, così mi sono deciso a provare a giocare nelle Filippine. La persona a cui mi sono appoggiato, però, era completamente inaffidabile. Mi aveva promesso dei contatti, ma era tutta fuffa, quindi sono tornato a Milano e sono andato a giocare a Canottieri».
Affacciata sul Naviglio, Canottieri è la polisportiva più antica d'Italia. Nel corso dei decenni ci sono cresciuti 18 atleti olimpici azzurri, tra cui Elena Bertocchi (tuffi) e Florinda Trombetta (canottaggio) nelle ultime edizioni; in ambito cestistico, invece, a livello femminile si sono vinti degli Scudetti e nel maschile si sono forgiati protagonisti di Serie A e Italbasket come Bruno Arrigoni, Filippo Faina e Toni Cappellari. È da qui che riparte il viaggio di Torres verso la terra promessa.
«Il mio obiettivo era vivere facendo il giocatore professionista: svegliarmi, allenarmi, pensare solo a quello». La cura del corpo, assicura chi ha condiviso lo spogliatoio a Canottieri, «era davvero impressionante, quella di un professionista». Questo, però, non è stato sufficiente per assicurargli un’occasione ai piani di sopra. «Credo che sia arrivato fino al livello in cui il suo fisico faceva la differenza, ma già dalla Serie C era più normale come atleta».
Conclusa la parentesi a Canottieri e quella successiva a San Pio X, la pandemia ha interrotto (anche) il suo percorso cestistico, aprendo però una seconda occasione per il possibile ritorno a casa. Ed eccoci di nuovo al PBA Season 46 Draft. «Io ero eleggibile per età e nazionalità, ma prima del Covid c’era il requisito di 7 presenze in campionati locali trasmessi in TV. Con tutti i problemi della pandemia hanno tolto questo vincolo, e coach Junar mi ha consigliato di provarci. Perché, dopo l’ultima volta? Perché mi piace tantissimo l’ambiente e perché pensavo di poterci stare, a quel livello».
Qualche telefonata, dunque, e si è imbarcato sul volo per Manila. «Mi è stato presentato un agente, che mi ha messo in contatto con gli allenatori di diverse squadre. Ho fatto dei tryout con Meralco Bolts, Alaska Aces e NLEX Road Warriors, lasciando una buona impressione. Alla fine, NLEX mi ha draftato come 57esimo: una soddisfazione incredibile».
«Sono stato lì sei mesi, poi sono state introdotte delle nuove regole e tutte le squadre hanno dovuto fare dei tagli, e io mi sono ritrovato senza contratto. L’agente mi ha consigliato di giocare nella lega secondaria, la MPBL, e provare a mettermi in mostra lì. C’erano squadre interessate a me, ma avrei firmato a 20mila pesos al mese, meno di 350 euro: ci puoi vivere lì con quei soldi, ma a Manila non ci vivi molto bene. E allora sono tornato qui a Milano».
Dopo una vita inseguendo la PBA, aveva percorso quel ponte che collega Milano e Manila, per migliaia di ragazzi filippini. Ha vissuto il suo e il loro sogno, ma inevitabilmente il passare degli anni ha fatto subentrare «pensieri diversi nelle scelte personali, di vita». Lo attendeva la sua compagna e quello che è tuttora il suo lavoro. «Nel 2021 mi è stato offerto un contratto indeterminato per lavorare in Poste. Non avevo più 25 anni, ne avevo 30, e tornare qua mi sembrava la scelta giusta. Se avessi avuto un contratto nella prima divisione, però, non so cosa avrei scelto…».
Oggi Alberto gioca a Trezzano, nella Divisione Regionale 1 (ex Serie D). Siamo andati a vederlo qualche settimana fa, sul campo di Garegnano, e abbiamo avuto la sensazione che ci passasse davanti tutto il viaggio di questi mesi nel microcosmo del basket filippino a Milano. Non solo per la presenza di Torres, autore di 10 punti e di qualche giocata che a qualcuno nel pubblico ha ricordato “il Torres di Corsico” (a noi invece sono venuti in mente gli highlights pre-Draft 2021); ma anche per quella di Mattia Cascione, l’MVP del torneo I Am a Baller.
Non erano gli unici, comunque. Presenti anche gli altri matchup affrontati dal filippino quella sera: oltre a Rodrigo Palacio (già, quel Rodrigo Palacio), Gianluca “Chanel” Fiorani ed Emilio Trombini, con cui abbiamo condiviso un’infinità di domeniche al campetto. Cosa ci saremmo persi, se non avessimo mai chiesto a quelli nell'altra metà di campo di raccontarci il loro mondo.